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Bernardino Ramazzini, primo "medico dei lavoratori"

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Il De Morbis Artifi cum Diatriba, pubblicato nella prima edizione a Modena nel 1700, è stato scritto da Ramazzini nell’arco di almeno dieci anni, quelli dell’ultimo decennio del secolo e terminato quando l’autore aveva sessantasette anni e oltre quaranta di pratica medica. L’autore era diventato famoso per meriti diversi da quello di avere scritto quel trattato, e per questi poi sarà chiamato all’Università di Padova. L’opera rappresenta, per Ramazzini un interesse culturale, derivante anche o principalmente dall’originalità dell’argomento e ad essa l’autore dichiara di non annettere importanza decisiva, almeno in riferimento alla propria ulteriore fortuna di medico e di scrittore.
Per meglio inquadrare l’origine e qualche carattere del Trattato delle malattie dei lavoratori è opportuno richiamare alcune vicende del suo autore: il soggiorno, in qualità di medico condotto, di circa quattro anni, nel Ducato di Castro deve avere stimolato nel nostro l’interesse per le malattie che colpiscono la gente più misera e gli artigiani; l’osservazione diretta dei lavoratori nel corso delle sue indagini geofisiche, importante almeno quanto quell’altra riguardante i vuotatori di fogne, enfatizzata dallo stesso autore sino al punto di portarlo ad affermare che, proprio grazie ad essa aveva iniziato a scrivere il trattato. Debbono essere stati questi gli argomenti che, un decennio prima, avevano consigliato il nostro autore a svolgere presso lo Studio di Modena, nell’anno accademico 1690-1691, un intero corso dal titolo De Morbis Artificum.
Ramazzini nel 1713, a Padova, cura una nuova edizione del Trattato delle malattie dei lavoratori aggiungendo ai precedenti 41 capitoli un Supplemento che ne comprende altri 13 (stampatori, scrivani e copisti, quelli che fanno i confetti di semi nelle botteghe degli speziali, tessitori e tessitrici, ramai, falegnami, affi latori di rasoi e di lancette da salasso, fabbricanti di mattoni, scavatori di pozzi, marinai e rematori, cacciatori, fabbricanti di sapone e vergini religiose). I nuovi capitoli risultano più concisi e più poveri di citazioni.

Il “metodo” del de Morbis

Ramazzini ci aiuta ancora oggi a distinguere in due classi i principali fattori di rischio dei lavoratori, una prima costituita dalla pessima qualità delle sostanze manipolate e da quanto da loro si libera durante l’attività lavorativa, la seconda classe da individuare nei movimenti compiuti, nelle posizioni mantenute per un tempo troppo prolungato, nella “organizzazione del lavoro”.
L’autore del primo trattato compiuto sulla salute dei lavoratori, “uno dei più originali testi medici scritti o pubblicati”, il “fondatore ed il padre della medicina industriale e dell’igiene” ha adottato, per tutti i mestieri considerati, un metodo di indagine abbastanza standardizzato, nella sostanza più che nell’ordine della trattazione, rappresentabile attraverso un vero e proprio decalogo:

  1. descrizione del ciclo lavorativo e delle modalità con le quali i lavoratori svolgono la propria mansione; 
  2. approfondimento sulle tecniche e sulle materie prime utilizzate all’interno della organizzazione del lavoro osservata o descritta;
  3. esame condotto con approccio clinico dei lavoratori oggetto della osservazione e di quelli che hanno praticato quel mestiere in passato; 
  4. rassegna della letteratura esistente e non solo di quella medica, una vera “storia della medicina del lavoro” di quel tipo di mestiere;
  5. discussione degli atteggiamenti di autotutela adottati da singoli lavoratori;
  6. suggerimento di dispositivi di protezione individuali;
  7. approccio terapeutico essenziale fondato su farmaci o rimedi generalmente “poveri” e alla portata dei lavoratori;
  8. disamina delle possibili bonifiche ambientali, dei luoghi di lavoro e delle procedure da adottare;
  9. proposta di norme di buona tecnica, organizzative e di comportamento personale e sociale con il significato di miglioramento o di sostituzione di quelle tradizionali e non più adeguate;
  10. individuazione dei vari soggetti e quindi di ruoli decisivi per tutti coloro che risultano interessati al lavoro ed ai suoi effetti benefici senza escludere principi e governanti. 

L’associazione tra pericolo o fattore di rischio e danno o malattia evidenziata da Ramazzini nasce come sostanziale “valutazione del rischio” in senso epidemiologico da intuizioni e deduzioni logiche che pur fondate solidamente sulle migliori conoscenze cliniche e “sociologiche” presenti ai tempi in cui l’autore scrive, anticipano, in una certa misura, gli studi epidemiologici di tipo occupazionale. Si tratta di osservazioni approfondite ed orientate in maniera specifica verso il rischio si ammalare di alcuni gruppi della popolazione generale, quelli dediti ad alcuni o poi alla maggioranza dei tipi di lavoro concepibili. In questo modo vengono alla luce differenze nella salute che richiamano concetti come “eventi sentinella” oppure “rischi relativi”, “rischi attribuibili”, “mortalità differenziale” o almeno elementi sostanziali per discutere di “rapporti causa-effetto” od anche di “relazioni dose-effetto”, di “prevalenza” o di “clusters” di patologie tra coloro che, andando ad osservare, si capisce che esercitano la stessa professione.

