fbpx Svante Pääbo: un Nobel all’evoluzione umana | Scienza in rete

Svante Pääbo: un Nobel all’evoluzione umana

Tempo di lettura: 7 mins

Svante Pääbo, premio Nobel per la medicina 2022. Immagine: Wikimedia

Il 3 ottobre è stato un giorno importante non solo per l’antropologia molecolare ma per tutti gli studi di evoluzione umana: il premio Nobel 2022 per la fisiologia e la medicina è stato assegnato a Svante Pääbo, il padre delle ricerche sul DNA antico, per il suo contributo alla decifrazione dell’intero genoma di Neandertal e di altri ominini ormai estinti.

La storia dell’evoluzione umana, non solo quella della nostra specie ma di tutti gli altri ominini che l’hanno preceduta o accompagnata, è stata ricostruita per oltre un secolo unicamente attraverso l’analisi dei caratteri morfologici dei resti fossili e dei manufatti legati all’industria litica, a quella su osso e avorio e alle testimonianze artistiche. All’inizio degli anni Sessanta del Novecento però si è sviluppata in campo biologico una nuova disciplina: la genetica. E da quel momento l’antropologia ha iniziato a essere rivoluzionata. Il vero rinascimento negli studi antropologici, tuttavia, è maturato solo una trentina di anni dopo, alla fine degli anni Ottanta, quando nel laboratorio di Allan Wilson, presso l’Università della California a Berkeley, lo stesso professore e due suoi allievi, Rebecca Cann e Mark Stoneking, hanno analizzato il DNA mitocondriale (mtDNA) di molti uomini e donne di diverse popolazioni attuali e hanno stabilito che la nostra specie è nata in Africa circa 300-200 mila anni fa. Quel DNA è formato da solo 16.500 coppie di basi rispetto a circa le 3 miliardi di quello nucleare; è presente in tante copie nelle nostre cellule mentre di quello nucleare ce ne sono solo due; ed è trasmesso unicamente per via materna. Queste caratteristiche rendono l’mtDNA facile da studiare ma chiariscono la nostra storia evolutiva solo dal lato materno e bisognerà aspettare lo sviluppo di nuove tecnologie per sottoporre ad analisi il DNA nucleare e definire quindi più dettagliatamente l’evoluzione umana.

In quegli anni è arrivato nel laboratorio di Wilson il giovane Svante Pääbo, che ha rivoluzionato ulteriormente l’antropologia utilizzando la genomica nell’analisi delle popolazioni antiche. Quindi non solo più la morfologia ma anche il DNA per studiare la nostra storia.

I suoi primi tentativi su tessuti umani mummificati non hanno dato buoni risultati e per affinare la tecnica ha deciso di lavorare su campioni di un animale da poco estinto: il quagga. E i risultati sono stati soddisfacenti. A quel punto, Pääbo ha deciso di dedicarsi nuovamente alla storia antica degli ominini e ha fondato la paleo-genomica per verificare le differenze genetiche esistenti tra le varie specie.

La molecola del DNA comincia a degradarsi, cioè a spezzettarsi, dopo la morte degli individui e la tecnologia attuale consente di recuperare tratti di lunghezza significativa per lo studio in reperti umani risalenti fino a circa 400.000 anni fa. Il materiale da cui ricavare il DNA quindi è quello scheletrico.

I neandertaliani sono vissuti in Europa, Medio Oriente e Asia occidentale tra circa 400.000 e 30.000 anni fa e pertanto quell’ominino è entrato nell’interesse di Pääbo. Il problema antropologico sul quale si sono misurati gli studiosi di diverse generazioni era quello di determinare se loro e noi eravamo specie diverse o solo sottospecie di un’unica specie.

Il primo neandertaliano su cui Pääbo ha fissato il suo interesse è stato quello che gli ha dato il nome: il fossile rinvenuto nel 1856 nella grotta di Feldhoffer, nella valle di Neander nei pressi di Düsseldorf in Germania, e per il quale William King nel 1864 creò il nome specifico di Homo neanderthalensis.

All’inizio, Pääbo ha preso in considerazione l’mtDNA e ha dovuto risolvere subito il problema della contaminazione. Come si comprende, i fossili passano attraverso molte mani e su di essi si depositano quindi tante molecole di DNA di uomini e donne attuali, oltreché di microrganismi. Se non si fa attenzione, il DNA sottoposto ad analisi non è quello estratto dal reperto ma quello di chi lo ha toccato. Per questo, quando possibile, la polpa dei denti fossili è il materiale privilegiato, dato che è contenuto in una “scatola” sigillata, oppure si ricorre alle parti interne dello scheletro, come la rocca petrosa, la porzione dell’osso temporale di forma piramidale dove alloggiano gli organi del sistema uditivo interno. In mancanza di queste sezioni si utilizzano frammenti di ossa compatte. E i laboratori in cui si effettuano le analisi sono organizzati secondo procedure stabilite internazionalmente.

