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Il cervello predittivo. La tensione del conoscere tra incertezza e aspettativa

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Il nostro cervello è così dedito alla gestione dell'incertezza che può essere considerato un organo predittivo. Più precisamente, il modello del paradigma predittivo suggerisce che la nostra conoscenza del mondo sia sempre guidata dal bilanciamento di due principi, uno di ordine economico, che spinge al contenimento del dispendio energetico, e uno di ordine evolutivo, vincolato alla necessità di apprendimento.

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L’incertezza, in generale, non piace agli esseri viventi, tanto meno agli umani che si sono adoperati per millenni a erigere mura di conoscenza contro i fantasmi dell’indeterminatezza. Oggi sappiamo che l’incertezza è decisamente sgradevole perché è l’ostacolo con cui i nostri sistemi cognitivi si scontrano quotidianamente.

Si pensi, per fare un esempio, all’effetto sortito dal rumore di un’esplosione inattesa mentre passeggiamo all’aperto. Potrebbe essere interpretato immediatamente come un segnale di pericolo, magari di un attentato o di un’altra catastrofe, ma dopo pochi secondi qualcuno, notato il nostro sguardo turbato, ci fa sapere che è stata fatta brillare in sicurezza una bomba inesplosa della seconda guerra mondiale. Immediatamente l’incertezza e il panico collegato svaniscono.

Questa è una circostanza eclatante, ma anche senza pensare sempre a situazioni estreme i sensi ci informano continuamente di fatti più o meno salienti che il cervello deve prendere in carico, per lo più a livello inconscio. Tale lavoro costituisce un impegno continuo e il nostro cervello, per il fatto di essere così dedito alla gestione dell’incertezza al fine di contenerla, può essere considerato a tutti gli effetti un “organo predittivo”. Questa definizione è diventata centrale nell’ambito delle neuroscienze cognitive come principale disciplina che indaga questo importantissimo e vitale fenomeno.

Se volessimo fare un’apologia dell’incertezza, potremmo dire che essa è il motore principale della nostra conoscenza, anche se quest’ultima, nella storia del sapere umano, ha ricevuto molta più attenzione, basti solo pensare quanto filosofia e psicologia hanno speculato su di essa. In particolare, la psicologia sperimentale, anticipando le neuroscienze, ha dimostrato come la capacità di estrarre conoscenza dal mondo al fine di generare predizione sia un fenomeno di riduzione dell’incertezza presente già alla nascita, supportando l’idea che almeno parte del nostro sistema di funzionamento mentale è frutto di un lontano retaggio che milioni di anni di evoluzione ci ha lasciato in eredità. Sappiamo che l’esposizione a oggetti nuovi e inattesi è capace di ridestare velocemente l’attenzione di un neonato, scatenando il cosiddetto effetto sorpresa. Questo effetto, detto anche violazione dell’aspettativa, sembra essere un meccanismo comune a molte specie animali che entra in gioco quando l’ambiente presenta delle situazioni che sfuggono ai nostri modelli interni di rappresentazione del mondo, generando un segnale di interesse nei confronti di qualcosa potenzialmente rilevante.

Il cervello più da vicino

Il concetto della riduzione dell’incertezza è stato ripreso da Karl Friston, uno dei più importanti neuroscienziati contemporanei, che ha teorizzato il cosiddetto modello dell’“energia libera” (free energy model), misurabile attraverso complicatissime operazioni matematiche. A parte l’aspetto hard delle formule, il concetto chiave della teoria è che il nostro cervello è massimamente impegnato a ridurre l’energia (metabolica) libera cercando di massimizzare le previsioni e minimizzando l’errore, cioè la differenza tra la nostra idea del mondo e la realtà. L’implicazione di questo modello teorico è che, da un lato, l’effetto sorpresa sia, in quanto generato dalla violazione di aspettativa, sinonimo di incertezza, e quindi potenziale vettore di implicazioni negative (soprattutto quando riguarda la sopravvivenza degli individui). Dall’altro lato, la sorpresa costituisce una possibilità di apprendere qualcosa di nuovo, costituendo di fatto un meccanismo filogeneticamente al servizio dello sviluppo ontogenetico dell’individuo.

Il corpus di conoscenze teoriche che dalla psicologia sperimentale moderna muove i primi passi ha di fatto trovato sotto l’egida delle neuroscienze una formulazione teorica sistematica nell’ipotesi del “cervello predittivo”, altrimenti noto come paradigma predittivo (PP). Questo modello mostra che gli esseri umani, così come gli altri animali, conoscono e interagiscono con l’ambiente incastonando in una trama complessa quello che i sensi rilevano e quello che il cervello possiede in memoria, mettendo assieme e confrontando molti dati al fine di predire il miglior comportamento per un dato fine, che molto spesso è un’azione.

Lungi dall’essere un processo consapevole, tutto ciò accade fuori dal dominio della nostra ragione, in quanto ereditato da un processo evolutivo che ci àncora al mondo animale.

