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Quando gli animali selvatici entrano in città

Sui social e nei media impazzano le notizie di animali selvatici in città, che conferiscono un sapore ancora più surreale e fantascientifico alla attuale situazione di pandemia. Ma perché gli animali entrano nelle città? Sono una novità portata dal COVID o semplicemente ce ne accorgiamo di più?
Crediti immagine: Pikrepo. Licenza: CC0

Tempo di lettura: 10 mins

Caprioli che guardano le vetrine del centro in un paese della pianura piemontese, un tasso che corre per le strade a Firenze, lupi solitari sui marciapiedi…e persino una giovane aquila reale sui cieli di Milano! E non solo: leoni che prendono il sole sonnacchiosi sull’asfalto in Sudafrica, canguri che saltellano per le strade di Adelaide, scimmie che invadono viali in Tailandia, branchi di bufali sulle superstrade di Nuova Dehli. L’elenco potrebbe andare avanti ancora molto a lungo. Sui social impazzano le condivisioni di foto e video, con il tag #naturerevives, la natura rivive.

Certo, alcuni sono fotomontaggi, oppure sono veri ma la località e/o la data di scatto sono false, come gli elefanti ubriachi nella provincia di Yunnan in Cina, oppure i cervi che corrono sulle spiagge della Versilia o di tante altre presunte località balneari italiane. Molti però sono documenti reali di questo periodo così particolare. In tutto il mondo, alla riduzione delle attività umane dovuta al cosiddetto lockdown, gli animali hanno reagito esplorando le zone urbanizzate. Che cosa sta succedendo?

Il paesaggio della paura

Nel 2001 l’ecologo John Laundré e collaboratori coniarono il termine landscape of fear, letteralmente “paesaggio della paura”, un modello che permette di capire come gli animali utilizzano lo spazio non solo in base alle caratteristiche ambientali, ma anche sulla base del pericolo percepito. Secondo questa ipotesi, in pratica, gli animali costruiscono una mappa mentale di rischio per valutare i costi e i benefici degli spostamenti: ad esempio scegliere dove è più conveniente alimentarsi, per mangiare col minimo rischio di essere mangiati da altri. E in particolare, Homo sapiens è un superpredatore: grazie alle armi e alla tecnologia rappresenta un pericolo persino per le specie ai vertici delle catene alimentari.

Per questo motivo la maggior parte degli animali selvatici cerca in tutti i modi di sottrarsi a un incontro ravvicinato con l’uomo. Lo fa evitando i posti da noi frequentati, oppure ripartendo le cose da fare durante la giornata in orari utili per non imbattersi nelle persone. La maggior parte delle specie diurne di mammiferi, in presenza di attività o insediamenti antropici, diventa notturna infatti, come rivela un recente studio pubblicato su Science. Ma non solo: nelle aree più antropizzate gli animali riducono i loro spostamenti, diventando per così dire un po’ sedentari, e anche in questo caso un articolo di Science ce ne dà conferma.

Insomma, la maggior parte degli animali cerca di vivere evitandoci. I rumori, il traffico, le luci, la presenza di persone, costituiscono ostacoli per lo spostamento tanto quanto le barriere fisiche. Con la riduzione dei nostri spostamenti, molte di queste barriere sono diventate superabili, e gli animali iniziano a spostarsi anche nelle ore diurne, perché sono diventate tranquille al pari della notte. E poi ci sono animali che si avventurano nelle zone urbane solo ora, e altre che ci sono da lungo tempo. Alcuni animali vivono tra di noi in paesi e città, ma si spostano di notte, o usano solo zone meno frequentate, e quindi normalmente non notiamo la loro presenza. Ora potremmo dire che sono venuti allo scoperto.

Il topo di campagna e il topo di città

Per lungo tempo le città sono state considerate come dei non-luoghi per la fauna, inospitali e impenetrabili. Per la maggior parte delle specie, l’urbanizzazione significa perdita e frammentazione dell’habitat, e in alcuni casi condanna all’estinzione. Queste specie vengono definite “urban avoiders”, (ovvero evitatori) e dipendono strettamente da habitat naturali per sopravvivere. Per certe specie, invece, la città è una nuova opportunità da esplorare. La maggior parte vive comunque ai margini e compie delle esplorazioni notturne nei centri: pur utilizzando contesti profondamente alterati, dipende comunque della presenza di spazi naturali. Questi animali sono chiamati “urban adapters”, ovvero adattati all’ambiente urbano. Infine ci sono specie che trovano nelle città una nicchia vuota da occupare: sono gli “urban dwellers”, i cittadini, che tra le costruzioni dormono, mangiano e si riproducono.

