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Coinvolgere i pazienti nella ricerca: l'esempio del modello MULTI-ACT

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È stata recentemente pubblicata, su Health Research Policy and Systems, la descrizione del modello MULTI-ACT, costruito dall’Associazione italiana sclerosi multipla, con la sua Fondazione, insieme a ricercatori, istituzioni, industria e persone con sclerosi multipla per avere in Italia e in Europa una ricerca partecipata, innovativa, responsabile. Luca Carra ne parla Paola Zaratin, direttrice Ricerca Scientifica FISM e coordinatrice del progetto MULTI-ACT. 

Crediti immagine: Markus Winkler/Unsplash

Cosa vuol dire “ricerca responsabile”? E in che modo si può massimizzare la partecipazione di pazienti e di altri portatori di interesse nel suo disegno e nella sua conduzione? Negli ultimi anni c’è stato un fiorire di proposte per portare la ricerca scientifica, in particolare quella in campo biomedico e clinico, più vicina alle persone interessate a una determinata condizione o malattia. Ma, a parte generiche intenzioni dichiarate di maggiore apertura e diffusione dei risultati, un vero passo in avanti è stato fatto con il progetto europeo Multi-Act, nel quale la Fondazione italiana sclerosi multipla (FISM), insieme ad altri partner, ha immaginato come generare, attraverso la partecipazione allargata alla ricerca, un vero cambio di paradigma.

Ne abbiamo parlato con Paola Zaratin, direttrice della ricerca scientifica della FISM e prima autrice dello studio The MULTI-ACT model: the path forward for participatory and anticipatory governance in health research and care, pubblicato a febbraio su Health Research Policy and Systems.

Si parla spesso di coinvolgere i pazienti non solo nella cura ma anche nella ricerca. Quando poi, però, si va sul concreto, spesso restano solo parole e buone intenzioni. Cosa proponete con il vostro modello MULTI-ACT?

In effetti non è facile: stiamo parlando di mondi lontani anche se connessi, separati come sono da deficit di conoscenza e di competenza scientifica. Ma questo non deve impedire un dialogo fra pazienti e ricercatori su condizioni e malattie verso le quali le persone coinvolte possono portare punti di vista che completano e talvolta rivoluzionano il punto di vista e le ipotesi di lavoro dei ricercatori. Si pensi, per esempio, come in molti ambiti della medicina sia importante la pratica di riferire in modo sistematico e controllato non solo i sintomi ma anche il vissuto che il paziente ha della propria condizione. Queste cosiddette misure auto-riportate, o Patient Reported Outcome, rendono di fatto pienamente scientifico il coinvolgimento del paziente nella ricerca, al punto che le stesse ipotesi di base di uno studio clinico possono cambiare aderendo a tali misure.

Per esempio, nel campo della sclerosi multipla, l’esperienza del dolore e più in generale delle sensazioni che si provano nel progresso della malattia o nell’uso dei farmaci sono aspetti che possono essere integrati fra i parametri da considerare, insieme a quelli fisici e biochimici normalmente considerati nel disegno dello studio. Ma c’è un altro aspetto oserei dire rivoluzionario di tale coinvolgimento.

Quale?

Se non ci si limita a un ascolto più fine e sistematico dei vissuti del paziente e di chi viene in generale coinvolto nella sperimentazione, ma si fa invece in modo che queste persone vegano coinvolte prima ancora dell’inizio della sperimentazione, diciamo pure dall’inizio del progetto di ricerca, sarà possibile progettare una governance della ricerca stessa molto più capace di rispondere ai bisogni di tutti, e produttiva in termini di ricadute scientifiche e cliniche. A tale scopo, bisogna tuttavia modificare i criteri di governance nella gestione della ricerca, in accordo col paziente e avendo costituito gli elementi per valutare gli impatti multidimensionali della partecipazione del paziente.

Cosa sta facendo concretamente la vostra associazione per andare in questa direzione?

Il Terzo Settore ha già nel proprio DNA una predisposizione a una gestione partecipata, a partire dal fatto che le decisioni sulle scelte, i progetti e le azioni da intraprendere vengono prese, come accade nell'Associazione Italiana Sclerosi Multipla, dall’assemblea nazionale. Nello specifico dei progetti di ricerca, come FISM abbiamo al momento otto persone con sclerosi multipla che portano la loro esperienza di malattia in progetti di ricerca nazionali ed europei, con ottimi risultati.

