fbpx Interphone: lo studio è in ritardo, e si sente | Scienza in rete

Interphone: lo studio è in ritardo, e si sente

Primary tabs

Tempo di lettura: 5 mins

L’attesa è terminata. Dopo 10 anni di calcoli meticolosi, anticipazioni, polemiche, rimandi e dubbi, finalmente i risultati dello studio Interphone, voluto dallo Iarc di Lione per indagare sul nesso fra alcuni tumori e le radiazioni emesse dai telefonini, sono stati pubblicati su International Journal of Epidemiology. Con qualche anomalia fra i numeri, le cifre indicano nel complesso che l’uso dei cellulari negli adulti non è associato a un aumento del rischio di sviluppare gliomi e meningiomi, due delle quattro forme tumorali prese in esame (le altre, per le quali i dati sono ancora in fase di elaborazione, sono il neurinoma del nervo acustico e il tumore delle ghiandole parotidi).

Costato 19,2 milioni di euro, di cui cinque e mezzo di provenienza privata, Interphone è senza alcun dubbio la più mastodontica ricerca mai condotta sul tema, e quando fu avviata – nel 2000, dopo due anni di studi pilota – suscitò subito grandi aspettative. In quegli anni, infatti, il legame fra telefoni cellulari e tumori sembrava plausibile, per quanto mai dimostrato, e preoccupazioni e sospetti si diffondevano anche fra la popolazione. La necessità di fare chiarezza con uno studio autorevole, condotto con metodi inappuntabili e su un campione vasto, era dunque impellente. Interphone fu avviato su questi presupposti e, in base ai programmi iniziali, avrebbe dovuto dare risposte già qualche anno fa. Il tempo però gli è stato fatale: oggi quei presupposti sono in gran parte caduti e i dati appena resi noti sembrano quelli di una ricerca preliminare, con numerosi bias, pubblicata con un lustro di ritardo. L’analisi combinata dei dati provenienti dai 13 Paesi che hanno partecipato, infatti, si è rivelata più ostica del previsto, anche per via di alcuni errori nel disegno originale dello studio. Nel frattempo però alcuni dei gruppi nazionali di Interphone hanno pubblicato i loro risultati, che in buona sostanza negano l’esistenza di una relazione fra i tumori esaminati e l’uso del cellulare; altre ricerche – ormai numerose – hanno aggiunto tasselli nuovi e confermato quei dati; e studi di laboratorio hanno stabilito che le radiazioni non ionizzanti emesse dai cellulari non danneggiano il Dna, né promuovono la crescita di tumori già in atto. Il risultato di Interphone, insomma, era così ampiamente atteso da risultare ormai superato.

Ma a risentire del tempo sono anche altri aspetti dello studio. Nell’era degli smartphone, per esempio, la ricerca dello Iarc prende in esame telefonini analogici che sono ormai pezzi da museo. E spulciando fra i dati si scopre anche che fra i partecipanti all’indagine gli «utilizzatori regolari di telefono cellulare» sono coloro che hanno fatto una chiamata alla settimana per almeno sei mesi (oggi sarebbero utenti occasionali) e che gli «heavy-users» sono persone che hanno telefonato in media mezzora al giorno, un uso che nel 2010 appare molto moderato. Nel comunicato che accompagna lo studio, lo Iarc sottolinea che i due elementi tendono a compensarsi, perché se è vero che oggi i cellulari sono usati molto più massicciamente che 10-15 anni fa, è vero anche che i nuovi modelli emettono meno. Ma a fronte di un’attesa durata anni e giustificata con la complessità dei calcoli occorsi per giungere a numeri precisi, l’approssimazione proposta, certamente corretta nella sostanza, appare decisamente grossolana.

