Nel pieno di
una fase critica di mutamento dell’economia mondiale, l’Italia, prima ancora
del resto d’Europa, si è distinta per l’inadeguata rilevanza data alla cultura
e allo sviluppo della conoscenza scientifica e tecnologica.
Ciò ha creato un
divario notevole con diversi Paesi europei, come la Germania, ma anche con
Giappone e Stati Uniti, che sono diventati veri e propri leader della
rivoluzione della cognitive-cultural economy.
Ad oggi, però, il quadro economico
mondiale si sta pian piano modificando: le economie più consolidate devono fare
i conti con altri paesi emergenti, come la Cina, che è il maggior produttore di
beni industriali hi-tech, in primis computer e pannelli solari. Quest’ultima
non è di certo un’eccezione all’interno del circuito asiatico; sono diventate
sempre più agguerrite e competitive anche India, Singapore e Corea del Sud.
Il Paese più
vasto dell’America meridionale, il Brasile, è diventato la decima potenza
scientifica mondiale, superando l’Italia di due posizioni, mentre il Sudafrica
si appresta a ospitare lo Square Kilometre Array, il progetto
globale di “big science” che vuole fornire risposte alle domande fondamentali
riguardanti l’origine dell’Universo e trovare nuovi orizzonti per raccogliere e
manipolare i dati. Buona parte di quel 30 per cento del prodotto interno lordo
(PIL) mondiale che si fonda sul sapere, il quale si trasforma in servizi di
alta tecnologia, è di proprietà di Paesi che fino a poco tempo fa venivano
definiti “Terzo mondo”. Sono chiari gli indicatori di questa spinta innovativa:
tutto si fonda sull’importanza che viene data agli investimenti annui nella
ricerca scientifica, diventata fattore centrale dell’economia americana.
Secondo
l’ultimo rapporto della National Science Foundation,
l’agenzia federale che finanzia la ricerca scientifica negli USA, le imprese ad
alta intensità di conoscenza scientifica e di tecnologia (KTI) hanno registrato
un fatturato di 19.500 miliardi di dollari, pari al 27 per cento del Pil
mondiale.
A ragion veduta, questo dimostra che un quarto della ricchezza
prodotta ogni anno si costruisce sulla ricerca scientifica e sullo sviluppo
tecnologico. Tra i Paesi emergenti, la Turchia produce il 23 per cento del Pil
proprio grazie alle imprese KTI. Mai nella storia tanti paesi hanno contribuito
in modo così rilevante allo sviluppo della ricerca scientifica: si tratta di
una fase di mutamento alla quale tutti hanno il dovere di partecipare.
L’Italia, purtroppo, non si è dimostrata abbastanza lungimirante in tal senso: per anni le aspettative della politica sono andate ben oltre le reali possibilità di ottenere dei risultati. Ma il declino italiano ha delle precise origini strutturali, nate dal blocco del sistema industriale e dalla recessione. In particolare, si deve alla specializzazione produttiva di carattere poco competitivo, che ha tagliato letteralmente i legami con l’economia della conoscenza; la produzione interessa beni medium e low-tech, ovvero a media e bassa tecnologia, che non presuppongono investimenti sostanziali. I numeri parlano chiaro: il nostro Paese, crogiolandosi nella forza della storica industria manifatturiera, ha investito cifre irrisorie nel finanziamento della ricerca scientifica rispetto agli altri paesi, ovvero l’1,2% del Pil, meno della metà rispetto a Germania e Stati Uniti, ma anche un quarto rispetto ad Israele. Il panorama della ricerca scientifica italiano, però, presenta un paradosso: si fa certo fatica a trovare finanziamenti, ma i ricercatori sono altamente produttivi rispetto alla media europea, sia in termini di qualità che di quantità. Per quanto concerne l’industria culturale italiana, quest’ultima è sostanzialmente in espansione, eppure avrebbe bisogno di rigenerarsi attraverso nuovi stimoli creativi e innovativi. Infine, la formazione: i dati presentano uno spaccato non di certo positivo. L’Italia investe solo lo 0,9% del Pil nell’istruzione terziaria, il cui risultato è un sempre maggior accumulo del deficit di formazione.
Il “triangolo della conoscenza” si pone
alla base della crescita intelligente nel campo dell’istruzione, della ricerca,
della cultura e dell’innovazione. Il concetto pare esser chiaro a tutti,
compresi gli altri Paesi Europei, che tutto sommato hanno avuto più d’una
difficoltà a collocarsi in modo adeguato nel quadro economico e a inserirsi
nella “nuova globalizzazione”.
La Commissione Barroso ha indicato come
obiettivi primari la crescita delle industrie ad alto contenuto scientifico e
tecnologico, da raggiungere entro il 2020. La sfida che garantisce la
competitività globale dell’Europa ha preso il nome di Horizon 2020, il
Programma Quadro Europeo per la Ricerca e l’Innovazione, attivo dal 1 gennaio
2014 sino al 31 dicembre 2020, che mette sul piatto 79 miliardi di euro (ben
30% in più rispetto all’ultimo programma). La struttura di Horizon 2020 è composta da tre Pilastri e da
cinque Programmi trasversali: l’Eccellenza nel campo scientifico, che si
propone di elevare il livello di eccellenza scientifica europea; la Leadership
industriale, che mira a rendere l’Europa un territorio maggiormente allettante
per gli investimenti nella ricerca e nell’innovazione, accelerando lo sviluppo
tecnologico attraverso imprese che dovranno diventare leader a livello
mondiale; le Sfide sociali, il cui finanziamento è incentrato su programmi di
salute, sicurezza alimentare, agricoltura sostenibile, energia pulita,
trasporti intelligenti ed ecologici, nonché sull’efficienza di risorse e
materie prime.
L’interrogativo che ci si pone è chiaro: riuscirà l’Europa, e con essa l’Italia, a immettersi nel circuito dell’economia della conoscenza assieme agli altri Paesi e raggiungere gli obiettivi prefissati? Il programma Horizon 2020 sarà una sfida rischiosa, ma anche un’opportunità, che al momento non ci si può lasciar certo sfuggire.
STEFANIA CAMBULE