Il 22 e 23 settembre scorso, grazie ai risultati del Progetto Opera, inizia l’inaspettata rivoluzione dei neutrini. La fisica rischia di dover riscrivere alcuni capitoli della sua storia. Stupore e scetticismo dominano la scena in attesa di conferme: in questa situazione i mass media e i protagonisti della comunicazione scientifica sono messi a dura prova, tra la rincorsa all’esclusiva e il tentennamento dei canali ufficiali.
Vengono di seguito proposti una serie di articoli che analizzano questo evento eccezionale sotto i suoi diversi aspetti.
22 e 23 settembre sono le date chiave che hanno segnato l’ingresso dell’inaspettata rivoluzione dei neutrini del Progetto Opera, prima in modo ufficioso, poi ufficiale, apparentemente forzata dalle prime indiscrezioni trapelate. L’eccezionale risultato del gruppo internazionale – durante l’osservazione del tempo di volo dei neutrini - ha sconvolto la comunità dei fisici, prima di poter capire in che modo possa realmente sconvolgere quello della fisica. Lo stupore si è unito al fronte dello scetticismo, scanditi da tempi e modalità di diffusione della notizia probabilmente non adeguati al peso della scoperta. I mass media e i protagonisti della comunicazione scientifica sono stati messi a dura prova, tra la rincorsa all’esclusiva e il tentennamento dei canali ufficiali.
In realtà, già almeno una settimana prima gli addetti ai lavori erano a conoscenza di quanto sarebbe stato annunciato. La mattina del 22 settembre, però, il quotidiano Il Giornale pubblica il testo di un’intervista telefonica rilasciata la sera precedente dal prof. Antonio Zichichi (tra i promotori della realizzazione del Laboratorio del Gran Sasso e dell’esperimento CNGS, durante le sue responsabilità direttive all’INFN).
Si parla proprio dei neutrini di Ginevra, un’anticipazione che non rispetta i tempi dell’embargo previsto. Dopo l’inevitabile folla mediatica che, di conseguenza, si è assiepata telematicamente alle porte di Ginevra, è stata poi l’agenzia Reuters a rompere definitivamente l’embargo.
I canali ufficiali di Ginevra hanno quindi accelerato, con la pubblicazione dell’abstract del lavoro su arXiv.com – la notte tra il 22 e il 23 – e con l’annuncio di una presentazione dei dati, non ancora ufficiale, in un seminario: “The OPERA experiment, which observes a neutrino beam from CERN 730 km away at Italy’s INFN Gran Sasso Laboratory, will present new results in a seminar at CERN this afternoon at 16:00 CEST. The seminar will be webcast at http://webcast.cern.ch. Journalists wishing to ask questions may do so via twitter to @CERN, or via the usual CERN press office channels.“
E’ nella stessa giornata del 23 settembre che la copertura per i principali quotidiani italiani diventa più ampia, riportando la notizia in prima pagina con i primi approfondimenti del caso. Si tratta di riferimenti ai comunicati stampa ufficiali, con interventi e impressioni a caldo di esperti o opinionisti, tra cui ad esempio Piergiorgio Odifreddi per Repubblica. La rincorsa ai neutrini si traduce temporalmente, tuttavia, in una vita relativamente breve della notizia: il 24 ancora in prima pagina, con la cronaca della conferenza del giorno prima e il “racconto” di Opera e del contributo italiano. Il 25 è il giorno dedicato quasi esclusivamente alla polemica per le esternazioni del Ministro Maria Stella Gelmini – non citata però da tutte le testate – per la gaffe del “tunnel”.
La seconda fase arriva a metà novembre, con i risultati della replica dell’esperimento; l’occasione però non viene accolta con gli stessi toni e non riceve riferimenti adeguati a settembre.
La stampa estera segue la stessa successione di tempi dei media italiani: il 22 settembre il NY Times parla dell’esperimento Opera, citando i primi dati disponibili e segnalando l’appuntamento del giorno dopo, così come la rivista scientifica Science o il Guardian e LeMonde, il 23. Ci sono delle differenze, tuttavia, tra la realtà mediatica-giornalistica italiana e quella estera, alcune abbastanza evidenti. Alcune nostre edizioni online, come ad esempio Repubblica o Corriere, parlano di conferma ufficiale dal Cern, con riferimento al comunicato stampa e al seminario pubblico dei ricercatori dell’LHC – gli stessi autori hanno subito precisato di non voler attribuire una certezza già raggiunta – mentre i quotidiani stranieri citati sembrano avere un approccio meno “frettoloso”, evitando un clamore immediato. Analogamente, non dimenticano di citare i due nomi di maggior riferimento dell’evento: Antonio Ereditato e Dario Autiero, rispettivamente il direttore di Opera e il responsabile delle misurazioni che hanno consentito la scoperta, a vantaggio invece del direttore scientifico del Cern (Corriere) che non ha però avuto un ruolo di spicco nell’esperimento o dell’ormai celebre intervento del Prof. Zichichi. Naturalmente nessun riferimento alle infelici dichiarazioni del Ministero della Pubblica Istruzione.
Un’intervista ad Ereditato arriva su La Stampa sabato 24. Comunque un po’ tardi, considerando che si tratta dell’ultima giornata in cui c’è traccia di neutrini. Di certo un atteggiamento differente lo hanno avuto riviste come Le Scienze o gli inserti settimanali – “Tutto Scienze”, proprio de La Stampa.
Proprio le interviste rilasciate da Ereditato, lasciano intravedere un senso di “impreparazione” per una notizia di tale portata, soprattutto considerando la forte componente italiana nel progetto. Ma per comprendere quanto e se la notizia sia circolata più veloce dei neutrini stessi è opportuno andare a fondo nell’analisi dei principali media italiani.
di Marco Milano e Giuseppe Scintilla
"Dobbiamo continuare a essere molto prudenti, dobbiamo ancora attendere conferme indipendenti".
Questo è il commento di Antonio Ereditato, coordinatore di Opera, in relazione ai nuovi test che consolidato la teoria secondo la quale i neutrini siano più veloci della luce. Prima di riscrivere parte della teoria della relatività di Albert Einstein bisognerà però attendere ancora un anno, bisognerà aspettare i dati che verranno ottenuti da altri laboratori.
