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La foresta in farmacia: il mercato delle botanical drugs

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"Mio giovane puledro affamato, non ci sono piante buone per il cibo che non lo siano anche per la cura, purché prese in giusta misura”: così l'erborista Severino ammonisce il giovane Adso (desideroso in realtà di carpire il nome delle “erbe che provocano cattive visioni”) nel romanzo “Il nome della rosa” di Umberto Eco. Dallo studio delle “piante buone” è nata la farmacologia moderna, che però, nell'ultimo secolo, si è sviluppata nella sintesi chimica dei principi attivi e nell'industrializzazione degli stessi, relegando l'erboristeria a un ruolo sostanzialmente marginale. Ma il settore delle cosiddette botanical drugs, o farmaci vegetali, non è affatto scomparso.

Wall Street è stata la prima ad accorgersi della diffusione planetaria delle botanical drugs: pochi giorni fa la BCC Research, un'azienda di consulenza americana leader nell'analisi di prodotti tecnologici basati sulle scoperte scientifiche, ha reso pubblico un documento intitolato “Farmaci di derivazione vegetale: mercati globali” (Botanical and Plant-derived drug: Global Markets). Il report, che esplora le potenzialità degli investimenti nel settore, è in realtà l'aggiornamento di uno precedente, del 2004, che era stato il primo (e finora unico) tentativo di analizzare in una prospettiva economica il mondo della farmacologia botanica, un mondo che in cui si sovrappongono medicina, economia e, ovviamente, politica.

Un mercato in espansione

Il report non si occupa in realtà di rimedi "alternativi" ma di veri e propri farmaci o integratori alimentari prodotti dalla industria farmaceutica. Questo mercato è in una fase di espansione, con un tasso di crescita che - benché molto inferiore a quello dei farmaci - sfiora il 651% dal 2004 a oggi. Nel solo 2008 (ultimo anno in cui il US Census Bureau ha fatto un rilevamento) le grandi aziende farmaceutiche fatturavano su queste medicine 19 miliardi di dollari, a fronte però di un investimento in ricerca di 62,5 miliardi di dollari: quest'ultimo dato indica in modo chiaro che le multinazionali del farmaco vedono nelle botanical drug un settore in crescita. Nonostante questo ricco investimento in ricerca, secondo la PhRMA (Pharmaceutical Research & Manifacturers of America), lo sviluppo di un nuovo farmaco, dagli studi botanici alla commercializzazione, richiede dai 10 ai 15 anni, e solo 3 nuovi medicinali ogni 10 producono un ritorno economico che copre le spese di ricerca e sviluppo. Nel 2007, nei soli Stati Uniti vi erano circa 400 prodotti medicinali di derivazione vegetale, con una forza lavoro impiegata di più di 25.000 persone. Negli ultimi anni circa 2.900 nuovi farmaci botanici erano in fase di studio.

Quali controlli?

Questi numeri pongono il problema della regolamentazione del mercato, al momento molto superficiale. Come afferma Alessandro Nobili dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano “il problema è la sperimentazione clinica, che spesso manca per le botanical drugs: la sola presenza di composti chimici, unita all'origine naturale, sembra bastare a rendere sicuro il prodotto. Ma non sempre naturale equivale a salutare”. Nobili conferma anche che “ormai le botanical drug sono sempre più usate dai pazienti”, anche attraverso l'acquisto diretto su internet. Il nodo di fondo è quindi l'equiparazione tra farmaci “classici” e le botanical drug: “Nel mondo degli enti regolatori dei farmaci c'è una grande discussione in merito, proprio per l'ampiezza che sta assumendo il fenomeno. Se la medicina complementare (tra cui rientrano le botanical drug, ndr) deve essere messa sullo stesso piano della farmacologia, allora deve sottostare alle stesse procedure e agli stessi test per garantire la sicurezza del farmaco. Bisogna anche mettere ordine nelle procedure di produzione, specialmente per quanto riguarda le quantità standard di principio attivo e la corretta miscelatura delle varie erbe o piante: al momento tutto questo non è verificato”, conclude Nobili.

Lo zampino della Cina

La questione del grande revival delle botanical drug è strettamente legata anche ai nuovi equilibri geopolitici mondiali. Insomma, anche qui la Cina s'avvicina. O per meglio dire, il suo mercato interno sta diventando la nuova frontiera del business farmacologico: è proprio la cosiddetta medicina tradizionale cinese il fulcro del rilancio delle botanical drug. L'Organizzazione Mondiale della Sanità stima che il giro di affari sui medicinali tradizionali cinesi sia di 83 miliardi di dollari e rappresenti circa il 40% delle vendite di medicinali del mercato cinese. La faccenda non riguarda ormai solo la Cina: nel mercato si stanno buttando tutte le multinazionali più importanti. Tra i primi, la Nestlè.

Si muove la Nestlè

Lo scorso novembre l'OMS ha avviato una serie di incontri con base ad Hong Kong per definire il suo “Traditional medicine, ten years global plan” e proprio negli stessi giorni Nestlè SA (la casa madre del gruppo, con sede in Svizzera) ha firmato un accordo di partnership con la Hutchinson China Meditech Ltd: le due multinazionali hanno così creato una terza società, la Nutrition Science Partner Ltd, che dovrà studiare, sviluppare, brevettare e commercializzare nuovi prodotti basati sulla medicina tradizionale cinese. La questione si fa ancora più interessante se si considera che la Hutchinson China Meditech è di proprietà di Li KaShing, l'uomo più ricco di Hong Kong e del sudest asiatico (decimo nel mondo): non parliamo quindi di progetti collaterali o azioni filantropiche. Nestlè formalmente ha presentato l'azione come un tentativo di trovare rimedi contro l'obesità, ma in realtà gli analisti ritengono che la vera intenzione sia di entrare nel ricco mercato dei farmaci tumorali, immettendo nel progetto il know-how di Prometheus Laboratories Ltd, un'azienda di ricerca farmacologica incentrata su tumori e malattie gastrointestinali acquistata da Nestlè nel 2011. La creazione della Nutrition Science Partner permette a Nestlè di avere l'esclusiva sulla biblioteca della China Meditech, che contiene più di 50.000 estratti botanici e 1.500 prodotti naturali purificati. Lo Shangri-la della farmacologia botanica, insomma. Siamo così convinti, quindi, che i farmaci di origine botanica non meritino un dibattito pubblico?

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