Il primato ramazziniano: è “più conveniente prevenire le malattie piuttosto che curarle”

Nessuno in precedenza aveva associato a un singolo mestiere e quindi tutti o la maggior parte dei lavoratori che lo avevano praticato, a una o più patologie; ma principalmente nessuno aveva ricercato negli ambienti di lavoro le cause o le possibili cause di quelle malattie e tantomeno si era preoccupato di discutere tecnicamente se quelle cause potessero essere rimosse o attenuate. Nessuno, infine, aveva teorizzato compiutamente sul fatto che rimuovere o mitigare quelle cause di malattia poteva essere un vantaggio oppure rappresentare anche, o soprattutto, un dovere sociale.
Deve essere assunto con la massima attenzione, pur considerando che tra i due esisteva una parentela acquisita, il giudizio coevo espresso da Ludovico Antonio Muratori in una Lettera a Magliabechi del 31 agosto 1700: “Va preparando il nostro Signor Ramazzini il suo libro delle Malattie degli Artefici, che sarà un’opera delle più utili e curiose che s’abbia la medicina”.
I toni più alti utilizzati prima di Ramazzini nel descrivere le condizioni degli artigiani sono da considerare quelli di Jan Amos Komensky (1592-1670), personaggio di spicco della cultura ceca ed europea del Seicento. Questo autore scrive:

“ … ovunque c’era una gran quantità di sale, laboratori, fucine, officine, negozi, chioschi, tutti pieni di strumenti inusuali: tutt’intorno s’aggiravano le persone, con movenze strane, e era tutto uno sbattere, un fracassare, uno scricchiolare, uno stridere, un sibilare, un fischiare, un soffiare, un ululare, un tintinnare, uno sfregare. Vidi là alcuni rivoltare: sventrandola in superficie oppure facendo gallerie dentro le sue viscere, come talpe. Altri sguazzavano nell’acqua, nei fiumi e nei mari; altri maneggiavano il fuoco; altri guardavano in aria; altri si battevano con gli animali selvatici. Il mio interprete disse: "Guarda questo lavoro vivace e gioioso. Dunque, qual è quello che ti piace di più?" Io risposi: "Può essere, qui c'è un po' d'allegria, però io vedo anche molta fatica e vedo molti sospiri". "Non tutto è difficile" disse "Guardiamo da vicino alcune di queste cose". Allora mi condussero là in mezzo e io, una dopo l’altra, le esaminai tutte, soffermandomi qua e là, per provare; ma qui non posso né voglio descrivere tutto. Però non nasconderò quello che sperimentai in generale. 1. Prima di tutto, vidi che tutte le occupazioni degli uomini sono solo pena e fatica; e ognuna aveva la sua buona parte di disagio e di rischio. In effetti vidi che chi aveva a che fare col fuoco era tutto bruciacchiato e annerito come un moro, con nelle orecchie sempre un frastuono di martelli che riempiva metà del suo udito, negli occhi il fulgore del fuoco che lo abbacinava e la pelle screpolata per le bruciature. Chi lavorava sotto terra aveva come compagni tenebre e terrore: e più di una volta a questi accadeva di rimanere sepolti vivi. Chi lavorava sull’acqua era freddo sino al midollo, tremava dal freddo come una foglia, le sue viscere imputridivano, e una parte non piccola di essi era destinata agli abissi. Quelli che si occupavano del legno, della pietra e di altre materie grezze erano pieni di calli, di sofferenze e spossatezza. Vidi in realtà che alcuni lavoravano come bestie, per cui si affaticavano e si sforzavano fino a non poterne più, fino a cadere, fino a farsi male, fino a spezzarsi: e costoro, con le miserabili fatiche, riuscivano a malapena ad assicurarsi un tozzo di pane. Vidi anche, certamente, guadagnarsi da vivere in modi più facili e più proficui: ma, d’altre parte, quanto minore era la fatica, tanti più erano le iniquità e gli intrighi. … ”.

Premuda ha scritto che “la concezione di Ramazzini, fiorita sull’onda di quell’impostazione meccanica, maturata nel Seicento ed estesasi pure al mondo della medicina al punto che diversi cultori di codesta disciplina furono detti "iatromeccanici", disserra il "secolo dei Lumi", la cui cultura fonda il suo carattere non tanto su rapporto Uomo-Natura e tanto meno su quello Uomo-Dio quanto sul rapporto degli uomini tra loro, sulla regolazione della vita associata in base all’integrale razionalità delle scienze sperimentali trionfanti e secondo gli interessi di più vaste cerchie umane”. Con altre parole, parlando della “rivoluzione” scientifica e sociale avviata nell’era di Ramazzini, Panseri centra il problema quando osserva che il governo della salute degli artefici “occorre che divenga tecnologia appropriata al raggiungimento di un fine specifico, la conservazione e lo sviluppo di questi utili artigiani”. 