Uno di questi è il
Minos (Main Injector Neutrino Oscillation Search)
un gruppo di ricerca americano, che si avvale di due rilevatori: il primo situato
presso il Fermilab a Batavia, a 65 chilometri da Chicago, l’altro presso le
miniere Soudan Mine, nel South Dakota, vale a dire a 732.249
chilometri, una distanza paragonabile a quella tra Cern e il Gran Sasso. Le
miniere del Soudan sono state aperte nel 1880 e chiuse nel 1962 diventando poi parco
naturale. Rispetto al percorso dei neutrini dai laboratori del Cern a quelli
italiani c’è un vantaggio: ci sono molte meno montagne e il viaggio dei
neutrini sarà più lineare, quindi più facile da misurare. Il Fermilab da poco ha
ottenuto nuovi fondi dal DOE, il Dipartimento dell’Energia Americano per il
miglioramento dell'elettronica, si cercherà di replicare i risultati di OPERA utilizzando
un sistema GPS più sofisticato e un numero maggiore di orologi atomici, oltre che
a luci LED per rilevare il raggio di neutrini. Già qualche mese gli scienziati
americani fa erano giunti a un risultato simile a quello del Cern. MINOS aveva
rilevato neutrini in movimento più veloci della luce; ma l’ analisi effettuata
presentava un livello di significatività di 1,8 sigma, al di sotto dei 3 necessari
per la convalida e ben lontani dai 6 gradi sigma dell’analisi effettuata da
OPERA, che corrisponde un livello di confidenza del 99,9999998%. Il problema
più rilevante sta nel capire se i risultati di OPERA sono reali o sono frutto di
un errore sistematico. Kee Jung Chang,
docente di Fisica del neutrino alla Stony Brook University di New York è pronto
a scommettere che il risultato sia in effetti il prodotto di un errore del
sistema: “Certo – ammette
scherzosamente su Science – non ci
scommetterei né mia moglie né i miei figli, perché altrimenti si arrabbiano. Ma
mi ci scommetterei la casa”. Chang è uno dei responsabile dell'esperimento
giapponese T2K(Tokai to Kamioka), che dovrà effettuare l’altra misura simile a OPERA.
Kamioka è un osservatorio che si trova nella miniera di Mozumi presso la
località di Hida. Il progetto nasce da una collaborazione internazionale alla
quale partecipa anche l'Italia; la distanza fra i rivelatori è di 295
chilometri rispetto ai 730 km di OPERA e MINOS. Nell’acceleratore
lineare del J-PARC (Japanese Proton Accelerator Complex), presso Tokai, si accelerano protoni con lo scopo di
produrre, mediante opportune collisioni, neutrini,
in prevalenza muonici. Organizzati in fasci ben collimati, i neutrini viaggiano indisturbati nel sottosuolo giapponese
fino al rivelatore Super-Kamiokande, presso Kamioka:
proprio come i fasci di neutrini spediti dal
CERN sotto le Alpi fino ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso, in Italia. Non resta
che aspettare e come riassume con un pizzico di ironia Ereditato: “Se
sono rose fioriranno”.
di Francesco Aiello
Esperimenti come quelli di OPERA producono risultati inaspettati e contemporaneamente offrono l'occasione per riflettere sulla comunicazione scientifica rivolta, non tanto al grande pubblico, ma agli scienziati stessi. Per analizzare le tendenze in atto in questo ambito può essere utile prestare attenzione a due momenti di questo particolare processo comunicativo. Il primo, datato 22 settembre, corrisponde alla pubblicazione dei risultati originali del team guidato da Ereditato su arXiv. Il secondo, datato 17 novembre, appare invece più complesso, assumendo una duplice forma: la pubblicazione di nuovi risultati – con cui sembra essere confermata la velocità superluminale dei neutrini - e la sottomissione degli stessi al Journal of High Energy Physics (JHEP). Due momenti che per essere compresi implicano un confronto con concetti quali preprint e peer review, ma anche con le trasformazioni innescate dalla diffusione e l'evoluzione di internet. O più semplicemente con arXiv, uno dei più noti archivi online di pubblicazioni scientifiche liberamente accessibile.
Arxiv, non un semplice archivio
Quello che però contraddistingue arXiv, rendendolo non uno dei ma l'Archivio (non a caso arXiv si pronuncia come il vocabolo inglese archive), è la forma dei contenuti ospitati sui propri server, ovvero la caratteristica di pubblicare preprint. Questi ultimi, come il nome potrebbe lasciare supporre, non costituiscono documenti necessariamente destinati alla stampa – quel print che li tramuterebbe in dei paper – ma sono articoli in cui non è presente quel processo di peer review proprio delle riviste scientifiche tradizionali. La storia, perlomeno quella ufficiale, di arXiv inizia nel 1991, quando Paul Ginsparg, da poco trasferitosi presso il LANL (Los Alamos National Laboratory, Stati Uniti), lancia un sistema, basato su un bulletin board system, per lo scambio di preprint tra i fisici delle particelle. L'idea era quindi quella di beneficiare delle nuove possibilità offerte da internet per facilitare l'accesso dei ricercatori alla pubblicazione e alle pubblicazioni scientifiche. I preprint non nascono però con arXiv, anzi, una delle chiavi del suo successo deriva dal riuscire a innestarsi su una cultura del preprint già esistente, descritta sia dalla sociologa dell'Università di Cardiff Kristrún Gunnarsdóttir (“On the Role of Electronic Preprint Exchange in the Distribution of Scientific”) che dal fisico del MIT David Kaiser (“Science in the digital age”). Una cultura che fino agli anni '60 e '70 del secolo scorso si appoggiava, quasi esclusivamente, su un unico mezzo di comunicazione (la posta), organizzandosi intorno ad alcuni centri di catalogazione, come le biblioteche della Stanford Linear Accelerator Center (SLAC) e della Deutsches Elektronen-SYncrototron (DESY). Sotto questo punto di vista, arXiv rappresenta un erede di queste istituzioni, nato e cresciuto in - e grazie a - quella rivoluzione dell'informazione provocata da internet. Gli aspetti tecnologici hanno dunque giocato un ruolo chiave per il suo sviluppo, abbassando i tempi di pubblicazione e abbattendo i costi di catalogazione. Sarebbe però riduttivo, se non fuorviante, limitarsi a questi elementi, finendo per concepire arXiv come un mero modello alternativo di distribuzione della conoscenza. D'altronde lo stesso Ginsparg, in un articolo apparso recentemente su Nature per il ventennale della sua creatura (“ArXiv at 20”), non nascondeva la speranza di ristrutturare l'attuale sistema della conoscenza. In quell'occasione Ginsparg si riferiva esplicitamente alla convivenza tra diversi meccanismi per implementare un controllo di qualità sulla conoscenza prodotta e comunicata dagli scienziati. Uno scenario animato dalla compresenza di sistemi top-down (come la peer review delle riviste convenzionali), crowd-sourced (come nel caso dei preprint di arXiv) e misti (in cui la revisione dei colleghi interviene in un determinato stadio del processo di pubblicazione). Una convivenza che rispecchia l'assenza di un consenso presso la comunità scientifica circa il miglior modo per condurre la revisione degli articoli scientifici. Uno scenario in cui la scelta di uno scienziato, rispetto ai meccanismi di controllo dei risultati, appare condizionata da almeno due aspetti.
346 anni dopo
In primo luogo, la sua scelta non può che essere situata all'interno di un processo storico: gli attuali sistemi di revisione sono assai diversi da quelli del 1665, anno in cui apparve il primo numero dei Philosophical Transactions e con esso la peer review. Nell'era digitale, la peer review praticata dalle riviste convenzionali difficilmente può pretendere una posizione egemone. A quanto sembra né si è trovato un sistema altrettanto efficace di revisione né esistono comunità scientifiche che vi abbiano rinunciato completamente, tuttavia non mancano le critiche e, con esse, gli sforzi per creare sistemi alternativi alla peer review. Critiche che tendono a evidenziare, da un lato, l'allungarsi dei tempi di pubblicazione e, dall'altro, le conseguenze del consolidarsi nel mondo accademico della cultura del “public or perish” (favoritismi, autoalimentazione delle citazioni, paper slicing, conflitti di interessi, etc.). Mentre i sistemi alternativi si declinano attraverso una molteplicità di forme: da una sostanziale autopubblicazione, all'ammissione di commenti (una sorta di post-pubblication) o al open notebook science (pubblicazione dei registri della ricerca).
