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Il dogma vacilla, il genoma sta male. Viva l'evoluzione!

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‘L’intelligenza e la fantasia dell’uomo vengono surclassate dall’evoluzione, che genera organismi complessi nella loro struttura, affidabili nella loro autoriproduzione, capaci di cambiare e proliferare nonostante le catastrofi che hanno punteggiato i 4,5 miliardi d’anni della vita sulla Terra. Date le sfide che ci aspettano come specie, dobbiamo capire meglio la saggezza di una natura che supera le inevitabili e imprevedibili minacce di ambienti spesso sfavorevoli’. Così chiude il suo libro J. A. Shapiro, microbiologo dell’Università di Chicago: laurea in letteratura inglese ad Harvard, Ph.D. in genetica all’Università di Cambridge, post-laurea politico-didattico nell’arcinemica Cuba di Castro subito dopo la Baia dei Porci. La chiusa esalta l’evoluzione della materia come la nostra più grande intuizione, ma riconosce il perdurare del mistero dell’origine della materia vivente e del suo sviluppo nel corpo e nella mente del suo protagonista, l’uomo. E lancia un appello alla difesa della vita da minacce di crisi, se non di distruzione. Negli ultimi 500 milioni di anni nove ‘grandi estinzioni’ hanno causato vuoti presto riempiti da specie nuove o sopravvissute. L’ultima estinzione, causata dalla catastrofica caduta di un meteorite nello Yucatan 65 milioni di anni fa, pose fine al Cretaceo (e ai dinosauri) e aprì il Terziario ai mammiferi (e all’uomo). Curioso: proprio ai dinosauri ho pensato iniziando la prima pagina del libro. Shapiro parte con una domanda, ‘Come emerge il nuovo nell’evoluzione?’, cui risponde: ‘L’innovazione, non la selezione, è al centro dei cambiamenti evolutivi. Senza variazioni e novità, la selezione non ha nulla su cui agire’. Darwin dissentirebbe: i dinosauri, che il padre della selezione stranamente ignora, sparirono perché non erano cambiati e non s’erano adattati bene ad un ambiente improvvisamente diventato proibitivo, come invece riuscirono a fare i piccoli rettili, i mammiferi e altri viventi. 

Ma superato un incipit discutibile e approdati ad una conclusione alta, in mezzo si susseguono spunti geniali e narrati con gusto: la laurea in letteratura è servita. Lo spunto più importante è l’abrogazione del Dogma Centrale della Biologia di Crick: il DNA non è più il granitico depositario (blue-print, master-copy) dell’informazione biologica; gli subentra e effimero un elusivo mix di DNA, proteine e RNA. È la vecchia cromatina di Flemming? O la nucleina di Miescher? Il DNA diventa un sistema di memoria che dialoga col caso (che non è sempre un alibi all’ignoranza, come denunciava Darwin) e con ambiente e abitudini: che Lamarck avesse qualche ragione? Geni imprevedibilmente modificabili e mobili ristrutturano il DNA, ridimensionano la clonazione riproduttiva (Dolly) e rigenerativa (staminali), e lanciano un’ingegneria genetica naturale, vaticinata dalla musa scientifica di Shapiro, Barbara McClintock: se ne scopriamo principi e modi, andiamo oltre i rudimentali OGM che abbiamo approntato sinora. Ma intanto se ci ammaliamo faremo meglio a ricorrere all’interferone o all’insulina da DNA ricombinante, più affidabili dei prodotti ‘naturali’, anche se non meno cari, come promesso dai pionieri dell’ingegneria genetica all’epoca di Asilomar (1975). Ma tornando alla ricerca di base, se l’ontogenesi ricapitola la filogenesi, come dicevano prima Häckel e poi Gould (noi parliamo di Evo-Devo) forse capiremo meglio anche lo sviluppo, e potremo introdurre qualche elemento di razionalità nel suo controllo. Le sfide aumentano: altro che età dell’oro...

Shapiro è un antidogmatico smitizzatore: non risparmia né geni, né genomi. Sulla definibilità dei primi è incerto e li virgoletta sempre: come fanno i nostri 20,000 geni ad assicurarci il primato sulla biosfera, mentre il protozoo Trichomonas per sguazza nel tratto genitale femminile abbisogna di ben 30.000 geni? Quanto ai Progetti Genomi, la digitazione del nostro DNA personale dovrebbe estendersi al sistema di memoria che codifica i 200 tessuti che ci formano e gli stadi di sviluppo fisio-patologico-anagrafico che ci caratterizzano: per i genomi si profila una fine ingloriosa o un’indeterminabilità alla Heisenberg. Nonostante le assicurazioni e le promesse di Dulbecco, Watson e tanti genomisti e post-genomisti il DNA non spiegherà mai né quel che succede al mondo, né che cosa ci rende umani, né come mai io sono diverso da tutti gli altri esseri umani presenti, passati e futuri, né come mai nel corso del mio sviluppo io cambio fenotipo e genotipo: l’input dell’ambiente resterà a lungo indecifrabile, anche se si tradurrà in variazioni di sequenze del DNA, magari in poche cellule del cervello, come aveva confusamente intuito Lamarck. Ma è altrettanto vero che lo studio del DNA, e quello parallelo degli altri componenti di quello che potremmo chiamare ‘ipergenoma’ (RNA cromatinico, proteine istoniche e non, variabili per conto loro e in più variamente combinati fra loro), chiariranno meglio patologie complesse come il cancro e i tortuosi meandri di quel fiume carsico che è l’evoluzione. Nelle pause (ri)leggiamoci i ‘Quattro quartetti’ di Eliot, perché potremmo ritrovarci là da dove eravamo partiti in fretta oppure là dove ci siamo fermati troppo poco...


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