«Le specie vincenti nelle città sono quelle più flessibili dal punto di vista ecologico», afferma Andrea Monaco, zoologo dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA). Circa il 3,4% delle specie di mammiferi esistenti è osservata regolarmente nei centri urbani. Uno studio recentemente pubblicato su Ecology Letters indica che le specie che hanno più successo nel colonizzare gli ambienti cittadini sono quelle che producono una prole numerosa, tratto essenziale per assicurarsi una discendenza in un contesto carico di rischi.

Tra gli urban adapters, una caratteristica importante è una maggior massa cerebrale, associata alla capacità di adattarsi a situazioni imprevedibili e piene di insidie. E poi questi mammiferi non sono certo degli schizzinosi, ma possono spaziare nella dieta, e questo permette loro di trovare cibi ricchi di energia rovistando tra i rifiuti, di cui le città abbondano. «Si tratta di specie generaliste, in grado di adattarsi a contesti differenti e di sfruttare le risorse che trovano, possono modificare la dieta e i ritmi di attività», spiega Monaco. «Parlo ad esempio di gabbiani, cornacchie, volpi e anche il cinghiale. Una specie, quest’ultima, ben studiata in contesto urbano, capace di cibarsi di rifiuti e modificare i ritmi di veglia e riposo. In natura il cinghiale è attivo anche di giorno, mentre in aree urbane passa le ore centrali della giornata immobile».

Rispetto ai conspecifici che vivono in ambienti naturali, gli animali di città sono un po’ più coraggiosi. Diversi studi sperimentali indicano che gli individui che si adattano al contesto urbano hanno un maggiore livello di “sfrontatezza” (boldness): sono meno spaventati da oggetti e situazioni nuove e hanno una ridotta distanza di allerta e fuga quando incontrano le persone. Lo abbiamo visto prima, la paura e la diffidenza aiutano gli animali a evitare il più possibile situazioni che potrebbero mettere a repentaglio la loro vita. La maggiore tolleranza al disturbo antropico dei cittadini porta a cambiare la mappa di rischio mentale, perché cambia la percezione del rischio rispetto ai conspecifici che utilizzano ambienti naturali.

Un ambiente che cambia rapidamente

All’inizio dell’Ottocento, solo il 10% circa delle persone abitava nei centri urbani, ed esistevano solo una cinquantina di città che superavano i 100.000 abitanti. Secondo le ultime stime dell’Onu, oggigiorno circa il 56% della popolazione vive nelle città, il 23% in città con almeno 1 milione di abitanti, e ci sono ben 33 megacities, ovvero metropoli con più di 10 milioni di abitanti. La maggior parte delle zone urbane in rapida espansione sono in particolare in Asia e Africa. Molte di queste si trovano proprio in corrispondenza di hotspot di biodiversità. All’espansione urbana corrisponde una rimozione degli habitat alternativi per gli animali, quindi con l’avanzare del processo di urbanizzazione possiamo aspettarci un aumento delle specie che cercano di approfittare di questi nuovi ambienti.

Le città sono un ambiente a sé stante, e non solo per la presenza di edifici e strade. Con l’urbanizzazione cambia il clima, che in generale è più caldo: la forma e la disposizione delle costruzioni influenzano la radiazione solare e la circolazione dei venti, l’asfalto e il cemento trattengono più calore. Cambiano il suolo e l’idrologia, le comunità vegetali presenti non sono spontanee ma scelte dalle persone. E poi cambia la composizione dell’aria, e anche il rumore e la luce sono alterati rispetto agli ecosistemi naturali. Infine, non ultimo, la città offre l’opportunità, per alcune specie, di fonti di cibo ad alto contenuto energetico e disponibili tutto l’anno.

Non tutte le specie sono in grado di vivere in città, e non tutte le città (o tutti i quartieri di una città) sono idonee per essere colonizzate. A parte i cittadini veri e propri, molti animali hanno bisogno di determinate caratteristiche per entrare all’interno del tessuto urbano e approfittarne. In particolare la presenza di aree verdi e di corridoi naturali che collegano le zone naturali alla città, che possono essere corsi d’acqua, ferrovie o anche le linee di pali della luce. «Ci sono delle caratteristiche che predispongono alcune città più di altre alla presenza di fauna urbana. Ad esempio, per quanto riguarda il cinghiale, gli studi svolti dai colleghi a Barcellona e a Berlino indicano che è determinante la presenza di aree boscate in prossimità o all’interno del tessuto urbano. Un altro elemento importante è la presenza e la gestione dei corsi d’acqua che penetrano dai contesti periurbani all’interno della città», spiega Monaco. «Roma, ad esempio, è una città che si presta molto alla presenza di questi animali, perché ha una serie di introflessioni degli habitat naturali: come l’Appia antica o l’Insugherata, aree in cui si ha un’interfaccia tra ambienti naturali e urbani».