La diversità scientifica
In secondo luogo, la scelta dello scienziato – o del gruppo di ricerca - di sottoporsi a una determinata tipologia di revisione si posiziona all'interno della propria comunità scientifica di appartenenza: le pratiche di pubblicazione di un biologo tendono a differire da quelle di un fisico. Ogni comunità di scienziati ha un suo approccio nella pubblicazione, sostenuto da molteplici motivazioni ed esigenze. Tornando all'esempio di arXiv è significativo notare come la fisica delle particelle sia l'ambito scientifico in cui si è originato e continua a essere uno tra i più presenti all'interno dell'archivio dei preprint, il medesimo ambito in cui si inserisce l'esperimento condotto da OPERA. Considerare alcune specificità della fisica delle particelle (in inglese high energy physics) può essere utile per comprendere il perché di queste – niente affatto casuali – coincidenze. I membri di questa comunità si ritrovano immersi in una cultura sostanzialmente omogenea, ma comunque aperta e in grado di accettare l'esistenza di divergenze e posizioni talvolta anche radicalmente diverse. Una comunità in gran parte internazionalizzata, che si raggruppa intorno a pochi grandi laboratori – il CERN di Ginevra, i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, il Fermilab di Chicago, o il giapponese Super-Kamiokande – al cui interno si svolgono esperimenti difficili da realizzare. Tutti elementi che concorrono a delineare un contesto in cui la collaborazione tra i diversi gruppi di ricerca è un bene particolarmente prezioso. Un contesto in cui la pubblicazione dei preprint è in buona parte accettato, garantisce una certa rapidità e innesca meccanismi di valutazione che finora sembrano funzionare. E il caso di OPERA?
OPERA e i meccanismi di revisione
In generale, le critiche alla scelta di pubblicare su arXiv hanno trovato poco spazio sui media, e probabilmente le più rilevanti sono quelle di alcuni fisici intervistati da Scientific American (“Faster-Than-Light Neutrinos? Physics Luminaries Voice Doubts”) o la posizione espressa da Ferroni, presidente dell'Istituto Nazionale di Fisica (“Italy's Nuclear Physics Chief: We Can Afford SuperB”). Ma le critiche, seppur in forma silenziosa, sono arrivate anche dall'interno, ovvero dallo stesso gruppo di ricerca. Alcuni membri di OPERA hanno infatti preferito non firmare la prima pubblicazione, mentre altri sono ritornati sui propri passi, decidendo di firmare il primo preprint ma non il secondo. Una situazione in cui i critici - o dissidenti, come sono stati spesso presentati nei media - non hanno però espresso le loro posizioni innescando un conflitto, anzi si sono defilati dal processo comunicativo, e di fatto non si hanno dichiarazioni esplicite dei diretti interessati. In tal senso, quanto di più si vicino a una uscita pubblica è probabilmente l'esternazione - riportata dal fisico e blogger Jon Butterworth (“Those faster-than-light neutrinos. Four things to think about”) - di Luca Stanco, il quale ammette di non aver firmato la prima pubblicazione poiché riteneva i risultati ancora preliminari. Una posizione che sembra far emergere una tensione tra l'esigenza di rigore e la necessità di rendere pubblici i propri risultati, una tensione che potrebbe acuirsi quando i risultati assomigliano a delle scoperte straordinarie. Una circostanza tutt'altro che remota nel caso di OPERA, ma che non ha comunque impedito una successiva riconfigurazione della tensione stessa, avvenuta in un secondo momento, con la pubblicazione del nuovo preprint su arXiv e la sottomissione dei risultati a un processo di peer review. Quest'ultima scelta è stata giustificata dal gruppo OPERA sostenendo di aver ottenuto nuovi risultati - attraverso ulteriori esperimenti - e migliorato il primo preprint, depurandolo da alcune imperfezioni (probabilmente le stesse imperfezioni a cui si riferiva Luca Stanco, e che l'avevano indotto insieme ad altri otto membri a firmare soltanto la seconda versione del preprint). Si tratta di un passaggio che non si limita a rimodulare la tensione tra le esigenze di rigore e di pubblicazione, ma che rivela almeno due elementi interessanti. Innanzitutto confermerebbe uno dei principali vantaggi di arXiv: la velocità. OPERA, confidando sulla bontà dei risultati ottenuti, ha deciso di renderli noti senza sottoporsi a un processo di peer review accelerando il processo di condivisione dei dati, aumentando il ritmo della verifica degli stessi e, infine, facendo pressione su altri gruppi per replicare o condurre ulteriori esperimenti. In seconda analisi si tratta di un fenomeno in linea con la lettura della sociologa Gunnarsdóttir, secondo cui il preprint e la peer review soddisfano esigenze diverse. Pubblicare su arXiv significa soprattutto richiedere una valutazione e un consenso di carattere locale, ovvero dei membri della comunità scientifica di appartenenza e in particolare di chi lavora su tematiche fortemente affini alle proprie. Sottoporsi a un processo di peer review, aspirando a una pubblicazione su una rivista convenzionale, sancisce la richiesta di una valutazione e un consenso più ampio rispetto al precedente. In altri termini, un preprint dimostra la sua utilità nel contesto più prossimo alla ricerca – il laboratorio – mentre la peer review nel mondo accademico o addirittura al di fuori di esso. Un interpretazione di questo tipo suggerisce dunque l'esistenza di una certa complementarietà tra meccanismi propri di arXiv e di JHEP, o quantomeno una certa interdipendenza. Probabilmente il futuro della comunicazione scientifica “specialistica” e, quindi interna, si risolverà affrontando le tensioni che caratterizzano l'attuale gestione della conoscenza scientifica. Un obiettivo che implica lo sviluppo di sistemi di revisione dinamici e aperti, in grado di coniugare le esigenze di rigore e di pubblicazione.
di Carlo Tartivita
“Il risalto dato dai media è stato eccessivo, lo abbiamo visto tutti”.
Parola di Antonio Ereditato, coordinatore del progetto OPERA, a proposito della rilevanza mediatica che ha avuto la notizia dell’esperimento sui neutrini “sparati” dal CERN di Ginevra ai laboratori dell’INFN del Gran Sasso.
La notizia è ormai nota: i neutrini, lanciati dal CERN, a Ginevra, hanno impiegato 60 nanosecondi in meno rispetto ai 2,4 millisecondi previsti per arrivare ai laboratori del Gran Sasso. La notizia ha fatto il giro del mondo in poco tempo, scatenando immediatamente il dibattito tra gli scienziati e, nello stesso momento, sconvolgendo l’immaginario popolare, soprattutto attraverso la cassa di risonanza dei media tradizionali (stampa e tv).