Dalla fogna alla medicina del lavoro

Ramazzini con la sua opera fa emergere, porta alla luce un mondo di tecnici e di “bassi” lavoratori, che prima gli intellettuali avevano ignorato. Quelli che un tempo apparivano come “miserabili e immondi artefici”, si illuminano ora delle loro sventure e per le fatiche che piagano il loro corpo, non più meritano disprezzo, ma compassione.
E’ emblematico il ricordo riferito dallo stesso Ramazzini che l’idea di scrivere il De Morbis gli sia venuta in occasione dello svuotamento del pozzo nero di casa sua. Incuriosito dall’affanno con cui l’addetto cercava di portare a termine quell’operazione, interrogò il vuotatore di fogne, il quale gli rispose che lavorava con quella rapidità solo per ridurre il tempo di esposizione alle esalazioni della latrina, poiché esse provocavano in lui, e in tutti coloro che svolgevano lo stesso mestiere, dolorose irritazioni agli occhi. Egli stesso poi ricercherà e metterà in luce il fatto che i lavoratori, che avevano svolto il mestiere di vuotare i pozzi, a causa della sopraggiunta cecità o semicecità erano costretti a chiedere l’elemosina per le strade.
All’inizio del trattato l’autore prende in considerazione i minatori di minerali e tutti coloro che utilizzano metalli nelle officine. Relativamente ai minatori, ma anche ai doratori, ceramisti, stagnai, vetrai, fabbricanti di specchi descrive puntualmente quadri di intossicazione da metalli e principalmente da mercurio e da piombo.
Non manca l’attenzione ai molti lavoratori che soffrono le conseguenze dell’esposizione a polveri minerali o vegetali; si tratta di coloro che lavorano col gesso e con la calce, dei lavoratori del tabacco, dei fornai e dei mugnai, degli scalpellini, dei cardatori di lino, di canapa e di cascami di seta. L’autore per combattere le polveri consiglia di lavorare in ambienti molto ampi, di rivolgere la schiena al vento, lavarsi spesso viso e bocca con acqua ed aceto e, infine, di abbandonare il mestiere se minacciati da una malattia polmonare incipiente.
In questo gruppo il nostro autore ha inserito i lavoratori con religione e tradizioni ebraiche, perchè a quel tempo, almeno a Modena, molti di loro facevano lo stesso mestiere, i cenciaioli. A sproposito si è parlato di Ramazzini come di un antisemita. Una ristampa della traduzione inglese del De Morbis ha dovuto pubblicare una “Notice” nella seconda pagina di copertina per avvertire della “… antisemitic nature of certain portions of the text.”. Al contrario, una serena lettura del capitolo XXXII e degli altri scritti nel quale si accenna all’argomento come nella “Costituzione” del 1692, porta a concludere che ci troviamo di fronte non ai “pregiudizi del tempo”, quanto ad una sorta di dichiarazione motivata, fondata storicamente, di antirazzismo. Così recita il preambolo:

“Il popolo degli ebrei, simile al quale non se ne riconosce un altro tra gli uomini in quanto non ha sede da nessuna parte eppure è ovunque, è ozioso ed operoso insieme, non ara, non erpica, non semina, tuttavia miete; questo popolo dunque, non per un motivo di razza, come si crede comunemente, e neppure per le sue particolari abitudini, quanto per i tipi di lavoro svolti è afflitto anch'esso da diverse malattie. È un errore pensare che il puzzo che gli ebrei emanano sia innato o naturale; infatti, quella stessa puzza l'hanno quelli del popolo minuto, i quali vivono in abitazioni anguste e con possibilità economiche assai ristrette; quando abitavano a Gerusalemme dove c'era abbondanza di profumi, gli ebrei erano sicuramente puliti e ben profumati.” 

E’ da notare inoltre che Ramazzini è stato giustamente inserito tra gli intellettuali che in qualche modo hanno partecipato ad iniziative che modernamente ricadono nella concezione di “Ebraismo cristiano”. In particolare è accertato che il nostro ha collaborato alla ricerca degli epitaffi poetici nei cimiteri ebraici.

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L’attenzione di Ramazzini si concentra anche su un altro gruppo di lavoratori, quelli delle saline, i fabbricanti di sapone, i tintori, i vuotatori di fogne, i vinificatori, i distillatori di acquavite esposti a gas e vapori capaci di danneggiare la loro salute. Al medesimo gruppo appartengono i tintori, i conciatori, i vagliatori e misuratori di grani e i becchini. Di questi ultimi non solo sono segnalati i rischi “da agenti chimici” ai quali sono esposti nel loro operare e le misure di prevenzione da adottare, ma sul filo della tragica ironia li ringrazia per il servigio da loro reso alla classe medica per proteggerne la reputazione:

“è giusto preoccuparsi della salute dei becchini la cui opera è tanto necessaria; è giusto dal momento che sotterrano i corpi dei morti assieme agli errori dei medici. E’ giusto che la medicina contraccambi, per quanto può, l’opera svolta dai becchini nel salvaguardare la reputazione dei medici”. 


Il trattato riserva non poca attenzione ad attività lavorative che interessano organi e apparati in maniera eccessiva oppure li costringono in posture o atteggiamenti prolungati e non fisiologici. Vengono qui considerati orefici, intagliatori, facchini, vasai e tessitori, calzolai e sarti. Di quest’ultimi, Ramazzini, con insuperabile plasticità, dipinge un quadro degli effetti deformanti delle loro attività lavorative:

“viene da ridere nel vedere sarti e calzolai, durante le loro feste solenni, quando vanno per la città a coppia in processione, oppure quando accompagnano qualche loro morto alla sepoltura; è buffo vedere uno spettacolo di gobbi, di curvi, di zoppi che si piegano ora da una parte ora dall’altra, come se fossero stati scelti tutti uguali per una recita”. 


Nella società terziarizzata dell’economia che connota la contemporanea società dei paesi industrializzati, risulta di estrema attualità quanto Ramazzini consiglia ai letterati (ai quali vengono assimilati i rappresentanti di altre professioni liberali e intellettuali) che, pur mantenendo una loro specificità, devono tutti temere a causa della vita sedentaria e per l’influenza di fattori di rischio psichico:

“…si dedichino dunque allo studio con la moderazione dettata da una guida irreprensibile, e non siano così esclusivamente applicati a coltivare la propria anima da trascurare la cura del corpo, ma si mantengano in equilibrio come nel mezzo di una biga, in modo che anima e corpo, in una convivenza fedele di ospite ed albergatore, si scambino tra di loro i servigi e non si logorino vicendevolmente”.