Quello che mi sta raccontando mi sembra un esempio importante di cittadinanza scientifica, declinata in ambito biomedico. Qual è secondo lei il futuro di una ricerca responsabile e partecipata?

Con il progetto MultiAct e con questa recente pubblicazione abbiamo cominciato a costruire un metodo di governance di questo nuovo tipo di ricerca, che non si può basare sulle buone intenzioni e il volontarismo ma deve radicarsi in una prassi scientificamente solida, anche per misurarne i risultati in termini di impatto sulla comunità dei pazienti - e non solo. Affinché la cosiddetta “scienza del e con il paziente”, determinante nella storia della nostra associazione, avesse una solida credibilità scientifica, era necessario che la comunità scientifica riconoscesse il valore di questo nuovo modello. Si può ben dire che noi, come associazione, già utilizziamo questo approccio nei progetti nazionali ed europei cui partecipiamo. Facendo anche scuola: per esempio, il progetto europeo ALAMEDA, di cui siamo partner, ha già abbracciato il modello MULTI-ACT. La stesso hanno fatto la Progressive MS Alliance e la Patient Reported Outcome for Multiple Sclerosis Initiative. Stiamo insomma seminando nelle organizzazioni che finanziano ricerca scientifica una nuova capacità di gestire la ricerca e la cura in maniera partecipata, in modo da avere un impatto reale sulla salute delle persone, il loro benessere e i loro diritti a essere curati al meglio.

La pandemia di Covid-19 ha aumentato l’esposizione della popolazione alla ricerca scientifica, ma anche una residua sfiducia in essa, almeno in certi strati della popolazione. Cosa si può fare per superare questa impasse e approfittare del momento per rinsaldare il rapporto fra scienza e società?

La pandemia ci ha insegnato il dovere di informare ed educare al metodo scientifico, in modo che il coinvolgimento della popolazione non sia fideistico e formale ma consapevole, un vero empowerment, o se si preferisce una compiuta cittadinanza scientifica. È dovere quindi di ogni ricercatore imparare a comunicare quello che fa - cose sui cui in AISM insistiamo sempre - e predisporre gli strumenti e le capacità per avere a bordo dei progetti di ricerca anche pazienti e rappresentati della società civile. Solo un cittadino informato e coinvolto non avrà paura e si fiderà dei risultati della ricerca. Nella scienza, ogni risultato raggiunto è un’evidenza che vale fino a prova contraria; non ci sono verità assolute e immutabili, perché la ricerca è in continua costruzione. La comunicazione della scienza deve prevedere quindi anche la comprensione del carattere progressivo della ricerca e il valore dell’incertezza, che non va nascosto ma esplicitato.

Si prenda per esempio il recente studio che mostra un’indubbia correlazione fra esposizione al virus Epstein-Barr e un possibile esordio della sclerosi multipla. Il dato epidemiologico svela la solidità di questa correlazione che tuttavia è assai poco specifica, visto che quasi tutti alberghiamo questo virus ma solo una minoranza si ammala. Perché? Perché ci troviamo di fronte a una malattia multifattoriale, dove contano anche un’eventuale predisposizione genetica e altri fattori ambientali. Questa consapevolezza ci porta ad apprezzare questo recente risultato, che fornisce importanti informazioni sulla malattia, e a essere positivi sull’eventuale sviluppo di un futuro vaccino, ma ci rende anche consapevoli che - come per Covid-19 - non dobbiamo confidare sulla bacchetta magica di un unico intervento, ma su un approccio preventivo e terapeutico sempre più personalizzato e complesso che lavori su più fronti.

Tornando al “sogno” di una scienza pienamente partecipata, qual è la vostra ambizione oggi?

Il mio sogno, personalmente, è costruire un engagement coordination team, un grande gruppo nel quale la partecipazione delle persone con sclerosi multipla non sia solo legata a singoli progetti di ricerca, come dicevamo prima, ma diventi una realtà associativa in cui persone di tutti i territori italiani siano coinvolte nel portare la propria esperienza dentro l’Agenda della sclerosi multipla e della ricerca sulla malattia. A hardly opened pass has to become a highway: la strada appena aperta con grande impegno deve diventare un’autostrada. Se l’ecosistema di ricerca e salute sa ascoltare bene tutti gli attori coinvolti, se si riesce a condividere un’agenda partecipata dei percorsi che la ricerca deve compiere, possiamo arrivare a una gestione della ricerca e della salute che possa essere non solo curativa ma anche essere preventiva e anticipatoria rispetto ai problemi delle persone.

 


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