Gli alieni sono in città

«Nelle città è sempre più facile incontrare fauna aliena: un caso eclatante è quello dei pappagalli, il parrocchetto dal collare e il parrocchetto monaco, entrambi stabilmente nidificanti in diverse città italiane», prosegue Monaco. La lista è lunga, basti pensare alle nutrie, o agli scoiattoli grigi, oppure ai “conigli” di Parco Sempione a Milano, tra i primi a essere immortalati come natura in città a inizio lockdown, e che in realtà, spiega Monaco, «sono silvilaghi, una specie aliena invasiva proveniente dall’America, e presente anche in contesti naturali perché rilasciata a scopi venatori».

«Le città sono molto vulnerabili all’introduzione delle specie aliene per la presenza di punti di ingresso delle merci, come porti e aeroporti, di attività economiche come negozi di animali d’affezione e vivai, impianti di stoccaggio di derrate varie. Per questi motivi c’è un rischio elevato di diffusione, per fughe accidentali, ma anche per rilasci volontari», spiega il ricercatore. «Ad esempio, le testuggini dalle guance rosse stanno ormai saturando i parchi urbani in tutt’Italia. Sono animali presi come pet, ma sono molto longevi, possono vivere oltre i cinquant’anni, a volte il proprietario cambia vita e decide erroneamente di rilasciarli, in parchi urbani o peggio ancora in contesti naturali».

Le specie aliene sono una grave minaccia per la biodiversità. La testuggine dalle guance rosse, Trachemys scripta, è aliena e invasiva, è un agente di malattie e parassiti che mette a repentaglio la sopravvivenza della testuggine palustre europea Emys orbicularis (già classificata come prossima alla minaccia dalla IUCN), e può causare l’estinzione di alghe, piante e animali di cui si ciba. Ricordiamo che per questa specie è obbligo di legge denunciarne il possesso, ed è assolutamente vietato il rilascio in natura.

Una convivenza non facile

In molti casi possiamo considerare alcune specie urbane, come i chirotteri e alcuni uccelli, come indicatori di qualità dell’habitat. In alcuni casi le città hanno avuto un ruolo importante per la conservazione. Un esempio è il falco pellegrino, quasi estinto nella seconda metà del Novecento a causa dell’avvelenamento indiretto con il DDT, la cattura per l’utilizzo in falconeria, e la persecuzione diretta. Oggi sia in Europa che in Nord America questo straordinario rapace è riuscito a adattarsi agli ambienti urbani e nidifica nei palazzi più alti, a New York, Londra e anche in Italia, in diverse città tra cui nei grattacieli di Milano.

Decisamente più conflittuale è invece il rapporto con altre specie, in particolar modo i mammiferi di grandi dimensioni, come cinghiali, cervi, lupi. Il rapporto con questi animali è molto ambivalente: se da un lato infondono timore e diffidenza, dall’altro suscitano curiosità e ammirazione. «La doppia natura del rapporto che si viene a creare tra i cittadini e la fauna urbana rende complesse le decisioni gestionali, perché nei contesti urbani ancor più che in quelli rurali gioca un ruolo importantissimo la dimensione sociale, e a volte i contesti sono esplosivi», spiega Monaco. «Spesso gli interventi gestionali risolutivi sono rifiutati dalle stesse persone che li richiedono. Gli interventi di cattura o abbattimento incontrano ostilità e questo porta al trascinarsi delle situazioni fino alla degenerazione non più risolvibile».

Erroneamente si tende a mutuare verso i selvatici l’approccio utilizzato con gli animali da compagnia. Ma un selvatico, anche se si trova tra le strade e gli edifici, rimane tale. Gli animali hanno delle distanze di tolleranza, superate le quali percepiscono una minaccia e reagiscono scappando, o, in assenza di vie di fuga, attaccando. È assolutamente sbagliato avvicinarsi ai selvatici, ancora di più lo è offrire loro del cibo. È importante rendere i cittadini più consapevoli, perché possano adottare comportamenti corretti.

Conclude Andrea Monaco: «Le città possono essere luoghi di elezione per fare una corretta informazione naturalistica. Ci sono almeno due elementi favorevoli: un’elevata concentrazione di persone, tra cui tante desiderose di entrare a contatto con la natura, e quindi ricettive. Una buona formazione può avere effetti positivi che vanno al di là del contesto cittadino. Una volta acquisite le buone norme di rapportarsi con la natura, le persone lo porteranno con sé anche fuori dalla città».

L’incontro con gli animali può essere emozionante e arricchente, ma perché lo sia davvero bisogna imparare a mantenere la giusta distanza. Attirarli in contesti non idonei alla loro presenza è negativo per noi e per loro, per questo motivo occorre evitare di dare loro cibo e avere nelle città una buona gestione dei rifiuti. Insomma, la chiave di tutto è il rispetto, da adottare sia tra le strade cittadine che fuori porta.

 


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