Incontro tra aspettative e percezioni sensoriali

I segnali in entrata tramite gli organi sensoriali non viaggiano in un’autostrada pulita come una tavola rasa, ma su un percorso allestito di aspettative che, nella migliore delle ipotesi, vengono confermate. Questo perché il cervello svolge un ruolo pro-attivo, cioè cerca di anticipare quali sono gli input che giungeranno dall’ambiente (e anche dal proprio corpo) senza aspettarli passivamente. Si può infatti dire che il nostro cervello possiede la peculiarità di costruire la realtà filtrando elementi semplici in costrutti complessi attraverso la lente di ingrandimento delle nostre aspettative, cioè dei modelli più o meno impliciti della realtà che abbiamo in parte ereditato e in parte acquisito dal nostro essere nel mondo.

Ma cosa succede quando l’input che giunge incontra un’aspettativa errata? Quando l’aspettativa viene violata, occorre revisionare lo schema appreso e aggiornarlo - il modello PP parla di updating - secondo i nuovi segnali. In questo modo, senza che la coscienza sappia necessariamente quanto sta accadendo, nei nostri circuiti neurali si genera un nuovo apprendimento e il bagaglio conoscitivo cresce. In sostanza, la conoscenza del mondo che abbiamo consolidato serve a creare le aspettative che, intersecandosi con gli stimoli provenienti dai sensi, vengono confermate o smentite da quanto sta accadendo. Quando i sensi confermano le aspettative, facilitano di molto il lavoro neurale, facendo risparmiare energia al sistema. Questo è particolarmente importante nel caso in cui siamo chiamati a rispondere con azioni veloci e precise ad eventi sensoriali attesi. Diversamente, quando le aspettative sono smentite, impariamo qualcosa di nuovo, sfruttando l’enorme plasticità del nostro cervello.

Essere in grado di pesare le percezioni attraverso la nostra esperienza pregressa implica che possiamo utilizzare certi stati anche off-line e immaginare, in assenza di stimoli sensoriali, quanto potrebbe accadere sulla base delle precedenti conferme. In questo noi umani siamo certamente molto più evoluti degli altri animali, ne abbiamo prove empiriche tutte le volte che, come diceva Popper, facciamo morire le ipotesi al posto nostro.

Un altro aspetto interessante del PP è che consente di integrare nel modello anche i processi immaginativi, attentivi, esperienziali e di apprendimento.

Sfruttare il paradigma predittivo a nostro vantaggio

Il PP ci permette di confermare ulteriormente alcuni concetti cardine che abbiamo sulla conoscenza e ci può aiutare a promuoverla. Per esempio, la capacità di apprendimento dei bambini: fin da quando iniziano a muoversi sperimentano continuamente anche le ipotesi più pericolose. Sebbene abbiano delle nozioni innate su certi fenomeni della fisica, dell’aritmetica, della probabilità e della geometria, tendono a voler testare quasi scientificamente - nel senso che procedono per prove ed errori - molte possibilità e in questo modo apprendono continuamente (soprattutto se noi sorvegliamo che non si facciano troppo male), creando passo dopo passo i loro modelli predittivi.

Nonostante questo aspetto abbia dei potenziali risvolti applicativi in ambito psicopedagogico, dal momento che conferisce all’errore un mandato educativo fondamentale, sembra non aver ricevuto sufficiente attenzione all’interno degli attuali modelli scolastici, troppo intenti a valutare la performance a discapito dell’importanza di imparare dagli sbagli. Ancora una volta scopriamo che il vecchio adagio che recita che “sbagliando si impara” non solo è vero ma anche supportato da dati scientifici.

In altre parole, bisognerebbe prendere spunto dall’importanza che il nostro cervello dà all’errore come segnale di allerta ma anche di aggiornamento dei nostri modelli epistemici per valorizzare l’importanza di sbagliare quando si impara a parlare, leggere, far di conto e, perché no, relazionarsi con gli altri.

La circolarità tra percezioni sensoriali e aspettative

Sul tema del paradigma predittivo è d’obbligo citare Andy Clark, professore di Cognitive Phylosophy all’Università del Sussex, che al tema del cervello predittivo ha dedicato un saggio divulgativo, proponendo alcune considerazioni interessanti che si possono fare grazie a questo modello, in particolare in ambito clinico. Al di là delle potenziali implicazioni pedagogiche, è molto interessante scoprire che la tipologia delle nostre aspettative influisce molto anche sulle nostre percezioni, anche se questo aspetto forse si esplica maggiormente nei soggetti più adulti, laddove il ruolo del bagaglio conoscitivo immagazzinato con l’esperienza influenza molto di più le aspettative di quanto lo faccia nei bambini. Un rumore improvviso nella nostra casa nel cuore della notte, magari in concomitanza a uno stato d’animo ansioso, troverà aspettative diverse rispetto a un rumore altrettanto improvviso ma in un contesto meno sospetto.