Certo Ramazzini fa passi da gigante nel lumeggiare tratti “igienici” e caratteri degli uomini di lettere, ma bisognerà attendere autori come Samuel Auguste André David Tissot (1728 - 1797) con il suo “Della salute dei letterati” o meglio quelli ottocenteschi, e principalmente Joseph-Henri Réveillé-Parise (1782-1852), per riconoscere lineamenti e tendenze anche psicologiche che si avvicinano agli attuali attori od operatori della “conoscenza”. 
La rassegna delle malattie dei lavoratori nel De Morbis si chiude con la “Dissertazione sulla tutela della salute delle vergini religiose”. Capitolo interessante non solo per la singolarità del tema trattato (che l’autore conosceva bene per esser stato medico in alcuni conventi), quanto perché qui Ramazzini espone il modernissimo e attualissimo principio che sta alla base della medicina preventiva: è “più conveniente prevenire le malattie piuttosto che curarle”. 

Il debito della medicina verso i lavoratori

In anni il cui la figura del medico del lavoro trova difficoltà a imporsi sia perché è quasi completamente da inventare e consolidare nei paesi di nuova industrializzazione, sia perché nei paesi industrializzati il lavoro e i lavori stanno subendo rilevanti trasformazioni, il De Morbis resta la stella polare capace di guidare la “mission” dei medici che hanno scelto di prendersi cura della salute dei lavoratori. Infatti, dopo aver premesso che i lavoratori svolgono attività quasi sempre faticose e degradanti, ma tuttavia necessarie e dalle quali derivano tanti vantaggi a tutti gli uomini, Ramazzini scrive, delineando i principi etici a cui deve ispirarsi il medico del lavoro, che la stessa medicina ha un debito nei confronti dei lavoratori:

“Io, da parte mia, ho fatto tutto quello che pensavo fosse giusto fare e non mi sono sentito sminuito quando, per osservare tutte le caratteristiche del lavoro manuale, entravo nelle botteghe artigiane più modeste”…”Dunque il medico che è chiamato a curare un lavoratore non deve, come fa di solito, sentirgli immediatamente il polso senza informarsi delle sue condizioni, né deve subito sentenziare sul da farsi; il medico, come fa il giudice, deve mettersi a sedere, anche su uno sgabello, o una panca quando non trova, come succede nelle case dei ricchi, una sedia dorata. Deve parlare affabilmente con l’ammalato e saper decidere quando è necessario dare consigli medici o invece far prevalere atteggiamenti di comprensione e di pietà. Molte sono le domande che il medico deve rivolgere al malato o a coloro che l’assistono. Ippocrate nel De Affectionibus dice: "Quando sei di fronte a un ammalato devi chiedergli di cosa soffra, per quale motivo, da quanti giorni, se va di corpo e cosa mangia". A tutte queste domande bisogna aggiungerne un’altra: "che lavoro fa" . Quando il malato è uno del popolo, questa domanda risulta importante, anzi necessaria, se non altro per individuare la causa della sua malattia. Succede raramente, nella pratica, che il medico faccia questa domanda agli ammalati. Ma anche quando, per un qualche motivo, è a conoscenza del tipo di lavoro svolto dall’ammalato, il medico non ne tiene conto, compromettendo con ciò l’efficacia della cura”. 

Ramazzini, nel gettare le basi valoriali della medicina del lavoro, fornisce anche una strategia comunicativa per divulgarla. Nonostante affronti temi complessi, egli scrive in maniera chiara (a dimostrazione del suo grande dominio dell’argomento), con un lessico elegante, alle volte ricercato, arricchito di numerose dotte citazioni. L’autore, inoltre, pur trattando situazioni lavorative impregnate di sofferenza umana, riesce ad alleggerire il testo, usando con misura coloriture ora umoristiche, ora sarcastiche: siamo di fronte a un trattato scientifico non solo capace di illuminare l’intelletto, ma anche di appassionare, suscitando emozioni. ​

Il caso del solimato

Una bella pagina di Ramazzini, non si sa dire se più rigorosa in termini di precoce epidemiologia ambientale o più efficace nel fustigare costumi e “misconduct” è quella che si ritrova all’interno del capitolo dedicato alle malattie dei chimici. Siamo nel 1689 a Finale, nel Ducato di Modena, paese discretamente sviluppato grazie ai commerci fluviali dove i fratelli Sarfatti fabbricano nella loro casa il “solimato”, ovvero il sublimato corrosivo; i fumi che si sviluppano ed in specie quelli della calcinazione del “vetriolo romano” giungono (oltre che agli addetti alla lavorazione, ma di questo non si parla) alle case vicine, in particolare a quella abitata dal tenente Onofrio Onofri. Quest’ultimo presenta una denuncia che trova il Podestà di Finale, Carlo Barbieri, impreparato perché era “una materia da Chimico e da Medico”. Scrupolosamente compila una relazione e la invia a Modena corredata dal parere del medico dottor Giovanni Paolo Stabe de Cassina, medico condotto convinto delle ragioni del tenente. Ma per scrupolo, il Podestà ha voluto anche il parere di un secondo medico, il dottor Quirici, che pende dalla parte dei Sarfatti. La relazione desta molta curiosità negli ambienti scientifici modenesi e se ne interessa Bernardino Corradi, Commissario delle Artiglierie del Duca ed esperto di chimica. La contrapposizione si trasforma in una specie di duello tra il Corradi e il Cassina, al quale, marginalmente, parteciparono anche Ramazzini e Leibniz che all’epoca si trovava a Modena. Il Cassina è dalla parte del tenente Onofri e sostiene che il fumo esalato da una sostanza è della stessa natura della sostanza in questione, e in questo caso particolare, essendo derivato dalla calcinazione del vetriolo corrode e dissecca, provocando “oppressura di cuore, del petto, difficoltà di respiro, asma, polipi, pleuritidi et altre simili indisposizioni”. Di parere opposto il Corradi, che dà ragione ai fratelli Sarfatti in quanto, secondo lui, i fumi non sono nocivi perché “detto sal volatile non solo sarà diverso, ma totalmente opposto allo spirito, ed oglio, del medesimo”. Chi ci ha provato non è stato fortunato nel rinvenire tutti i documenti necessari per ricostruire i fatti. Nell’episodio, così come è riportato da Ramazzini, si può scorgere un “approccio epidemiologico”: viene identificata una “causa” nella esposizione specifica a carico di un gruppo di persone ed un “effetto” altrettanto dettagliato plausibile con l'esposizione. In più il nostro autore indica la fonte dei “dati” nel registro parrocchiale dei morti e nella testimonianza del medico del paese per arrivare anche ad individuare una popolazione di riferimento con la quale operare un “controllo”. La trattazione dell’episodio è completata con l’indicazione delle misure di “prevenzione primaria” e cioè il trasferimento del laboratorio fuori dal paese e con un commento che qualcuno all’epoca ed anche successivamente, guidato da pregiudizi, ha potuto giudicare non tanto salace ed edificante quanto “irriverente”; scrive Ramazzini: “Alla fine i giudici dettero ragione al commerciante e il vetriolo, assolto, fu dichiarato innocente. Se l'esperto del diritto in questo caso abbia ben giudicato, lo lascio giudicare agli esperti di scienze naturali.”