Un effetto inatteso che ha stupito i protagonisti dell’esperimento, primo tra tutti lo stesso Ereditato. Infatti, il clamore creato inizialmente dai risultati (in attesa di verifica) va ricondotto all’affermazione, scientificamente rivoluzionaria, che “i neutrini vanno più veloce della luce”. Una frase che è stata pronunciata da tutti i giornalisti televisivi e che campeggiava su tutti i principali quotidiani italiani.
Seppur non supportata da un adeguato approfondimento e dalla cautela, che era d’obbligo in un caso del genere, la notizia ha provocato stupore e una velata inquietudine che si può tradurre nella domanda che molti si sono posti “E adesso cosa succede?”
Il caso dei “neutrini più veloci della luce” può diventare, in tal modo, esemplificativo del rapporto perennemente difficoltoso tra scienza e mass media. Da una parte c’è il percorso lento e sempre cauto della ricerca scientifica: le sue ipotesi, gli esperimenti di controllo e le prove di falsificazione. Dall’altra la velocità, il carattere onnivoro ed effimero del mondo dell’informazione, dove un evento, per calamitare l’attenzione del lettore, deve essere particolarmente attraente e deve catturare l’attenzione (sin troppo labile) del lettore/spettatore.
Limitandoci alla carta stampata, un’analisi degli articoli che sono apparsi dopo la rivelazione degli esiti dell’esperimento può servire a comprendere come la stampa italiana ha trattato l’evento (in particolare i tre maggiori quotidiani nazionali: Corriere della Sera, La Repubblica e La Stampa).
Quale è stato l’atteggiamento prevalente? Ci sono stati dei focus appropriati? Quale è stato il lessico adoperato?
La notizia dei neutrini appare il 23 settembre. La rilevanza data all’evento è notevole: in tutti e tre i casi occupa uno spazio in prima pagina, seppur non come notizia di apertura. Il titolo che rimanda al pezzo contenuto all’interno è sostanzialmente identico per tutti: il neutrino supera (o “batte”, come nel caso de La Stampa) la velocità della luce, innestando in tal modo una visione “competitiva” tra fotoni e neutrini (visione che sarà ripresa dal comunicato stampa del ministro dell’istruzione in cui si affermava che la scoperta è stata una “vittoria epocale”).
Accanto al titolo appare la foto di Albert Einstein sia sul Corriere che su La Stampa, a suggerire l’importanza della notizia (Einstein è, per antonomasia, la scienza e lo scienziato) e le conseguenze che potrebbe avere sulla fisica e sulle teorie einsteiniane in particolare.
Ugualmente, all’interno, i contenuti dei pezzi hanno lo stesso tono sensazionalistico e, in tutti e tre i casi, il riferimento diretto sono le teorie di Einstein che verrebbero falsificate dai risultati dell’esperimento OPERA. La Repubblica parla di “una scoperta che potrebbe sconvolgere la storia della fisica”; il Corriere usa il verbo “rivoluzionare”, applicandolo alla teoria della relatività e scrive nel titolo “Il Cern mette in dubbio Einstein”. A tal proposito, La Stampa non usa neanche il condizionale per il titolo dell’articolo e afferma “I neutrini superveloci smentiscono Einstein”, salvo poi attenuare la potenza della dichiarazione nel catenaccio, in cui leggiamo: “Sembrano più rapidi della luce”.
È conveniente anche valutare, ai fini dell’analisi, i box di approfondimento che corredano la notizia; in particolare, le interviste agli esperti che spiegano, in base alla loro competenza, cosa è successo precisamente e quali orizzonti si dischiudono.
La Stampa si limita a spiegare l’evento affidandosi a due giornalisti scientifici che approfondiscono l’argomento, delineando scenari possibili e chiarendo il senso dell’esperimento.
Il Corriere, invece, interpella un esperto, Roberto Battiston, presidente della commissione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare che invita alla prudenza, facendo, nello stesso tempo, risaltare il valore dell’esperimento OPERA. La Repubblica, infine, ospita l’opinione di un fisico teorico del Cern, Gian Francesco Giudice in cui spicca l’affermazione molto evocativa, che fa da titolo al box, in cui si ipotizzano, grazie a questa scoperta, futuri viaggi nel tempo.
Il giorno successivo, il 24 settembre, è la volta del dibattito tra scettici ed euforici (come testimonia Repubblica), delle interviste ai protagonisti (Ereditato su La Stampa) dei pareri autorevoli (il Nobel Rubbia sul Corriere) e degli approfondimenti più mirati. Resta la sensazione di trovarsi di fronte a una grande scoperta, sebbene si facciano largo i primi dubbi e l’attesa di ulteriori conferme.
Ecco però che, dopo l’iniziale exploit, l’entusiasmo e l’interesse si attenuano notevolmente, nonostante le prospettive e gli orizzonti sconvolgenti che erano stati preventivati.
Soltanto la bizzarra dichiarazione dell’ex ministro dell’Istruzione Gelmini (il celeberrimo tunnel tra Ginevra e il Gran Sasso) ha mantenuto in vita, il 25 settembre, la notizia dei neutrini sui quotidiani (escludendo La Stampa che il 28 settembre, nell’inserto Tuttoscienze, offriva un adeguato focus sui neutrini superluminali).
Tuttavia, quel che più manifesta meglio tale atteggiamento dei quotidiani (il brevissimo interesse mostrato all’inizio e subito scemato) è la notizia della conferma dei risultati dell’esperimento OPERA del 17 novembre. L’unico giornale che dà spazio alla notizia è il Corriere della Sera, in un trafiletto di poche righe, al centro del giornale, nella sezione breve di scienza. Per il resto, sui maggiori quotidiani italiani, non c’è traccia della conferma dei risultati del Cern e dell’INFN.
Il caso neutrini, quindi, si presta a diventare paradigmatico di un atteggiamento consueto della stampa italiana nei confronti delle tematiche scientifiche: spesso si incorre in dichiarazioni sensazionalistiche, come nel caso di epidemie e batteri killer, tralasciando colpevolmente un approfondimento competente e obiettivo. E, inoltre, ci si dimentica di prestare attenzione e cautela prima di giungere a conclusioni ad effetto dalla dubbia validità scientifica.
Il sensazionalismo mediatico che ha connotato le notizie legate ai neutrini superluminali ha contribuito a creare confusione nell’opinione pubblica (pochi sapevano di cosa si stesse parlando precisamente) sprecando così un’ottima occasione per mettere in vetrina il lavoro degli scienziati - dei fisici, nel caso specifico - evidenziando il fondamentale apporto degli studiosi italiani per il raggiungimento di risultati di portata storica.
E lo scienziato, dall’altra parte, come dovrebbe comportarsi di fronte alla domanda impellente che i media gli rivolgono ogni giorno di promesse e rivelazioni miracolose? Con la prudenza, ovviamente, ma non solo. Certamente non può dichiarare il silenzio stampa su ogni notizia scientifica perché la ricerca è, per sua natura, pubblica. La comunità scientifica deve - e quello dei neutrini è l’ultimo caso - collaborare con i professionisti seri della comunicazione, quelli che hanno il compito di informare il pubblico, possibilmente educandolo, senza indulgere nel sensazionalismo.
di Marco Milano e Giuseppe Scintilla
L’esperimento Opera, coordinato dal fisico italiano Antonio Ereditato, è giunto dopo anni di lavoro all’importante risultato secondo il quale i neutrini, sparati dal Cern di Ginevra fino ai laboratori del Gran Sasso, avrebbero viaggiato più veloci della luce.