È evidente che l’esperienza possiede un enorme potere nel creare le aspettative con le quali prendiamo poi in carico la realtà. Questa considerazione è potenzialmente uno stimolo a controllare alcuni nostri comportamenti, specie in certi contesti. Da un lato, il PP ci consente di porre attenzione sul ruolo che certe nostre aspettative, radicate al punto da essere pregiudizi veri e propri, possono interferire con il modo in cui guardiamo il mondo. Dall’altro, possiamo prendere in carico il potenziale emotivo con cui l’incertezza affligge le nostre esistenze. Infatti, poiché il nostro apparato predittivo è sempre intento a bilanciare il dato noto con la novità, l’atteso con l’inaspettato, con il costante obiettivo di smussare ogni ambiguità e ridurre la nostra incertezza, comprendiamo anche il disagio che talune circostanze ci possono indurre.

Le situazioni in cui l’incertezza si fa molto alta possono creare frustrazione per l’incapacità di trovare aspettative adeguate tra i nostri modelli. Incertezza e stress correlato sono sensazioni che tutti conosciamo e, in tempi di pandemia, stiamo sperimentando in modo diffuso e consistente. Inoltre, rimanendo sul piano inclinato delle conseguenze più ambigue del PP, Clark si spinge a esplorare anche aspetti più bui della possibile collisione tra aspettative e percezione. Considerazioni interessanti possono essere fatte dando uno sguardo a come il PP offre possibili spiegazioni sul versante della patologia, come nel caso della schizofrenia e alcuni disturbi psicogeni, come ben illustra Clark nel suo lavoro. Senza scendere nei dettagli, nel caso della schizofrenia potrebbe essere una disfunzione generata dal fatto che gli input sensoriali non incontrano delle aspettative solide e razionali a dare loro concretezza e diventano così anomali, percepiti come fatti esterni ma in realtà auto-generati dall’errato confronto top-down tra le credenze e aspettative e il percorso bottom-up della realtà fisica.

Sempre sulla stessa scia, anche alcuni disturbi psicogeni o l’effetto placebo trovano sostegno in questo modello. Nel caso di patologie che creano dolore è possibile che i malati imparino a generare delle aspettative su quanto sentono, aspettative che eccedono e arrivano a plasmare una sintomatologia (disturbi o deficit) che non trovano correlati nell’esame clinico dei medici. Un’attenzione focalizzata sull’aspettativa di certi sintomi o esiti modifica la percezione degli stessi; è evidente che dovremmo prendere maggiormente atto di questa possibilità, soprattutto nei contesti clinici.

Volendo trarre un insegnamento da quanto finora discusso, quello che può essere utile apprendere dal PP è che le nostre esperienze sono inevitabilmente colorate dalle nostre aspettative, le quali sono inevitabilmente legate a loro volta alle esperienze precedenti. La circolarità non ci consente di sancire in modo definitivo dove i sensi determinano le aspettative e dove le aspettative determinano i sensi perché tutto si esplica in una dialettica che avviene in modo circolare.

Rafforzare la conoscenza tra pigrizia e complessità

Quanto esposto finora sul PP ci suggerisce in sintesi che la nostra conoscenza del mondo, implicita ed esplicita, è sempre guidata dal bilanciamento di due principi: uno di ordine economico, che spinge al contenimento del dispendio energetico (ogni lavoro nel nostro organismo ha un costo, soprattutto se è lavoro cerebrale) e uno di ordine evolutivo, vincolato alla necessità di apprendimento, grazie al quale scopriamo l’inatteso e prendiamo in carico le novità co-evolvendoci con il nostro ambiente, fisico e sociale.

Questo ambiente è permeato dai risultati della nostra “capacità di agire”, un agire tutt’altro che semplice. Infatti, noi umani non ci limitiamo a girovagare accontentandoci di sopravvivere adattandoci all’ambiente similmente agli altri animali, ma da circa duecentomila anni manifestiamo l’irrefrenabile vizio di inventare modi e strumenti, compreso il linguaggio, con i quali adattiamo l’ambiente a noi, in un’impresa in cui co-plasmiamo il mondo e le nostre menti.

È inevitabile, a questo punto, prendere atto che il nostro ambiente fisico e sociale è estremamente complesso, di una complessità che continua a infittirsi mentre noi siamo sempre governati dal compromesso tra la spinta alla scoperta e la necessità di parsimonia energetica. Se abbiamo il potere di fare sì che la nostra conoscenza sveli anche i meccanismi che la governano, allora l’invito è proprio quello di prendere la nostra coscienza e portarla a riflettere su certi retroscena dei nostri processi cognitivi, cosicché il paradigma predittivo emerga anche a un livello esplicito nella nostra mente, per guidarci nel difficile compito di orientamento nella nostra realtà tanto complessa. Un suggerimento? Imparare, per esempio, a vigilare sulla nostra tentazione di semplificare un mondo così veloce, complesso e imprevedibile pur di adeguarlo a delle aspettative spesso restie al cambiamento. In sostanza, non temere gli errori, in quanto essi possono essere messaggi preziosi per un efficace adattamento evolutivo.

 


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