fbpx L'incerto futuro del protocollo di Kyoto | Scienza in rete

L'incerto futuro del protocollo di Kyoto

Primary tabs

Read time: 7 mins

Da quando nel 1997 è stato approvato il Protocollo di Kyoto, e ancor di più dopo la sua entrata in vigore nel febbraio del 2005, “Kyoto” è stata una parola che ha accompagnato numerose azioni di enti pubblici o individuali di riduzione delle emissioni; una parola inserita nel nome di organizzazioni e progetti, osservatori, master, sportelli per le aziende, dichiarazioni e impegni concreti. Insomma, una parola simbolo delle politiche sul clima.

Sempre più spesso si sente dire che il protocollo di Kyoto è morto, ha fallito, che è stato o va abbandonato. Quanto c’è di vero in queste affermazioni? E quali sarebbero le conseguenze per le politiche sul clima, per il futuro climatico del pianeta?
Per rispondere, occorre capire come funzionano le trattative, i tavoli negoziali e le forze in gioco. Questo sarà l’oggetto di questo e dei prossimi post. 

Sin dalla sua approvazione, era chiaro che il Protocollo di Kyoto era una risposta parziale, iniziale, ad un problema grande e complesso. Ma siccome ogni lungo percorso inizia con un piccolo passo, ci si è spesso riferiti a “Kyoto” per spronare all’azione, per mostrare a quanti dubitavano della necessità di azioni concrete (o viceversa erano preoccupati per la lentezza delle risposte della politica) che qualcosa si stava facendo: tutto sommato era stato approvato un obbligo di riduzione delle emissioni in un quadro legale vincolante. Nel 2008-2012 i principali paesi industrializzati e quelli con le economie in transizione (riportati nell’Annex B del Protocollo: Stati Uniti, Europa, Canada, Giappone, Australia, Federazione Russa, ecc.) si impegnavano a ridurre le loro emissioni del 5,2% rispetto a quelle del 1990.
Sin dal 1997 era evidente che il Protocollo di Kyoto non poteva essere l’unica misura contro i cambiamenti climatici, ma il preliminare a una seria politica sul clima. Data la crescita delle emissioni in economie emergenti come la Cina, l’India, il Brasile, Messico, Sudafrica, Corea del Sud, anche se i paesi industrializzati avessero tutti rispettato gli impegni, le emissioni globali sarebbero comunque aumentate, come in effetti è successo.

Era evidente e scritto nello stesso Protocollo che per ridurre ulteriormente le emissioni dopo il 2012 dovevano arrivare altri accordi. Si iniziò a parlarne fin dal 2005, e grande è stata l’attesa per la Conferenza delle Parti di Copenhagen del 2009, in cui si sperava nell’approvazione di un secondo accordo vincolante, che dopo il 2012 sostituisse quello di Kyoto. L’ambizioso obiettivo non venne però raggiunto.
Secondo l’analisi effettuata da Carraro e Massetti in questo articolo, gli scenari più ottimisti non erano basati sulla reale conoscenza dello stato di avanzamento dei negoziati, che si trovavano – e si trovano tuttora – ad affrontare due ostacoli insormontabili.

Il primo luogo, gli Stati Uniti non potevano firmare alcun accordo vincolante, in quanto il Senato americano aveva bloccato la legislazione sul clima che avrebbe dato al Presidente Obama la credibilità per porsi obiettivi più ambiziosi. Inoltre i Paesi “in rapida crescita” (Cina, India, Brasile) non erano disposti a ridurre le emissioni nell’immediato, ma più realisticamente dopo un certo periodo, e ciò implicava che l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura a livelli di sicurezza non sarebbe comunque stato raggiunto.
In secondo luogo, i paesi in rapida crescita erano e sono ancora riluttanti ad assumere qualsiasi impegno di riduzione delle emissioni giuridicamente vincolante, in quanto il loro obiettivo primario è quello di ridurre la povertà. Essi sottolineano inoltre che le attuali concentrazioni di gas serra in atmosfera attuali sono solo marginalmente attribuibili alle loro emissioni. Quindi, il loro rifiuto di firmare qualsiasi accordo giuridicamente vincolante, quando le grandi economie mondiali non sono pronte a farlo, è in gran parte comprensibile.
Questi sono gli ingredienti di base del cosiddetto “stallo climatico” che ha impedito la firma di un vero e proprio successore del Protocollo di Kyoto e ha spinto il penultimo vertice sul clima a “prendere atto” di un più modesto “accordo di Copenaghen”, la mattina del 19 dicembre 2009.
Gli Accordi di Cancun dello scorso dicembre hanno ancorato l’accordo di Copenhagen ad una decisione della Conferenza delle Parti; ciò lo integra all’interno del solido processo della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite. Le riduzioni delle emissioni promesse non sono cambiate e un accordo vincolante sembra ancora fuori portata. Tuttavia, si sono registrati diversi progressi, descritti in questo post.
Nei mesi scorsi le possibilità di disporre di una legislazione nazionale sui cambiamenti climatici negli Stati Uniti sono rapidamente scomparse e hanno ulteriormente complicato la situazione negoziale. Tuttavia le difficoltà degli Stati Uniti sono solo una parte del problema.
In effetti, il “punto morto del clima” è il sintomo di un’architettura internazionale frammentata: i paesi sono disposti a compiere passi verso la riduzione dei gas serra ma su base volontaria e non coordinata. L’Unione Europea sta agendo con decisione per ricomporre il quadro in modo da poter riprodurre un accordo giuridicamente vincolante, tipo Kyoto, con obiettivi ben definiti, ma sembra un tentativo destinato all’insuccesso.