Nel caso in cui l’esito fosse confermato anche dalle verifiche e misure indipendenti previste, il mondo della fisica si troverebbe a un punto di radicale svolta: si dovrà leggere sotto un nuovo sguardo tutta la fisica relativistica di Einstein e ribaltare la credenza universale che la costante C (= velocità della luce) sia un limite invalicabile.
Proprio per la rilevanza della ricerca, il caso di Opera si presta a un’analisi che voglia porre in luce il rapporto tra la figura dello scienziato, oltre che della scoperta scientifica, e la nostra società. Tutto ciò osservando in primis le dichiarazioni lasciate dai responsabili del progetto e di altri scienziati, strumenti comunicativi attraverso i quali il mondo scientifico in questione si è aperto e ha acquisito massima visibilità, penetrando così tutta la società globale.
Per far ciò è comunque bene partire da uno degli stereotipi, forse il più forte, che riguarda la figura dello scienziato e della ricerca. L’idea comune e allargata che si ha dello scienziato e del suo operato, infatti, spesso combacia con l’immagine di un genio: un soggetto isolato che presta ogni suo sforzo e ogni sua attenzione a calcoli ed esperimenti, costantemente chiuso nel suo laboratorio e distante dal resto della società. Nel nostro immaginario comune, lo scienziato esce allo scoperto solo una volta raggiunto un risultato certo, cioè, sia esso atteso o inatteso, ne vengano necessariamente verificate tutte le sue diverse dimensioni: il concetto di risultato scientifico al quale noi generalmente pensiamo gode di massima precisione ed è totalmente inconfutabile.
Questa idea preconcetta, generalmente diffusa nelle nostre teste, può essere riassunta dall’esclamazione che Archimede utilizzò quando scoprì che si poteva calcolare il volume di un corpo di forma irregolare misurando il volume dell'acqua spostata quando il corpo veniva immerso: lo scienziato siracusano del III secolo a.C., infatti, subito dopo la scoperta esclamò eureka!, che in greco significa ho trovato!. L’affermazione sottolinea il carattere di singolarità e si riferisce a una ricerca finalizzata esclusivamente al risultato atteso della scoperta scientifica.
Cerchiamo di capire se tutto questa rappresentazione si può sovrapporre al nostro caso, il progetto Opera.
Opera è tutto tranne che una ricerca, e molto probabilmente il successo, di un singolo scienziato, visto che è seguito da 60 figure professionali diverse: un’insieme di scienziati, ingegneri, tecnici e studenti appartenenti a 31 istituzioni, provenendo da 11 Paesi del mondo.
Allo stesso modo variegati e dislocati sono i luoghi della ricerca: prima di tutto vi sono i Laboratori nazionali del Gran Sasso e del Cern, in secondo luogo anche numerose università (ben nove, da Bari a Padova passando per Roma e Bologna). Altri contributi e altri uomini vengono inoltre da Giappone, Belgio, Francia, Germania, Svizzera, Croazia, Israele, Corea, Russia e Turchia.
Antonio Ereditato stesso, che è il coordinatore di questa collaborazione internazionale, pone l’importanza della dimensione collettiva del risultato, definendolo «il frutto di un lavoro complesso e gratificante, nel quale l’aspetto del gruppo è importantissimo».
A questo punto possiamo domandarci comunque se, oltre al carattere di pluralità e di differenzazione dei soggetti interessati nel progetto Opera, per il resto cambi poco, soprattutto per ciò che concerne l’approccio degli scienziati alla ricerca scientifica.
Sono sempre le parole dello stesso Antonio Ereditato a toglierci qualsiasi dubbio, il quale dichiara: “Questo risultato è una completa sorpresa. Dopo molti mesi di studi e di controlli incrociati non abbiamo trovato nessuno effetto dovuto alla strumentazione in grado di spiegare il risultato della misura. Continueremo i nostri studi e attendiamo misure indipendenti per valutare pienamente la natura di queste osservazioni.”
D'altronde anche la restante parte del mondo scientifico, dai più scettici ai più ottimisti sui risultati di Opera, converge sul fatto che «scoperte straordinarie richiedono dimostrazioni straordinarie», motto dell´astronomo americano Carl Sagan con il quale è stata accolta la conferma dei dati arrivati direttamente dal Cern di Ginevra. La calma e la riflessione si sostituiscono all’impeto e all’emotività che caratterizzano al contrario l’affermazione eureka!.
Lo stesso Ereditato vuole porre l’attenzione sulla cautela, quindi anche sul controllo dell’emotività, che una scoperta da un così grande impatto mediatico e scientifico debba avere: «Gli scienziati non sono gli uomini delle certezze, ma del dubbio. Tant’è vero che quando facciamo una misura, ci mettiamo sempre l’errore, che poi non è altro che la misura dell’incertezza del risultato. Quando poi si tratta di qualcosa che ha potenzialmente un grande impatto, come questa nostra misurazione, allora la cautela è doppiamente d’obbligo».
Questa consapevolezza è costantemente presente nel lavoro dello scienziato contemporaneo e lo si nota anche dalle parole di Roberto Petronzio, Presidente dell’INFN, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare: «Gli stessi scienziati di Opera continueranno a lavorare sui loro dati. Non siamo una religione e non procediamo per verità. Quando un esperimento si imbatte in un risultato incredibile e non riesce a individuare un errore, il dato viene sottoposto all´indagine della comunità».
Lo scienziato dunque non è più portatore assoluto di verità, ma opera in un campo di incertezza e di controlli costanti e differenziati, proprio per questo il suo lavoro non si sviluppa in un contesto di isolamento e totale autonomia: lo scienziato è inserito in una struttura di relazioni e di collaborazioni fitta e differenziata, senza la quale il suo lavoro non sarebbe neanche plausibile. Lucia Votano, direttrice dei laboratori del Gran Sasso gestiti dall´Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), esprime bene questo concetto: «Abbiamo chiesto due revisioni agli istituti di metrologia svizzero e tedesco. Ci siamo fatti aiutare dal gruppo di geodesia della Sapienza di Roma. Abbiamo chiuso una notte l´autostrada per ricalcolare la posizione esatta di Opera sottoterra».
L’immagine dello scienziato che il clamore e la popolarità del progetto Opera hanno largamente diffuso, non vede più dunque quell’atteggiamento all’Archimede, basato sull’urlare al mondo i risultati e la verità assoluta raggiunti. Infatti all’emotività e all’esaltazione che la scoperta scientifica facilmente imprimono sulla pelle e sul cervello dell’uomo che fa proprio il dato ottenuto, ora si sostituisce un forte senso di responsabilità nei confronti del mondo, atteggiamento che si traduce nella necessità di cautela lungo tutte le fasi della ricerca scientifiche, quindi anche durante la verifica e l’interpretazione del dato osservato, ma anche nella divulgazione di esso all’opinione pubblica. Cautela nella gestione dell’osservato significa oltremodo maggior attenzione alla propria reputazione per l’uomo della scienza, visti i migliaia di esperti a lui pari pronti a sottoporre verifiche e a porre severe critiche, oltre che possibili falsificazioni, ai risultati vaneggiati, ancor più se senza cautela o in mancanza di verifiche indipendenti.