LA “FORTUNA” IMMEDIATA DEL DE MORBIS

Si può dire che nessuna opera medica abbia avuto una fortuna paragonabile a quella ottenuta dal De morbis. La fortuna del libro è illustrata dal numero e dalla diffusione di nuove edizioni, traduzioni, emulazioni e citazioni. Nel corso dei secoli non si è mai cessato di guardare e di scrivere dell'opera con ammirazione e con meraviglia ("Tutto sta già scritto"!), con fiducia e con devozione ("Ramazzini lo ha detto"!), con curiosità ("Vediamo cosa ha scritto Ramazzini su questo argomento"!) ed anche strumentalmente, per avvalorare una nozione od un concetto anche nel caso che la sua pertinenza con Ramazzini e la sua opera fosse, nel migliore dei casi, solo ipotizzabile ("Come dice Ramazzini"!; "Come insegna Ramazzini"!; "Ramazzini in questo caso avrebbe detto..."!). 
Dalla bibliografia ramazziniana che illustra la distribuzione nell’arco di tre secoli di edizioni, traduzioni e ristampe del De Morbis si delinea un fenomeno che può essere denominato "impatto differenziato" dell'opera, un impatto mai banale che assume significati differenti nei vari periodi storici e nelle diverse realtà economiche e sociali. 
Emerge con evidenza un primo periodo di "fortuna" del De Morbis collocabile tra il 1700 ed il 1775 circa. Nel corso di questo arco di tempo, esaurita presto la prima edizione del 1700, si susseguono le riedizioni dell'opera nei principali paesi e probabilmente si realizzano anche alcune delle riedizioni non viste dai più importanti cultori, esegeti e studiosi di Ramazzini e delle sue opere (Maggiora, Ranelletti, Devoto, Donaggio, Devoto, Pieraccini, Cave Wright, Conti, Pazzini, Di Pietro, Franco). Nello stesso periodo, con lo scarto di pochi decenni, vengono effettuate traduzioni praticamente in tutte le lingue europee, per ultimo anche in italiano. Il significato da dare a questa fase è quello di un positivo impatto di tipo culturale che ha come destinatari le avanguardie scientifiche e mediche e, direttamente o tramite questi, anche i "consiglieri" dei principi, tutte persone che si riconoscono in una "comunità scientifica europea" dotta, dinamica e collegata in rete meglio di quanto si potrebbe immaginare.

Gli insegnamenti di Ramazzini probabilmente non entrano, in questo periodo, nella pratica clinica abituale e neppure ispirano provvedimenti normativi o iniziative economiche, centrali o periferici, capaci di migliorare le condizioni di lavoro. Tanto meno le notizie sulle malattie occupazionali diventano oggetto di pubblico dominio e raggiungono efficacemente i diretti interessati in modo da favorire una sorta di "self-help". Alla fine di questo periodo, con significato premonitore rispetto a quanto accadrà in seguito, si deve registrare una unica voce, una flebile voce capace tuttavia di raccogliere e trasferire in sfere diverse da quelle mediche il messaggio di Ramazzini; è quella di Adam Smith (1723-1790), il quale, nel 1776, nella sua "Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni" e precisamente nel capitolo che tratta "Del salario del lavoro", scrive:

"Quasi tutte le categorie di lavoratori sono soggette ad alcune peculiari infermità provocate dall'eccessiva applicazione al proprio peculiare tipo di lavoro. Ramuzzini [sic!], un eminente medico Italiano, ha scritto uno specifico libro a riguardo di tali malattie"

e poi commenta:

"Se i padroni ascoltassero sempre i dettami della ragione e dell'umanità avrebbero spesso motivo piuttosto di moderare che di stimolare l'applicazione di molti loro operai” (Smith, 1973).

E' questa una espressione forte, da leggere come critica profetica, molto precoce, del taylorismo, promosso ufficialmente come organizzazione "scientifica" del lavoro circa un secolo e mezzo dopo. Luigi Devoto porta un'altra testimonianza dello stesso segno di quello attribuito a Smith, successiva di alcuni decenni a questa e che merita comunque di essere ricordata: il grande ministro della Regina Vittoria, Disraeli (1808-1881), nel suo volume le "Due nazioni", scrive come se avesse letto Ramazzini, senza tuttavia mai citarlo direttamente. 

