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La gestione dei rischi idraulici nel bacino del Po

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Nel corso degli anni, il Po è stato protagonista di alluvioni catastrofiche, tanto che l'eventuale collasso di un suo argine è considerato l’evento di calamità naturale più grave in Italia dopo l’eruzione del Vesuvio. Armando Brath, professore di Costruzioni idrauliche all’Università di Bologna e presidente dell'Associazione Idrotecnica Italiana, spiega le ragioni del rischio, come gli argini fragili, ragionando sulla necessità di sviluppare una capacità di visione di insieme dei fenomeni e dei problemi: come diceva Einstein, infatti, "i problemi attuali non si possono risolvere perseverando con la stessa mentalità che ha contribuito a generarli". L'articolo è una anticipazione del numero speciale 505 di Italia Nostra dedicato al Po.

Crediti: Frittoli, Edoardo (2015-11-13). "13 novembre 1951. La catastrofe del Polesine". Panorama

I rischi idraulici possono ascriversi a tre categorie generali: il rischio di siccità, che può compromettere gli usi delle acque (potabile, irriguo, industria, energia), il rischio alluvionale e idrogeologico, che riguarda la difesa dalle acque in relazione a fenomeni quali piene e frane, e il rischio ambientale, legato alla tutela della qualità delle acque e degli habitat dall’inquinamento.

Il Po e le sue alluvioni

Il Po è la fonte di importantissimi prelievi idrici di acque superficiali, che soddisfano una parte considerevole dei fabbisogni di acqua della Pianura Padana, e che sono dello stesso ordine di grandezza delle portate residue che transitano nel corso d’acqua in condizioni di magra; il totale degli usi dei prelievi in concessione è circa 300 mc/s (metri cubi di acqua al secondo), che corrispondono praticamente alla portata di magra del Po (ovvero quella che si verifica nei suoi giorni con portata minore). Solo il canale Cavour registra un prelievo di circa 100 mc/s, mentre il Cavo Napoleonico oltre 60 mc/s. Quest’ultimo viene usato per convogliare l’acqua e condurla nel Canale Emiliano-Romagnolo che soddisfa i fabbisogni idrici per uso irriguo delle pianure bolognese e romagnola e, da qualche anno, contribuisce anche all’alimentazione idropotabile della Romagna.

Il Po contribuisce quindi in maniera decisiva persino a soddisfare il fabbisogno d’acqua del territorio romagnolo, che è ben al di fuori del suo bacino naturale. Da ciò si può avere un’idea della rilevanza degli impatti sociali ed economici che un’eventuale siccità che riguardi il fiume Po potrebbe comportare.

L’alto livello di esposizione al rischio alluvionale del bacino del Po è testimoniato dalla storia: la piena del 1951, con l’alluvione del Polesine, portò danni per il 4% del PIL nazionale dell’epoca, l’alluvione del 1994 in Piemonte danni pari all’1,2% del PIL e quella dell’ottobre 2000 provocò quasi 40 tra morti e dispersi e circa 40mila persone evacuate. Per comprendere la severità del livello di rischio alluvionale nel bacino del Po, è sufficiente menzionare che un eventuale collasso di un argine del Po è considerato l’evento di calamità naturale più grave, temibile in Italia, dopo un’eruzione del Vesuvio.

I limiti degli argini

Per difendersi dalle alluvioni, è stato realizzato un complesso sistema di argini lungo il corso del Po, costruiti attraverso i secoli (si ha testimonianza di tratti arginati che risalgono all’epoca etrusca e nel XIV secolo già c’era una certa continuità delle arginature dal mantovano al mare), progressivamente sopraelevati a partire dalle piene storiche e via via per le successive. Oggi gli argini delimitano il Po per circa 850 Km, conteggiando sia lo sviluppo in destra che quello in sinistra del fiume, e per circa 1400 Km gli affluenti. Sono opere dal punto di vista ingegneristico molto semplici; nel loro insieme, però, costituiscono una grandissima opera di ingegneria, posta a protezione dalle piene.

Questi argini hanno però, ancora oggi, un grave difetto, come diceva Giulio De Marchi nel 1952: “la difesa che essi offrono presenta un grave peccato d’origine, quello di non ammettere alternative o vie di mezzo, tra l’efficacia completa e il disastro”; se l’argine viene sormontato, cioè, è quasi certo che crolli. Oggi si stanno studiando interventi di consolidamento, i cosiddetti argini tracimabili, in grado di superare questo difetto di origine. Inoltre, aver alzato progressivamente gli argini, dopo ogni grande piena, ha in realtà sempre più confinato il deflusso delle acque, facendo quindi diminuire le naturali capacità di laminazione e aumentando progressivamente i livelli e le portate di piena nei tratti vallivi. È ovvio che, in futuro, non ci si potrà continuare a difendere con la medesima strategia, alzando cioè gli argini all’infinito, anche per motivi di inaccettabile impatto ambientale, oltre che per i motivi idraulici menzionati.