In attesa che le misurazioni indipendenti facciano maggior luce sui risultati scientifici raggiunti da Opera, per ora si può affermare che il progetto guidato da Ereditato abbia già comunicato importanti aspetti e verità, specie su come lo scienziato del terzo millennio e la gestione del suo lavoro siano sostanzialmente diversi da ciò che l’immaginario comune vorrebbe far credere.
di Giuseppe Nucera
Quella della velocità della luce è una storia lunga e ancora in evoluzione se si tiene conto dei risultati ottenuti dall'esperimento Opera.
Fin dalla più remota antichità ci si è domandati quanto fosse veloce la luce, ma solo in epoche più moderne risalgono i primi tentativi di misurarla. Proprio per il suo valore enorme, rispetto alle velocità di cui abbiamo esperienza, le prime rilevazioni furono in ambito astronomico a opera di Olaf Romer, discepolo di Galileo Galilei.
Si è dovuto attendere fino a metà dell'Ottocento per spostarsi da osservazioni di fenomeni celesti a quelli osservabili sulla Terra, attraverso gli esperimenti di Fizeau e Facoult.
A seguito dell'introduzione delle equazioni di Maxwell, divenne assodato che la luce fosse anche un fenomeno ondulatorio. In analogia con le onde sonore anche le onde elettromagnetiche necessitavano di un mezzo per potersi propagare, venne così ipotizzata l'esistenza dell'etere.
Allo scopo di dimostrare la presenza di questo ipotetico mezzo materiale, Michelson e Morely idearono un esperimento che non solo mostrò l'assenza dell'etere, ma mise in crisi la Relatività Galileiana. Infatti constatarono che la velocità della luce si propagava sempre alla stessa velocità, indipendentemente dall'osservatore, non rispettando il principio di additività delle velocità di Galileo Galilei.
Una spiegazione teorica di quest'ultimi risultati fu data da Albert Einstein nel 1905 con la pubblicazione della Teoria della Relatività Ristretta. Teoria che si fonda su due principali postulati: 1) Le leggi della fisica sono equivalenti in tutti i sistemi di riferimento inerziali; 2) La velocità della luce è costante.
Quante volte ognuno di noi, per poter risolvere i propri problemi quotidiani, avrà pensato: “Bisognerebbe andare alla velocità della luce per...” oppure “se potessi viaggiare alla velocità della luce ...”
Questo modo di pensare deriva dal fatto che la semplice accensione di una lampadina ci induce a credere che la luce si propaghi istantaneamente. Tuttavia, già molti secoli prima di ottenere una dimostrazione sperimentale si riteneva che la velocità della luce dovesse essere finita.
Il primo esperimento per misurare la velocità della luce fu proposto da Galileo. Il suo progetto prevedeva l'aiuto di un suo allievo e di due lanterne. Galileo e il suo discepolo si sarebbero dovuti porre su due collinette, a una distanza di circa un miglio, con le due lanterne schermate. Quando Galileo scopriva la sua lanterna, anche l'allievo avrebbe dovuto fare lo stesso. In tal modo si pensava di poter misurare il tempo trascorso tra l'accensione di una lanterna e la visione della luce di risposta e di conseguenza la velocità della luce. Il tentativo in questione non portò ai risultati sperati: oggi è ben chiaro che i tempi di reazione degli osservatori erano assai maggiori del tempo di viaggio della luce tra le due persone.
Il primo esperimento per misurare la velocità della luce di Galileo
Infatti, è piuttosto evidente che la velocità della luce è una velocità enorme se confrontata con le misure terrestri, ma se ci si allontana dalla Terra e ci si dirige verso gli spazi profondi del cosmo la situazione cambia drasticamente. Alla velocità della luce ci vorrebbero 8 minuti per raggiungere il Sole, più di 300 anni per approdare sulla stella polare, oltre due milioni di anni per arrivare alla galassia a noi più vicina, quella di Andromeda e, infine alcuni miliardi di anni per spingersi verso i quasar più lontani.
Le prime misure sulla velocità della luce furono effettuate, mediante osservazioni dei satelliti di Giove, da Olaf Roemer nel 1676: egli osservò che il moto di “Io”, la più interna delle lune di Giove, non si ripeteva regolarmente nel tempo, ma si notava una variazione nel periodo delle sue eclissi. Dopo sei mesi di osservazione, ovvero quando la Terra si trovava dall'altra parte della sua orbita, rispetto alla prima osservazione, fu riscontrato un ritardo complessivo dell'ordine di 20 minuti. Questo valore è circa il tempo impiegato dalla luce per attraversare l'orbita terrestre. Poiché Roemer disponeva di un valore piuttosto inaccurato del diametro dell'orbita della Terra ricavò:
c=D/T= 214 300 km/s
D=diametro medio dell'orbita terrestre, T= tempo necessario perché la luce attraversi l'orbita da un un estremo all'altro.
Schema del metodo d Roemer
Successivamente, significativi contributi furono dati da due grandi fisici francesi: Hyppolite Fizeau e Leon Foucault. Il primo, nel 1849, escogitò un esperimento capace di misurare la velocità della luce con osservazioni condotte su distanze non più astronomiche, ma terrestri: utilizzò 2 specchi distanziati di 8 chilometri e una ruota dentata. Il secondo, non molti anni dopo, perfezionando il metodo di Fizeau, fu in grado di progettare un esperimento che consentiva di misurare la velocità della luce addirittura entro le mura di un laboratorio impiegando uno specchio rotante. Tali esperimenti stabilirono che la luce si propagava nel vuoto alla velocità di circa 300 000 Km/s.
Nella seconda metà dell’800, i fisici erano impegnati nello studio dei fenomeni elettrici e magnetici. In questo contesto James Clerk Maxwell riuscì a sviluppare una teoria matematica in grado di unificare i due fenomeni, attraverso quattro equazioni, che prendono il suo nome. Dalle equazioni di Maxwell deriva la previsione teorica dell'esistenza delle onde elettromagnetiche, onde che verranno poi studiate sperimentalmente da Hertz. Il calcolo della velocità di queste onde conduce al risultato sorprendente che tale velocità coincide con quella della luce: divenne così assodato che la luce fosse un fenomeno ondulatorio. Infatti, agli inizi del XVII secolo furono proposti due modelli differenti per spiegare la natura della luce; uno corpuscolare, sostenuto da Newton, e un altro ondulatorio, sostenuto da Young e Fresnel. In analogia con quanto succedeva con le onde sonore, era però necessaria l'introduzione di un mezzo, mediante il quale le onde si potevano propagare: l'etere. Questo ipotetico mezzo materiale, in sostanza serviva a conciliare la teoria dell'elettromagnetismo di Maxwell con la relatività Galileiana e doveva godere di alcune proprietà particolari, quali quella di avere densità nulla e una perfetta trasparenza, per giustificare il fatto che non si riusciva a rivelarlo. Si suppose quindi che l’etere riempisse tutto lo spazio e rappresentasse il mezzo rispetto al quale la luce ha velocità pari a 300 000 km/s.