​In epoca successiva, databile tra l'ultimo quarto del secolo XVIII e gli anni '80 dell'Ottocento, si assiste ad una apparente caduta di interesse per l'opera di Ramazzini, almeno assumendo come indicatori le riedizioni e le nuove traduzioni che appunto tendono ad essere sempre più scarsamente rappresentate. Un fenomeno secondario è leggibile in questo periodo, quello degli arrangiamenti, dei tentativi di aggiornamento del De Morbis. L'esempio più clamoroso, sulla scia della fortunata traduzione con abbondanti note ed aggiunte di Antoine François de Fourcroy (1755-1809), disponibile a partire dal 1777, è quello fornito in Francia da Philibert Patissier (1791-1863) che scrive, nel 1822, un "Trattato delle malattie degli artigiani, e di coloro che svolgono alcune professioni, sulla scia di Ramazzini". La stessa cosa aveva fatto a Birmingham Darwall (1796-1833) con una tesi dottorale scritta nel 1821 in latino presso l’Università di Edimburgo. Si tratta ormai di nuovi testi, solo "ispirati" dal carpigiano, diversi da quello originario e ciò lo si capisce già dal sottotitolo dell’opera di Patissier: "Opera nella quale si indicano le precauzioni che devono essere adottate, in riferimento alla salubrità pubblica e privata, da coloro che producono, da coloro che conducono manifatture, dai capi fabbrica, da tutti coloro che esercitano delle arti e delle professioni insalubri".

Il contesto è completamente mutato rispetto ai tempi in cui scriveva Ramazzini, nel frattempo è divampata una "rivoluzione borghese" ed in alcuni paesi, la Francia oltre che l’Inghilterra, si trova già in avanzata fase di sviluppo la "rivoluzione industriale" con tutti i suoi grandi effetti tecnologici, sanitari, economici e sociali. Gli effetti più tragici verranno magistralmente messi in risalto, in Francia, già nel 1840, da Louis-René Villermé (1782-1863) attraverso il suo famoso "Tableau", "Sullo stato fisico e morale dei lavoratori delle manifatture del cotone, della lana e della seta". In Inghilterra parallelamente alle prime leggi di tutela dei lavoratori, dei minori e delle lavoratrici richieste a gran voce da filantropi, giuristi oltre che dalle prime organizzazioni dei diretti interessati, si pone con forza l'esigenza di un nuovo approccio allo studio delle malattie professionali.

La fondamentale opera di Charles Turner Thackrah (1795-1833), "Gli effetti dei principali arti, mestieri e professioni e delle condizioni sociali e delle abitudini di vita sulla salute e la longevità" viene composta in una prima stesura nel 1831 e riporta non poche citazioni di Ramazzini, ma non c'è alcun dubbio che, confrontata con il De Morbis, essa risulti opera differente nello spirito, nei metodi e negli obiettivi. Thackrah si impegna in una analisi dei rischi e delle malattie presenti nei luoghi di lavoro messi in atto dagli opifici in riferimento alle macchine ed alla tecnologia della rivoluzione industriale ed attraverso il ricorso a statistiche ha dimostrato, al di la di ogni ragionevole dubbio, che gli operai dell'industria vivevano una vita più breve degli occupati in agricoltura. Proprio in base alla sua analisi Thackrah arriva a concludere:

"Possiamo affermare che in ciascun giorno dell'anno viene condotto alla tomba il cadavere di un individuo il quale spontaneamente sarebbe a lungo vissuto in salute ed in vigorosa attività; quotidianamente assistiamo al sacrificio di una o spesso di due vittime immolate sull'altare delle condizioni artificiali poste dalla società, si tratta degli stessi individui che erano stati risparmiati dalle condizioni dettate dalla natura”.

E’ di sicuro interesse il giudizio espresso sull’opera ramazziniana dallo statistico e demografo inglese William Farr (1807-1883): “[la Diatriba] prende in esame pressocchè tutte le attività svolte in una città italiana” ... colpisce “l’assenza di precise osservazioni sulla mortalità dei lavoratori delle diverse professioni.

Eco dell’opera di Thackrah e quindi, indirettamente, di Ramazzini si produrrà ad un certo momento anche negli Stati Uniti, dove Benjamin McCready (1823-1892) compilerà un quadro tanto preliminare quanto, per molti decenni, poco ascoltato “Sull’influenza dei mestieri delle professioni e delle occupazioni nella produzione di malattie negli Stati Uniti”.

La ricerca di precoci seguaci ramazziniani in Italia risulta oltremodo deludente. Passeranno più di due secoli prima di avere, con Giglioli nel 1902 e con Pieraccini nel 1906, una trattazione aggiornata e completa sulle malattie da lavoro ed essa si occuperà non tanto o non soltanto degli artigiani quanto dei lavoratori della nascente industria. Ciò che vale la pena di segnalare in questo lungo lasso di tempo è una specie di manifesto per la prevenzione della povertà redatto da Giacomo Barzellotti (1768-1839) il quale, nel mentre prospetta la piena occupazione dei poveri nelle campagne e nei lavori artigianali, rivisita la nocività di alcuni mestieri tradizionali, ipotizzando l’introduzione di soluzioni non solo di carattere organizzativo ma anche, coerentemente con i suoi tempi, basate sull’impiego di nuovi composti chimici capaci di neutralizzare quelli abitualmente utilizzati. 

L'opera di Ramazzini non è sfuggita all'attenzione di Karl Marx (1818-1883) che la cita nella quarta sezione del primo libro del Capitale, dove si tratta della produzione del plusvalore relativo, e più precisamente della divisione del lavoro nella società e della sua esacerbazione nel periodo manifatturiero. L'autore dice che la divisione del lavoro "intacca l'individuo fin nelle radici stesse della sua vita, è dessa che per prima fornisce l'idea e la materia di una patologia industriale"; dopo aver citato una traduzione (in realtà una ampia sintesi presente in una enciclopedia) del 1781, Marx scrive:"Il periodo della moderna industria meccanica ha, ovviamente, molto ampliato il suo catalogo di malattie professionali" e per avvalorare la sua affermazione riporta un lungo elenco di inchieste francesi, tedesche ed inglesi oltre che i famosi "Rapporti ufficiali sulla Sanità Pubblica". Farrington, arguto studioso inglese, ha sostenuto con forza, argomentandolo ampiamente, che Ramazzini deve essere considerato il “profeta di una nuova era” in quanto è stato capace di rivoluzionare la scienza medica e la pratica sanitaria dei due millenni precedenti e ciò semplicemente quando ha annunciato che la medicina ha un compito speciale, quello di tutelare la salute dei lavoratori. 