Il colpo di grazia, però, gli anni trascorsi lo hanno dato al metodo usato, e in particolare ai criteri seguiti determinare l’esposizione. Ci si è infatti basati su interviste fatte ai diretti interessati e, in una fetta non indifferente dei casi (in particolare, nel 13 per cento dei malati di glioma, che non erano in condizioni tali da poter partecipare direttamente) ci si è rivolti a loro parenti o a stretti conoscenti. Lo studio ha preso in esame 2409 casi di meningioma e 2708 gliomi diagnosticati fra il 2000 e il 2004, e 5634 controlli. Per tutti sono stati registrati i dettagli relativi alle abitudini personali sull’uso del cellulare nei 10 anni precedenti all’arruolamento. Alzi la mano chi è in grado di ricordare con esattezza quanti minuti al giorno trascorresse al cellulare 10 anni fa, che modello usasse, da che parte mettesse il telefono, se utilizzava sempre, spesso o occasionalmente cuffiette o altri dispositivi che tenevano l’apparecchio lontano dalla testa, quali elettrodomestici aveva in casa e così via. Del resto, che fosse estremamente complicato accertare la reale esposizione alle radiazioni non ionizzanti basandosi su questionari era emerso con estrema chiarezza già negli anni ’90, quando le ricerche sugli effetti sulla salute dei campi elettromagnetici a bassa frequenza (quelli emessi principalmente dagli elettrodotti) si erano imbattute nella medesima difficoltà. L’ostacolo, in quel caso, sembrò ostico al punto che in molti studi si scelse di affiancare ai questionari misurazioni dirette e prolungate nel tempo dell’intensità delle radiazioni presenti nei luoghi frequentati dai soggetti presi in esame. Seguire la stessa procedura con i cellulari però era impossibile all’inizio del Duemila, un po’ perché le compagnie telefoniche interpellate non hanno fornito i dati sul traffico telefonico relativi ai singoli soggetti, e un po’ perché 10 anni fa, a differenza di quanto accade ora, i produttori non erano obbligati a indicare nelle confezioni i livelli di emissione dei loro apparecchi. Uno studio avviato oggi terrebbe certamente conto di quest’ultimo dato ma, nuovamente, gli ingranaggi troppo lenti di Interphone hanno fatto sì che a una ricerca pubblicata nel 2010 manchi un’informazione che è ormai disponibile da diversi anni.

Ai vizi che nel 2000 non potevano essere evitati se ne aggiungono altri, riconosciuti peraltro dagli stessi autori, che riguardano in particolare la selezione iniziale dei partecipanti. Tutto ciò ha creato strane anomalie nei risultati. Una loro lettura veloce, infatti, sembra indicare persino che il rischio di contrarre un tumore negli utilizzatori di telefoni cellulari possa ridursi; e notevole è anche l’eccezione riscontrata nel solo gruppo dei maggiormente esposti, che vedrebbero invece aumentare i gliomi e, in misura minore, i meningiomi. Come si spiega nell’articolo, nel primo caso, l’effetto sarebbe dovuto principalmente al fatto che più spesso hanno accettato di partecipare all’indagine coloro che usavano di più il telefonino. L’incremento del rischio osservato fra gli utilizzatori più assidui pare invece legato in primo luogo al fatto che chi ha un tumore tende a sovrastimare la sua esposizione all’agente che è sospettato di causarlo (va notato che i risultati non rilevano alcuna relazione dose-risposta).

Per questi motivi, l’articolo conclude che «complessivamente non è stato osservato un incremento del rischio di glioma e meningioma con l’uso dei telefoni cellulari. C’è qualche indicazione per un incremento del rischio di glioma ai livelli di esposizione maggiore, ma bias ed errori non permettono di stabilire una relazione causale». Più di questo uno studio preliminare non poteva proprio dire.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Fibrosi cistica: una persona su trenta è portatore sano. E non lo sa.

Immagine tratta dalla campagna "Uno su trenta e non lo sai" sul test del portatore sano della fibrosi cistica: persone viste dall'alto camminano su una strada, una ha un ombrello colorato

La fibrosi cistica è una malattia grave, legata a una mutazione genetica recessiva. Se è presente su una sola copia del gene interessato non dà problemi. Se però entrambi i genitori sono portatori sani del gene mutato, possono passare le due copie al figlio o alla figlia, che in questo caso svilupperà la malattia. In Italia sono circa due milioni i portatori sani di fibrosi cistica, nella quasi totalità dei casi senza saperlo. La Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica sta conducendo una campagna informativa sul test del portatore sano, che consente ai futuri genitori di acquistare consapevolezza del proprio stato.

Se due genitori con gli occhi scuri hanno entrambi un gene degli occhi chiari nel proprio patrimonio genetico, c’è una probabilità su quattro che lo passino entrambi a un figlio e abbiano così discendenza con gli occhi chiari. Questo è un fatto abbastanza noto, che si studia a scuola a proposito dei caratteri recessivi e dominanti, e che fa sperare a molti genitori con gli occhi scuri, ma nonni o bisnonni con gli occhi celesti, di ritrovare nei pargoli l’azzurro degli occhi degli antenati.