Schema dell'apparato utilizzato da Fizeau
Nel 1887 Michelson e Morely allo scopo di provare l'esistenza dell'etere idearono un esperimento che prevedeva la misura della velocità di propagazione della luce in un sistema in moto (la Terra) rispetto a questo “mezzo invisibile”. Tuttavia, la loro esperienza non solo dimostrò la non esistenza dell'etere, ma mise in crisi la Relatività Galileiana in quanto trovarono che la luce si propagava sempre alla stessa velocità, indipendentemente dall'osservatore. Secondo la Relatività Galileiana, le velocità dei corpi, che si muovono di moto relativo, si sommano vettorialmente. In pratica, se ci troviamo a viaggiare in autostrada a 50 chilometri orari e veniamo sorpassati da un’automobile che corre a 80 chilometri all’ora, essa risulta muoversi rispetto a noi con una velocità di 30 chilometri orari. Se, al contrario, la stessa macchina ci viene incontro nella corsia opposta, essa si muove a 130 chilometri orari dal nostro punto di osservazione.
A seguito dei risultati dell'esperimento di Michelson e Morely, Einstein nel 1905 pubblicò la teoria della “Relatività Ristretta” nella quale non solo riuscì a fornire una spiegazione teorica, ma estese quanto introdotto da Galileo, attraverso un'interpretazione del tutto nuova dei fenomeni.
I postulati su cui si fonda la teoria della “Relatività Ristretta” sono:
Una delle maggiori conseguenze del secondo postulato della teoria della relatività è la rinuncia al concetto di tempo assoluto, ovvero un tempo identico per tutti i possibili osservatori dell'universo. Tale rinuncia implica la perdita del concetto di simultaneità: due eventi che sono simultanei in un sistema di riferimento (per un osservatore) possono non esserlo in un altro.
Altre sorprendenti conseguenze sono date dal fatto che, a velocità relativistiche, cioè paragonabili a quelle della luce, si riscontrano una dilatazione dei tempi (il tempo scorre più lentamente), una contrazione delle lunghezze (la lunghezza di un corpo diventa minore) e un aumento della massa degli oggetti.
Immaginiamo di metterci in viaggio a bordo di un'astronave e di allontanarci da un orologio che segna una precisa ora, per esempio le 11. Poiché all'inizio stiamo viaggiando a velocità di poco inferiore a quella della luce, osserviamo che le lancette dell'orologio si muovono tanto più lentamente quanto più ci avviciniamo alla velocità della luce e una volta raggiunta le vedremo arrestarsi, fino a segnare sempre la stessa ora. Se invece riuscissimo a viaggiare a una velocità superiore della luce vedremmo le lancette scorrere all'indietro, finendo per essere trasportati nel passato. Quest'ultima ipotesi, ovvero viaggiare nel passato, ci suggerisce l'impossibilità di superare la velocità della luce. Infatti, se ciò fosse possibile verrebbe a cadere il principio di causalità, secondo il quale l'effetto non può mai precedere la causa.
In questo ipotetico viaggio abbiamo trascurato di dire cosa accade alle lunghezze. A velocità prossime a quella della luce osserveremmo le lunghezze di un ipotetico regolo accorciarsi sempre di più, fino a diventare pari a zero quando il nostro tachimetro segnerà 300000 km/s. Nel caso riuscissimo a viaggiare più velocemente, il valore che misureremmo sarebbe immaginario. L'interpretazione fisica di quest'ultimo risultato conferma ancora una volta che la velocità della luce è una velocità limite.
Per spiegare cosa accade alle masse bisogna introdurre la famosa formula della relatività ristretta che stabilisce l'equivalenza materiale tra massa (m, massa a riposo) ed energia (E, energia totale meccanica del corpo), ovvero E=mc2 (mc2, energia a riposo). In pratica, secondo questa formula, se un corpo assorbe una quantità di energia E, la sua massa non rimane la stessa, ma aumenta della quantità E/c2; viceversa, la massa del corpo diminuisce se perde energia, per esempio emettendo luce.
In particolare, se il corpo, dotato di una certa massa, cerca di raggiunge la velocità della luce, l'energia fornita per accelerarlo verrà convertita in materia, portandolo ad assumere un massa via via crescente, fino a raggiungere un valore enorme e quindi l'impossibilità ad accelerarlo. Quest'ultimo caso mette ulteriormente in evidenza l'impossibilità per un corpo dotato di massa di raggiungere o superare la velocità della luce.
di Alessia Cassetti
E’ antica ormai l’idea che l’uomo ha di esplorare il passato e il futuro attraverso viaggi intergalattici creando storie e leggende tra scienza e fantascienza. Raggiungere il futuro e magari trovare un altre forme di civiltà e di tecnologie. O magari tornare indietro per i nostalgici del passato. Non si tratta solo di fantascienza da Hollywood, infatti la realtà può avvicinarsi alla fantasia almeno teoricamente. Già con la teoria della relatività di Einstein elaborata tra il 1905 e il 1913, già qualche aspirante esploratore stellare ci pensava su. Anche il “semplice” fatto di aver misurato la velocità della luce, faceva sembrare più vicino l’universo. Secondo la teoria di Einstein gli oggetti che possiedono massa, possono raggiungere al massimo la velocità della luce cioè 300. 000 km/s, velocità che potrebbe sembrare gigantesca ma che messa al confronto delle velocità cosmiche diventa piccolissima. Alla velocità della luce, per raggiungere la stella più vicina a noi ci vorrebbero 4,3 anni , e 300 anni per arrivare sulla Stella Polare. Per non parlare dei due milioni di anni luce che ci vorrebbero per arrivare fino ad Andromeda cioè la galassia più vicina a noi. Se la velocità della luce ci ha fatto sognare le stelle, superarla ci ha fatto provare un brivido del tutto non atteso. Ed è così che amanti della fantascienza, della scienza e semplici curiosi, abbiamo visto davanti ai nostri occhi, nel nostro odierno vedere superare le “colonne d’Ercole” della fisica moderna.
Il grande traguardo è stato raggiunto dagli scienziati di OPERA ( Oscillation Project with Emulsion-Tracking Apparatus), progetto italiano che ha la sua sede nelle profondità del Gran Sasso in Abruzzo, nei Laboratori Nazionali dell’ INFN. In questo laboratorio è presente un enorme rivelatore, di circa 4000 tonnellate che negli ultimi tre anni, cioè dall’inizio degli esperimenti ha censito l’arrivo di più di 16.000 neutrini che sono stati lanciati dai laboratori del CERN di Ginevra. Ma la scoperta del “superamento” della velocità della luce si può dire che sia stato accidentale, infatti lo scopo principale di OPERA, non era quello di costatare la velocità dei neutrini, ma quello di studiare la natura stessa di queste particelle. Si tratta infatti di particelle prive di carica elettrica, con una massa talmente piccola, che potrebbe essere quasi nulla e con una minima interazione con la materia, ma che comunque attraversano continuamente l’universo e che in questo momento stanno attraversando anche noi. Nel 1962 Bruno Pontecorvo aveva predetto che queste particelle, suddivise in neutrini di tipo elettronico muonico e tauonico che potevano trasformarsi l’uno nell’altro durante i loro viaggi, attraverso quello che viene chiamata “Oscillazione”. Quello che si voleva osservare nei laboratori del Gran Sasso era approfondire la conoscenza della natura di queste particelle, e cosi durante gli esperimenti che ha dato validi risultati, è stata rilevata un’importante anomalia nel tempo di percorrenza delle particelle , tra la fonte di lancio e il punto d’arrivo, cioè dal CERN di Ginevra al rivelatore del Gran Sasso. Le particelle si sono dimostrate molto più veloci del previsto, impiegando un tempo inferiore a quello che impiegherebbe un raggio di luce a percorrere la stessa distanza precisamente 732 chilometri in 2,4 millesimi di secondi, risparmiando 60 nanosecondi.