Si deve ricordare che gli studi per ricostruire il genoma nucleare della nostra specie sono iniziati negli anni Novanta del secolo scorso e i primi risultati di quel Progetto Genoma Umano sono stati resi noti nel 2001. Negli stessi anni, Pääbo ha iniziato a ottenere alcune prime corte sequenze di mtDNA neandertaliano, la più lunga delle quali, precisamente 379 nucleotidi, è stata confrontata con quella dell’umanità attuale, dimostrandosi assolutamente estranea alla nostra variabilità. La conclusione di Pääbo è stata che noi e i neandertaliani fossimo due specie diverse che non si erano mai incrociate tra loro e che avevamo condiviso un antenato comune circa 690-550 mila anni fa.

Naturalmente, quell’esito dello studio doveva essere verificato aumentando sia il numero di nucleotidi di mtDNA della sequenza che quello di fossili provenienti da varie parti dell’areale di distribuzione della specie. Nel 2008 Pääbo ha pubblicato l’intera sequenza dell’mtDNA neandertaliano e i risultati sono stati congruenti: mostrando una divergenza tra la loro e la nostra linea risalente a circa 660 mila anni fa.

Quando però Pääbo è passato al DNA nucleare il quadro è cambiato. I primi risultati risalgono al 2010 e hanno dimostrato che nel nostro genoma c’è tra l’1 e il 2 per cento di DNA neandertaliano. Non in tutte le popolazioni però. Negli africani non c’era traccia di geni neandertaliani e ciò significava che gli incroci c’erano stati dopo che i primi Homo sapiens erano usciti dalla culla africana, circa 70 mila anni fa. E il luogo dove si erano incontrati è certamente il Medio Oriente. Attualmente, tuttavia, una modestissima traccia di DNA neandertaliano è stata riscontrata anche in alcuni gruppi africani: circa lo 0,3%, dovuto a migrazioni di ritorno in Africa di umanità attuale che si era precedentemente mescolata con i neandertaliani.

Oggi sappiamo che tutte le specie animali, quindi noi compresi, non sono scatole ermeticamente chiuse. E quindi qualche modesto incrocio è possibile e documentato.

Sempre nel 2010, Pääbo ha ottenuto un altro straordinario risultato: la prima identificazione molecolare di una specie fossile. Fino ad allora per definire una specie nuova si dovevano avere resti fossili tali da poter essere confrontati con quelli noti di altre specie. Nel 2008 però, nella grotta Denisova nei monti Altai in Russia, è venuta alla luce una falange di una giovane ominina vissuta tra 48 e 30 mila anni fa. Morfologicamente non era possibile alcuna attribuzione ma lo studio dell’mtDNA ha permesso a Pääbo di scoprire che quel DNA era diverso sia da quello neandertaliano che dal nostro. Si trattava quindi di una nuova specie ominina: Denisova. E l’antenato comune ai denisovani, ai neandertaliani e a noi sarebbe vissuto circa un milione di anni fa: quasi il doppio quindi rispetto alla data relativa dell’antenato comune ai neandertaliani e a noi.

Lo studio del DNA nucleare ha poi dimostrato che la divergenza tra i denisovani e i neandertaliani sarebbe databile a circa 470-380 mila anni fa, mentre quella tra loro due e noi risalirebbe a circa 760-550 mila anni fa. E ancora che c’è stato un flusso genico tra i neandertaliani e i denisovani e tra questi ultimi e le sole popolazioni attuali della Melanesia.

Il cantiere della ricerca paleo-genomica di Pääbo è tuttora aperto all’interno dell’evoluzionismo darwiniano e certamente nel prossimo futuro questa disciplina, e più in generale gli studi sulle macromolecole antiche, rivestiranno un ruolo sempre maggiore per definire nei dettagli il quadro evolutivo umano, che si sta rivelando assai complesso, e per chiarire alcuni passaggi del nostro passato che sono ancora oscuri.

 

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Intelligenza artificiale ed educazione: la ricerca di un incontro

Formazione ed educazione devono oggi fare i conti con l'IA, soprattutto con le intelligenze artificiali generative, algoritmi in grado di creare autonomamente testi, immagini e suoni, le cui implicazioni per la didattica sono immense. Ne parliamo con Paolo Bonafede, ricercatore in filosofia dell’educazione presso l’Università di Trento.

Crediti immagine: Kenny Eliason/Unsplash

Se ne parla forse troppo poco, almeno rispetto ad altri ambiti applicativi dell’intelligenza artificiale. Eppure, quello del rapporto fra AI ed educazione è forse il tema più trasversale all’intera società: non solo nell’apprendimento scolastico ma in ogni ambito, la formazione delle persone deve fare i conti con le possibilità aperte dall’IA.