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La comunicazione e l’informazione scientifica ai tempi del Covid

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L'intervista a Giuseppe Remuzzi sul Corriere della Sera fa riflettere sulla comunicazione in tempi di Covid-19: non solo è diventata consuetudine in ambito biomedico la pubblicazione preliminare di lavori non ancora sottoposti a peer review, ma i risultati di tali lavori vengono anche diffusi dai media. Tuttavia, l'influenza della ricerca sulle decisioni politiche, più che mai evidente nel corso della pandemia, comporta anche maggiori responsabilità e la necessità, per tutti gli attori dell’informazione e della comunicazione scientifica, di tenere alta la guardia del rigore scientifico.
Crediti immagine: Gerd Altmann/Pixabay. Licenza: Pixabay License

Il nuovo coronavirus non ha solo stravolto le nostre vite e la nostra società, ha anche rivoluzionato la comunicazione scientifica in ambito biomedico, riducendo enormemente i tempi della pubblicazione dei risultati delle ricerche. Così, è ormai diventata consuetudine una pratica del tutto estranea al campo biomedico, anche se del tutto normale in fisica: la pubblicazione preliminare dei lavori in appositi archivi (Biorxiv e Medrxiv) prima che vengano sottoposti alla peer review, la revisione da parte dei pari. Ma questa liberalizzazione della diffusione dei dati scientifici non si ferma qui, dato che persino la pubblicazione senza una peer review può essere troppo lenta per soddisfare l’urgenza che la notizia comporta. Così, le conclusioni di lavori scientifici sul virus, ma più spesso i risultati preliminari di quegli studi, vengono diffusi dai quotidiani o dalla televisione, attraverso interviste agli autori, che ovviamente non possono sostituirsi a una pubblicazione scientifica e fornire i dettagli della ricerca.

Così ha fatto molto discutere l’intervista di Remuzzi sul Corriere della Sera, che riferiva i risultati di una ricerca su 431 persone dell’area milanese dei quali circa il 10% è risultato positivo al tampone che evidenzia il virus con una tecnica (Rt-PCR) che è in grado, attraverso un'amplificazione, di rivelare quantità minime di RNA virale. In questi soggetti la positività è stata ottenuta solo dopo un elevato numero di cicli (34-38), indicativo, secondo Remuzzi, di una carica virale insufficiente a infettare altri soggetti.

Tamponi e cariche virali

In biologia, gli effetti causati dagli agenti, siano essi farmaci o virus, non hanno un andamento lineare in rapporto a qualsiasi concentrazione, ma entro un range di concentrazioni ben definito, al disotto del quale (soglia) non si osserva alcun effetto e al disopra del quale (saturazione) non si osserva alcun incremento nonostante l’ulteriore aumento della concentrazione dell’agente. Il virus attuale, così come la maggior parte dei farmaci, per produrre un effetto sulle cellule bersaglio deve preliminarmente legarsi a un recettore, in questo caso l’ACE2 (enzima di conversione dell’angiotensina 2), situato sulla membrana delle cellule nelle quali il virus si replicherà. Una carica virale troppo bassa non permette al virus di legarsi in maniera significativa al recettore. È quindi perfettamente legittimo ritenere che al disotto di una certa carica, la quantità di virus che si ritrova col tampone nelle vie respiratorie del paziente possa essere insufficiente a infettare altri soggetti.

Remuzzi, nella sua intervista, parla sempre di carica virale e anzi cita il lavoro su Nature del gruppo di Drosten, che indica in centomila copie la soglia della concentrazione del virus nel tampone, al disotto della quale il soggetto non sarebbe in grado di infettare. Il fatto che Remuzzi parli di carica virale e faccia riferimento al lavoro di Drosten fa pensare che anche i soggetti del suo studio siano pazienti in corso di infezione o in via di guarigione. Tuttavia, vista l’alta percentuale di positivi al tampone (10%) tra i soggetti di Remuzzi, è possibile che questi non siano, come quelli di Drosten, soggetti in corso di infezione o in via di guarigione ma soggetti che hanno avuto in passato, varie settimane prima di fare il tampone, una forma benigna o paucisintomatica, e non diagnosticata, di Covid.