​Gli ultimi due decenni dell'Ottocento ed i primi della metà del Novecento vedono un forte sviluppo, specialmente in Germania, con Hirt nel 1873, ed in Inghilterra, con Alridge nel 1892, della medicina del lavoro; nel contempo si assiste alla nascita dell'igiene industriale, branca della prevenzione nei luoghi di lavoro che si affermerà, specie nei paesi anglosassoni anche autonomamente ed in alcuni casi in maniera alternativa rispetto alla medicina del lavoro. Parallelamente si può dire che continui una sorta di oblio di Ramazzini e della sua opera igienica, almeno assumendo come indicatore le pubblicazioni del De Morbis o delle sue traduzioni. Gli storici della medicina di tutti i paesi, e non soltanto quelli italiani come Castiglioni, Pazzini, e Premuda, per intanto si preoccupano di formulare una adeguata collocazione di Ramazzini all'interno dello sviluppo della "arte sanitaria" italiana e di quella universale. Si può considerare ampiamente condiviso il giudizio sintetico formulato a questo proposito da Henry Ernest Sigerist (1891-1957): il De Morbis (1700) sta alla storia della medicina del lavoro come il De fabrica humani corporis (1543) di Andrea Vesalio (1514-1564) alla anatomia, il De motu cordis (1628) di William Harvey (1578–1657) alla fisiologia ed il De sedibus et causis morborum (1761) di Giovan Battista Morgagni (1682-1771) alla anatomia patologica.

LA “FORTUNA” DI RAMAZZINI CONTINUA SINO AD OGGI

Ramazzini nella sostanza risulta interprete cauto, ma cosciente, delle tendenze filosofiche del suo tempo; si colloca vicino ai movimenti delle Accademie ed in primo luogo a quello di ispirazione galileiana anche se, come scrive Salvatore De Renzi (1799-1872), si deve avvicinare per alcuni aspetti alla scuola iatro-chimica toscana che "...in quel tempo era pratica, ippocratica nell'osservazione, semplice nel medicare, scevra da ogni sistema al letto del malato, ricercatrice della verità, immune da pregiudizi, diligente nell'esame dei fatti naturali, modesta nelle opinioni, culta ed elegante nel dire, di cui il tipo può impersonarsi in Francesco Redi (1626-1697)".

Ramazzini tuttavia non è destinato a rimanere in balia dei soli storici della medicina. I medici del lavoro e specialmente quelli italiani hanno spesso utilizzato Ramazzini come una bandiera, come un "nume tutelare", e ciò con finalità ed in occasioni diverse, sia per fare giustamente valere il suo significato storico e quindi trasmettere un messaggio generico quanto universale sui vantaggi della protezione dei lavoratori; sia per rafforzare con la sua autorità richieste di attualità, particolari, con funzione cioè promozionale; sia infine, e questo specialmente durante l'era fascista, per affermare un primato italiano, almeno sull'atto di nascita e sulla paternità della medicina del lavoro. A Firenze, animato da Gaetano Pieraccini (1864-1957), dal 1907 al 1917, si pubblica una rivista dal titolo "Il Ramazzini, Giornale Italiano di Medicina Sociale"; Luigi Devoto (1864-1936) è stato sempre un fervente e coerente sostenitore di Ramazzini, sia in occasione della nascita della Clinica del Lavoro, quando, nel 1908, promuove una nuova traduzione (dal francese) del De Morbis (Ramazzini, 1908), sia nel 1933, quando, oltre che promuoverne ancora una edizione italiana con testo a fronte, si fa animatore di un "tribute" in occasione del suo trecentesimo anniversario della nascita e solennemente, in questa occasione, dice:

"...Oggi i tempi sono mutati. La celebrazione del 3° centenario della nascita di Ramazzini avviene per consenso di S.E. il Capo del Governo; e la larga partecipazione della stampa politica, per iniziativa del Popolo d'Italia, a questo centenario mostra che si comprende, in pieno, Ramazzini, tanto che questa grande figura sembra dell'era nostra: il movimento italiano verso il popolo e verso il lavoro difeso, esteso, protetto ed esaltato ci avvicina a lui e Ramazzini è figlio dei nostri tempi, o il tempo presente va diventando l'età sua anche perché oggi, specialmente in casa nostra, l'uomo ha ripreso il suo alto valore biologico e non sarà più sottovalutato rispetto alla macchina".