A riprova di tale effetto indesiderato del confinamento arginale, abbiamo realizzato un esperimento di simulazione numerica con apposito modello matematico per il tratto da Cremona a Pontelagoscuro (Fe), simulando il deflusso della piena dell’ottobre 2000 una volta con la geometria dell’alveo dell’epoca e un’altra volta con quella ricostruita in base alle sezioni rilevate nel 1878: è emerso che nel 2000, a causa della minore laminazione dovuta al sovralzo degli argini, la portata al colmo a Pontelagoscuro è stata superiore di circa 2200 mc/s a quella che si sarebbe avuta nel 1878!

Gli argini hanno anche lo svantaggio di potere risultare fragili, pure in occasione di eventi di piena di relativamente modesta entità e che hanno quindi piccoli tempi di ricorrenza. Si pensi alla rottura arginale, che ha causato circa 250 milioni di euro di danni, sul fiume Secchia, affluente emiliano del Po, avvenuta nel 2014, nonostante si trattasse di un evento alluvionale modestissimo (tempo di ritorno 5 anni): gli argini presentavano cavità prodotte da animali fossori, in particolare tane di volpi.

Dobbiamo temere quindi non soltanto gli eventi di piena eccezionali, ma purtroppo anche eventi di relativamente modesta entità e che quindi possono verificarsi, ogni anno, con elevate probabilità.

Strategie alternative: le golene chiuse da Cremona al Mincio

Occorre allora chiedersi cosa fare per andare oltre la strategia tradizionale difensiva basata sugli argini. Si potrebbe ad esempio pensare di operare sul Po con casse di espansione delle piene, come si è fatto su molti suoi affluenti, ma questo non sarebbe possibile a causa degli enormi volumi necessari: se queste casse sugli affluenti hanno tipicamente volumi dell’ordine al più di un paio di decine di milioni di metri cubi, sul Po ci vorrebbero volumi di invaso dell’ordine almeno di 500-1000 milioni di mc (impossibili da reperire).

Va peraltro detto che, in realtà, queste “casse” già ci sono: da Cremona al Mincio vi sono infatti le cosiddette “golene chiuse” (separate dall’alveo di magra da argini golenali e che quindi entrano in funzione solo quando il livello e le portate nel fiume sono già molto elevati), che hanno una capacità di invaso complessiva di circa 550 milioni di mc. Si tratta di una straordinaria risorsa disponibile sul territorio, che però non è stata finora pienamente sfruttata; l’Autorità di Bacino Distrettuale e l’Agenzia Interregionale per il fiume Po stanno quindi studiando cosa di più si può ottenere da questo patrimonio di capacità di invaso che finora è stato utilizzato in maniera molto empirica, nella gestione quotidiana del servizio di piena.

Affrontare la probabilità delle grandi alluvioni

Un ultimo tema da affrontare è come gestire le grandi alluvioni, ad esempio le cosiddette “piene 500-ennali”, per le quali gli argini attuali non possono offrire protezione; si tratta di eventi che, ogni anno, hanno una probabilità molto piccola di verificarsi (appunto 1 su 500, cioè lo 0.2%), ma da non sottovalutare affatto, dato che, se si considera un arco di tempo di 50 anni da oggi, tale probabilità diventa quasi del 10%, quindi tutt’altro che modesta.

Abbiamo effettuato numerose simulazioni del deflusso di queste piene con i modelli matematici da noi messi a punto. Considerando una piena 500-ennale di tipo piemontese, con una distribuzione spaziale delle piogge simile a quella del 1994 (ma ovviamente con piogge più intense), con l’assetto attuale e gli argini “erodibili” (quali oggi sono) si avrebbero un volume esondato pari a 620 milioni di mc di acqua e danni stimati per 7,8 miliardi di euro. Questa stima riguarda i soli danni diretti, essendo praticamente impossibile stimare a priori i cosiddetti danni indiretti; tenendo conto dell’incidenza media dei danni indiretti desunta da casi storici, il danno totale dovrebbe risultare 2.5-3 volte maggiore, quindi tra i 20 e i 25 miliardi di euro.

Qualora invece si consolidassero gli argini rendendoli sormontabili senza crollo, si avrebbe un volume esondato pari a 200 milioni di mc di acqua con danni diretti scesi a 2,3 miliardi di euro.

Ripensare all'insieme

Questo ragionamento è chiaramente solo il risultato di simulazioni numeriche di uno scenario la cui traduzione in realtà presenta rilevanti problemi, non solo e non tanto di costi quanto di accettazione sociale. Esso però richiama alla nostra attenzione che oggi occorrerebbe finalmente sviluppare una capacità di visione di insieme dei fenomeni e dei problemi che possa portare a considerare “l’intero territorio come un’entità unica e solidale, da proteggere con il minimo danno complessivo”, necessità già rappresentata nel 1952 da Giulio De Marchi.

Tutto ciò richiede un cambio di vedute epocale, che ovviamente va condiviso nella maniera più ampia possibile. È però molto chiaro che tale cambio di vedute è necessario e direi anche urgente, vista la rilevanza dei rischi idraulici ai quali il territorio padano è attualmente esposto: infatti, come diceva Einstein, i problemi attuali non si possono risolvere perseverando con la stessa mentalità che ha contribuito a generarli.

 


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