Da studi precedenti è noto che l’RNA virale viene eliminato nelle secrezioni del tratto respiratorio e orofaringeo per lungo tempo dopo la scomparsa dei sintomi; non si tratta però di virus interi capaci di infettare ma piuttosto di RNA virale inattivo, derivante probabilmente dal disfacimento di cellule dalle quali il virus era stato fagocitato o che erano state infettate. Questi soggetti, che all’anamnesi riferiscono sintomi indicativi di un Covid pregresso, dovrebbero essere considerati come falsi positivi, dato che è altamente improbabile che l’RNA virale trovato col tampone sia dotato di potere infettante. Sarebbe fuorviante infatti assumere che le osservazioni su una popolazione da tempo guarita dal Covid possano estendersi a soggetti in corso di Covid o in via di guarigione.

Se si vuole pubblicare al più presto

Naturalmente questi interrogativi non possono essere chiariti in una intervista, a meno che l’intervistatore non conosca bene gli aspetti del tema in questione. Per esempio, una domanda da porre a Remuzzi sarebbe stata la seguente: “quanti dei soggetti studiati avevano avuto in passato sintomi simil-Covid e quando?” , in modo da capire se la positività del tampone si riferiva a RNA virale proveniente da un probabile Covid di vecchia data oppure da un’infezione in atto o in via di guarigione.

È dunque evidente che solo la possibilità di consultare il lavoro in forma scritta può fornire una risposta a questi fondamentali interrogativi. Purtroppo sono molti i lavori i cui risultati sono stati comunicati in interviste a ricercatori, peraltro rispettabili, che però non hanno ancora visto la luce e dei quali, quando la vedranno, ci saremo del tutto dimenticati. Questo, quando tutto va bene, ovviamente. Quando cioè gli autori del lavoro o gli stessi revisori hanno un approccio rigoroso. Perchè può succedere che nel desiderio spasmodico di pubblicare al più presto, siano gli stessi revisori del lavoro o il loro editore a non pretendere drastiche revisioni che comportino ulteriori esperimenti e che finirebbero per ritardare la pubblicazione, riducendo l’impatto del lavoro stesso.

Così, al tempo del Covid capita, più spesso che di norma, che siano gli stessi editori delle riviste scientifiche ad allentare il rigore con il quale vengono valutati i lavori, privilegiando la rapidità al rigore della pubblicazione. Così, riviste prestigiose e con un elevato fattore d’impatto, come il New England Journal of Medicine e Lancet, in tempi più normali avrebbero probabilmente approfondito le origini di Surgisphere, la società che avrebbe fornito agli autori di due lavori pubblicati sulle due riviste (qui e qui), il materiale clinico sul quale sono stati basati i lavori e probabilmente avrebbero notato l’incongruenza di una serie di risultati degli stessi lavori che hanno portato al loro ritiro.

L'influenza della ricerca sulle decisioni politiche in tempi di Covid

Questo aspetto, cioè l’affidabilità delle pubblicazioni scientifiche, è tanto più importante ora, al tempo del Covid, di quanto probabilmente non lo sia mai stato, in quanto mai come in questo tempo la ricerca ha influenzato le decisioni politiche dei governi e la policy degli enti regolatori nazionali e internazionali.

Due sono infatti gli aspetti, tra loro strettamente legati, che colpiscono: la leggerezza e la rapidità delle decisioni dei governi ed enti preposti. È stato sufficiente uno studio retrospettivo su Lancet, non un trial randomizzato, che indicava un aumento di mortalità in seguito alla somministrazione di idrossiclorochina, associata o meno all’azitromicina, per produrre a valanga in tutto il mondo una vera e propria messa all’indice dell’idrossiclorochina, compreso il ritiro dell’autorizzazione all’uso off-label per il Covid e, in certi casi, l’interruzione di trial clinici in corso. Salvo scoprire a posteriori, cioè dopo la pubblicazione, una serie di inadeguatezze nel lavoro e una poco chiara origine della società fornitrice dei dati, la Surgisphere, cui abbiamo accennato sopra.

Non c’è dubbio che il Covid (dove d sta per disease, malattia) e il virus che ne è la causa, il SARS-CoV-2, ha posto i ricercatori specialisti della materia, e non solo, al centro dell’interesse nazionale e internazionale, conferendo alla ricerca, ora più che mai, la possibilità di influenzare scelte politiche e sociali che hanno ricadute immediate e profonde sulla vita di ciascuno di noi. Questa condizione di relativo privilegio comporta anche maggiori responsabilità e la necessità, per tutti gli attori dell’informazione e della comunicazione scientifica, di tenere alta la guardia del rigore scientifico.

 

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