E' bene avvertire, per meglio giudicare le effusioni di Devoto, che le condizioni politiche ed anche quelle culturali di quegli anni in Italia favorivano eccessi di entusiasmo che coincidevano alle volte con il travisamento della realtà, infatti non si può confermare oggi che, a fronte di un notevole sviluppo degli studi sulle malattie dei lavoratori, i lavoratori di allora fossero veramente e completamente protetti e che non fossero invece sottovalutati rispetto alle macchine ed alla produzione. Due ulteriori avvenimenti sono da segnalare in questo periodo: anzitutto la versione inglese, del 1940, del De Morbis, completa, autorevole, filologicamente annotata e con testo a fronte, dovuta al lavoro della grecista Wilmer Cave Wright (1865–1951) che è risuscita a colmare, indipendentemente da qualsiasi celebrazione, una lacuna fortemente sentita per molto tempo in tutti i paesi anglosassoni. Un secondo avvenimento riguarda lo storico dell'economia Romani che nel 1942 aveva svolto un'indagine attenta sulle condizioni dei lavoratori alla fine del secolo XVII, seguendo la traccia del lavoro ramazziniano, ed era pervenuto alle seguenti conclusioni: il De Morbis non gli aveva consentito una chiara e buona conoscenza dello stato della tecnica e delle condizioni di vita dei lavoratori sul finire del '600, ciò che lo aveva colpito non era tanto lo stadio ancora umile di sviluppo della tecnica, bensì "la mancanza quasi totale di ogni misura igienica diretta a proteggere la vita umana nell'esercizio delle attività più indispensabili all'esistenza". ​
La seconda metà del Novecento vede numerose traduzioni e ristampe dell'opera ramazziniana in russo nel 1961), in portoghese - brasiliano nel 1971, in tedesco, nel 1977, in giapponese nel 1979, in spagnolo nel 1983, in francese nel 1990, in svedese nel 1991, di nuovo in tedesco nel Ramazzini, 1998, in spagnolo - messicano nel 2000 ed in greco moderno nel 2001. La fortuna dell’opera del carpigiano in questo ultimo periodo richiama alla memoria una visione tanto poetica quanto efficace proposta ancora da Devoto: "Ramazzini si può paragonare ad un gagliardo corso d'acqua che ad un certo punto scompare e nelle oscure viscere del sottosuolo prosegue la sua marcia. Qualcuno ne ode il mormorio profondo, ma non sa definirlo. Devono percorrere un lungo tratto perché quelle acque umane vengano ad affiorare". Il corso d'acqua a questo punto è completamente affiorato ed il suo regime dovrebbe essere tutt'altro che turbolento, anzi rassicurante sotto tutti i punti di vista, anche in quello storico e culturale.

Il De Morbis artificum diatriba è disponibile in ogni latitudine risultando quindi "globalizzato" ed unificante. Esso è stato utilizzato, specie negli anni '70 ed '80, anche per caratterizzare meglio la richiesta, nei paesi industrializzati, di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, formulata, spesso con forza e con le lotte, direttamente dai lavoratori e dalle loro organizzazioni. La stessa cosa sta succedendo e si spera possa continuare a succedere nei paesi così detti in via di industrializzazione. L'opera di Ramazzini è stata anche utilizzata come fonte storica di informazioni di fondamentale importanza: il capitolo sulla tecnica dalla fine del secolo XV agli inizi del XVII della "Storia del Lavoro in Italia" di Amintore Fanfani (1908-1999), si regge quasi esclusivamente sulla base di citazioni esplicite e non de "Le Malattie dei Lavoratori". Carlo Maria Cipolla (1922-2000), autore di capitoli fondamentali del “sistema sanitario italiano” del XVII secolo era conoscitore interessato dell’opera ramazziniana e la cita ampiamente nella sua originale ricostruzione della “Storia economica dell’Europa pre-industriale”. Piero Camporesi (1926-1997) ci ha lasciato un capitolo inimitabile di "storia di vita materiale" del suo “La miniera del mondo”, sui "mestieri ignobili", utilizzando molte informazioni di prima mano riportate da Ramazzini. 
Analizzando complessivamente i motivi della fortuna ramazziniana si può scorgere alla loro base un programma di ricerca-intervento che, aggiornato nel tempo, ha prodotto e continua a produrre in alcuni casi dei risultati che da una parte rendono conto delle tipiche malattie professionali, quelle provocate da noxae esterne provenienti dai regni minerali, vegetali, animali, o da tutti e tre assieme; dall’altra parte tali risultati non trascurano, anzi enfatizzano da subito una “seconda classe” di malattie, quelle causate da eccesso o da difetto di movimenti di alcune parti del corpo. In altri termini, se le malattie della prima classe sono le malattie professionali in senso stretto, quelle della seconda rappresentano bene l’effetto di ciò che noi oggi chiamiamo “usura da lavoro”, quegli stessi, sempre più attuali, che sono stati rivelati con clamore, ed in alcuni casi fatti valere, come “fattori del quarto gruppo” (fattori stancanti diversi dalla fatica fisica) in Italia nella seconda metà degli anni ’60 del Novecento all’interno della linea sindacale per la lotta alla nocività del lavoro. Il “padre della medicina del lavoro” ha acquisito i suoi meriti maggiori quando ha raccomandato di aggiungere alle tradizionali domande del medico quam artem exerceat (che lavoro fa?); egli stesso oggi, per disporre di una anamnesi lavorativa più veritiera ed utile, aggiornerebbe la sua domanda aggiungendone delle altre legate alla attualità politico-sociale: quot artes exercuisti (quanti lavori hai fatto?); quales artes exercuisti (quali?); quamdiu sine opere fuisti (per quanto tempo sei stato disoccupato?); quae varia auctoramenta aut quae variae rationes instauravisti (con quali generi di contratti?). * 

Questo testo è una riduzione ed una rielaborazione del materiale utilizzato negli apparati critici che compaiono in: Bernadino Ramazzini, Opere mediche e fisiologiche a cura di Franco Carnevale, Maria Mendini, Gianni Moriani, 2 Volumi, Cierre Edizioni, Sommacampagna (Verona) 2009. La stessa opera è disponibile anche in inglese: Bernardino Ramazzini, Medical and physiological works, Edited by Franco Carnevale, Maria Mendini, Gianni Moriani, in two volumes, Cierre Edizioni, Sommacampagna (Verona) 2012. Per la bibliografia, omessa in questo testo, si rimanda ai volumi sopraindicati.

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