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La scienza e la politica dopo la rielezione di Obama

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Nonostante nessuno dei due candidati alla presidenza degli USA abbia affrontato con particolare enfasi i temi di scienza e ricerca durante la campagna elettorale appena conclusasi, dietro alla rielezione di Barack Obama c'è più scienza di quanto potrebbe sembrare. E in tanti, nell'ambiente della ricerca, si auspicano che ce ne sia ancora di più nei quattro anni a venire, per il bene stesso del grande sogno americano. Il presidente rieletto, nelle fasi finali della corsa alla Casa Bianca, ha ricevuto l'endorsement pubblico di ben 68 scienziati americani ex premi Nobel che si sono schierati al suo fianco preferendolo all'avversario repubblicano sulla base delle sue posizioni nel campo dell'istruzione e della ricerca scientifica: due ambiti che Obama ha citato anche nel discorso della vittoria, il 7 novembre scorso. Fra i motivi di tale plateale sostegno, il fatto che Obama ha dimostrato di comprendere il ruolo chiave della scienza per il rilancio del Paese e la sua politica di investimenti soprattutto nel settore tecnologico e delle scienze di base.

A far perdere terreno a Mitt Romney nella cerchia dei ricercatori ha certamente contribuito il suo piano di tagliare i fondi a una lunga lista di enti federali come il National Institute of Health, la NASA, la National Science Foundation. Le stesse istituzioni rischiano comunque tagli sostanziali (si calcola fino all'8% del loro bilancio) se neppure il presidente rieletto riuscirà a evitare il temutissimo baratro fiscale. Già nel 2008, Obama aveva ricevuto il sostegno di oltre 70 premi Nobel per la medicina, la fisica e la chimica che lo avevano preferito a McCain. Viene da pensare che la scienza, almeno negli USA, abbia un orientamento politico preferenziale. Ma è davvero così? Senza dubbio è così per il gruppo di consulenti che a titolo gratuito hanno lavorato alla campagna elettorale del candidato democratico: professori universitari di psicologia, economia comportamentale e scienze sociali provenienti dai più prestigiosi atenei americani. Il gruppo, denominato COBS ossia “consortium of behavioral scientists”, ha collaborato con estrema discrezione, fornendo idee e proponendo strategie per combattere informazioni scorrette diffuse dagli avversari, come il fatto che Obama sia un musulmano, o per invitare i cittadini ad andare a votare. In tal senso, il loro contributo ha reso la campagna unica nel suo genere. Non sembra, infatti, che Mitt Romney abbia utilizzato simili risorse. Se le scienze sociali e la psicologia hanno contribuito alla definizione della strategia comunicativa del presidente democratico, buona parte della fortuna del suo prossimo mandato è nelle mani di altri studiosi, a giudicare dalle ambiziose dichiarazioni di intenti di Obama che ha affermato di voler puntare ancora di più su salute, ambiente ed energie rinnovabili per risvegliare l'economia americana. Questa volontà è stata fra i punti di maggior divaricazione nei programmi dei due candidati. Adesso la comunità scientifica auspica la promozione di misure concrete per rilanciare la ricerca e contribuire alla ripresa del Paese. In gennaio, quando Obama giurerà ufficialmente per il suo secondo mandato, il Congresso eleggerà un nuovo presidente - repubblicano - per la Commissione su Scienza, Spazio e Tecnologia della House of Representatives. Chiunque verrà scelto, giocherà un ruolo fondamentale per l'assegnazione dei finanziamenti federali alla ricerca e già circolano i nomi dei probabili candidati. Intanto, un provvedimento fondamentale, su cui Obama ha concentrato buona parte della sua comunicazione elettorale, è la formazione di 100.000 nuovi insegnanti di scienze e di matematica che a loro volta dovranno preparare un milione di laureati in materie scientifiche nei prossimi dieci anni. Un'operazione semplice, ma lungimirante che dovrebbe ispirare simili decisioni, anche a casa nostra.

In Italia, come ribadito dai recenti appelli sottoscritti e divulgati anche da ScienzainRete, si continua a investire poco e soprattutto a non programmare. Non si tratta soltanto di stanziare risorse insufficienti a garantire un reale rilancio dell’economia del Paese, infatti. Un problema ancor più urgente è la generale assenza di impegno - culturale e politico - verso le questioni dello sviluppo, della ricerca e dell’innovazione. Continuiamo a vantare meno ricercatori (70.000) e meno fondi rispetto ai principali Paesi industrializzati. Ciononostante, il nostro indice di produttività è eccellente (2,28% di pubblicazioni scientifiche in base a Impact Factor e H-Index) e nella classifica del gruppo del G7 ci piazziamo al terzo posto dopo Inghilterra e Canada ma prima di USA, Francia, Germania e Giappone. Insomma, siamo brillanti ma costretti a lavorare in condizioni inadeguate. Particolarmente allarmanti restano infatti i dati relativi alla fuga all'estero dei cervelli italiani: ogni top scientist che lasciamo andare vale circa 63 milioni di euro. Se si considera la durata totale media di produzione scientifica, la cifra lievita fino a 148 milioni di euro netti e sale a 200 per un ricercatore specializzato in farmaceutica. In vent'anni la fuga ha causato al nostro Paese un danno economico di 4 miliardi di euro, una somma pari a una manovra finanziaria. Anche solo in termini economici, l'entità dell'esodo dei nostri scienziati è pesantissima e dovrebbe, da sola, stimolare azioni urgenti. Basti pensare che fra i cento migliori ricercatori italiani, la metà sceglie la strada dell'estero e che se consideriamo i primi 50, la percentuale di fuga sale al 54%. Negli ultimi vent'anni sono state depositate 155 domande di brevetto con un Principal Investigator che rientra nella lista dei top 20 ricercatori italiani all'estero. L'impatto economico, troppo spesso ignorato dai decision makers della politica, è stato massiccio. Si calcola infatti che il valore attuale dei brevetti diretti da questi ricercatori ammonti a 861 milioni di euro netti, due miliardi di euro in vent'anni. Per certa politica come quella italiana, tradizionalmente miope e opportunista, investire in ricerca può costituire un impegno inutile perché i risultati non sono immediati.

Per chi ha davvero a cuore il futuro del Paese, invece, ciò diventa un imperativo imprescindibile.


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