Secondo numerosi osservatori (una sintesi è disponibile in questo editoriale di Carraro e Massetti o in questa analisi di Daniel Bondansky)  ci sono molte ragioni per ritenere che lo stallo nei negoziati non sarà superato in un prossimo futuro. Non solo nell’imminente COP17 di Durban, in Sud Africa, dal 28 novembre al 9 dicembre 2011, ma anche nei prossimi anni.
Per le sorti delle politiche sul clima, significa che tutto è perduto, che non succederà niente?
È ancora possibile una politica del clima realistica, saldamente radicata nelle azioni che i paesi hanno unilateralmente promesso a Copenaghen, e che porti alle significative riduzioni di gas serra indicate come necessarie dalla comunità scientifica? Andarsene da Kyoto potrebbe lasciare spazio ad una serie di accordi multilaterali più efficaci, come prospettato in un recente commento su Nature?
Oppure senza azioni vincolanti si tratta solo di rinvii, che non porteranno ad impegni seri in grado di deviare la traiettoria delle emissioni rispetto allo scenario business as usual?

Non è facile a dirsi, e anche solo fra i membri del Comitato Scientifico di Climalteranti le posizioni sono diverse, e c’è anche chi ritiene ancora possibile che le posizioni più intransigenti siano superate a Durban, con un accordo politico che prepari la strada per impegni vincolanti nel lungo periodo.

Molti sono i punti ancora oggetto di negoziato a Durban (ad esempio, non è ancora chiaro quale sarà il prossimo strumento legale, trattato, protocollo o altro) e diversi sono gli scenari possibili.
Alcune questioni chiave discusse a Durban molto probabilmente rimarranno al centro della politica climatica ancora per anni.
L’unica cosa sicura è che la futura politica sul clima sarà più articolata e complessa di quanto fosse il Protocollo di Kyoto, con diverse tipologie di impegni e un numero maggiore di Paesi coinvolti, con la partecipazione degli Stati ma anche della società civile, del settore privato, degli enti locali, ecc. e con un notevole spazio per specifici meccanismi tecnologici e finanziari.
Al centro dell’attenzione non ci sono solo gli impegni nazionali per il 2020, ma gli impegni di trasferimento di risorse ai paesi in via di sviluppo per le azioni di mitigazione e di adattamento (il Fondo verde per il Clima di Copenaghen), il ruolo del mercato di carbonio quale strumento per la riduzione delle emissioni, nonché le azioni di mitigazione e di adattamento dei cambiamenti climatici dei paesi in via di sviluppo. Perché una parte di questi paesi è già – e sarà ancora di più – vulnerabile, un sostegno internazionale alle loro misure di adattamento a corto e medio termine può favorire un consenso su un accordo veramente globale, basato su una “visione comune”.
Forse al mondo dell’informazione piacerebbe di più un accordo last-minute fra i Grandi Capi di Stato con un diluvio di sorrisi e dichiarazioni sul pianeta che è stato salvato, oppure un fallimento totale con pianti e scontri di piazza, purtroppo la situazione è molto, molto più intricata.

Tratto dal sito http://www.climalteranti.it
Testo di Stefano Caserini, con contributi di Valentino Piana, Federico Antognazza, Emanuele Massetti, Sandro Federici e Sylvie Coyaud.

Per chi volesse seguire i lavori della COP17 di Durban, può essere utile consultare il sito web della conferenzai programmi giornalieri sulla pagine dell’UNFCCC e per iniziare la sintesi aggiornata proposta dal Segretario Christina Figueras. Su Twitter l’hashtag è  #cop17.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Perché la politica ignora la scienza

La consulenza scientifica ai governi è in crisi: l'80% degli esperti giudica inefficaci i sistemi attuali. Il 78% ritiene che i politici ignorino i pareri scientifici, mentre il 73% nota che i ricercatori non comprendono i processi politici. La disinformazione ostacola ulteriormente il dialogo, minando la fiducia nelle prove scientifiche. Ma c'è dell'altro. Immagine: Distracted boyfriend meme, Antonio Guillem, Wikipedia.

Un recente sondaggio condotto da Nature tra circa 400 esperti del rapporto fra scienza e politiche a livello globale ha messo in luce una criticità preoccupante: l'80% degli intervistati ritiene che il sistema di consulenza scientifica nel proprio paese sia inefficace o lacunoso, e il 70% afferma che i governi non utilizzano regolarmente i pareri scientifici nelle loro decisioni.