La notizia esplode il 22 settembre quando il Professor Zichichi, autore del progetto che fa viaggiare i neutrini dal CERN al Gran Sasso, telefona verso sera al Giornale per dare un grande annuncio. <<Qui gira voce di una scoperta straordinaria>>. E così il professore rompe l’embargo che si erano imposti gli scienziati del progetto, prima del tempo. Il professore durante l’intervista rilasciata al Giornale sottolinea dell’enorme importanza che potrebbe avere la scoperta se i dati fossero confermati, <<Sarebbe un terremoto incredibile. La velocità della luce nel vuoto è il massimo valore che possa esistere per trasmettere segnali. La cosiddetta “ Relatività Speciale” ha come base fondamentale il fatto che non deve esistere alcuna particella che possa viaggiare a velocità superiore a quella della luce >>. Il progetto che aveva avuto inizio nel 1979, partiva dal presupposto che i neutrini avessero massa zero, mentre si è dimostrato ora che nonostante siano leggerissimi hanno una massa ed è per questo che possono viaggiare a una velocità diversa da quella della luce. La scoperta ha così tanta importanza,<<per il semplice motivo>>, continua il Professore <<che farebbe saltare uno dei pilastri fondamentali su cui si regge la nostra fisica basata sulla struttura spazio- tempo con un totale di quattro dimensioni: 3 di spazio e una di tempo. Cioè il pilastro della “causalità”>>.
Ma a parte la telefonata un po’ avventata di Zichichi la notizia ufficiale è stata data il 23 settembre da Dario Autiero, rappresentante dei 160 scienziati del progetto OPERA alle ore 16 nell’auditorium del CERN, durante una conferenza in cui ha mostrato come è stata condotta la misurazione della distanza, il tempo impiegato e la conseguente misurazione della velocità dei neutrini concludendo che l’esperimento OPERA ha impiegato 6 mesi per mettere in atto tutte le verifiche possibili ed escludere qualsiasi tipo di errore e incertezza sistematica, senza trovare una spiegazione per la discrepanza tra la velocità prevista per i neutrini e quella osservata. Tutto farebbe pensare a una vera rivoluzione fisica, ma per confermare il tutto è necessario rispettare i principi di rigore e riproducibilità. Per questo attualmente altri due laboratori, il FermiLab americano e il giapponese Kek stanno ripetendo l’esperimento per dare conferma a queste scoperte. E se sarà confermato, ancora una volta così come per la penicillina o per l’algoritmo di google una delle più grandi scoperte della scienza sarà stata fatta per caso.
di Eugenia Borgia
Dall'annuncio del primo esperimento di Opera sono stati pubblicati numerosi studi scientifici per tentare di demolire la misurazione oppure di rivedere la teoria della relatività. Fabrizio Tamburini e Marco Laveder dell'Università di Padova ricorrono alle idee di Ettore Majorana per giustificare la violazione del tetto della velocità della luce. "Rileggendo i suoi appunti di circa 80 anni fa - spiega Tamburini in una nota diffusa dall'Istituto nazionale di astrofisica - mi sono convinto che la sua teoria non è in disaccordo con i dati di Opera. L'idea di Majorana prevede che i neutrini possano avere massa "immaginaria". Sarebbero dunque "svincolati dai limiti imposti dalle equazioni della relatività e potrebbero viaggiare più veloci della luce".
La scoperta, se confermata, potrebbe ottenere il premio Nobel per la fisica.
Il tempo, però, per assegnare un premio Nobel a una scoperta importante dipende da quanto sia convincente il risultato. Il Nobel per la fisica assegnato probabilmente entro un anno dalla sua scoperta è stato quello del quarto quark a Ting e Richter nel 1976. Samuel C.C. Ting aveva trovato un eccesso anomalo di particelle in un esperimento nei laboratori di Brookhaven. Il segnale era enorme, invece di pubblicarlo, informava discretamente i suoi concorrenti in giro per il mondo, chiedendo loro di controllare gli esperimenti. Burton Richter, allo SLAC di Stanford, fu il più veloce e la scoperta fu pubblicata dai due gruppi nello stesso numero della stessa rivista. Il Nobel arrivava entro l'anno, perché tutti erano convinti della solidità oltre che dell’importanza della misura.
L’assegnazione dei premi Nobel, in realtà, non è sempre stata così facile. Basti ricordare Paul Dirac, brillante matematico e fisico britannico che dedusse l’esistenza di una particella opposta all’elettrone risolvendo in chiave relativistica un’equazione che oggi porta il suo nome. Nel 1931, Dirac intuì e propose l’esistenza dell’antielettrone. Era un’ipotesi ardita che diede luogo, tra i fisici, a contrastanti discussioni. Nell’estate del 1931, Wolfgang Pauli assisteva a un seminario di Robert Oppenheimer sul lavoro di Dirac. Si racconta che nel bel mezzo di quella lezione, scattò in piedi, afferrò un pezzo di gesso camminando verso la lavagna e lì davanti si fermò brandendolo come per intervenire, poi disse: “Ach nein, das ist ja alles falsch!”…tutto questo è certamente sbagliato!”. Più tardi Pauli scrisse, a proposito della spiegazione che Dirac ha dato dei risultati della sua teoria “non crediamo che tutto questo debba essere preso sul serio”.
La teoria della relatività e quella dei quanti non solo sono distinte l’una dall’altra, ma si oppongono l'una l'altra. Dirac trovò una riconciliazione feconda tra le due. Solo quattro anni più tardi, l’antiparticella in questione fu denominata positrone (elettrone positivo) dal suo effettivo scopritore Carl David Anderson, che riuscì a dimostrarne l’esistenza analizzando le particelle che compongono i raggi cosmici e a soli 31 anni fu insignito del premio Nobel per la fisica.
La storia delle scienze non sempre ha reso il giusto tributo a coloro che ne sono stati i veri artefici. L’esempio è Nikola Tesla. Le sue più grandi scoperte e invenzioni sono state fatte nel campo dell'elettrotecnica e dell'elettromagnetismo. Sua l'invenzione della radio e non di Marconi come stabilì la Corte Suprema degli Stati Uniti in una decisione il 21 giugno 1943. Tesla sosteneva: “L'uomo di scienza non mira a un risultato immediato. Egli non si aspetta che idee avanzate siano immediatamente accettate, il suo dovere è fissare i principi fondamentali per quelli destinati a venire dopo e indicare la strada”. Questo è accaduto spesso nella sua vita, perché egli ha aperto la strada, nella creazione d’importanti innovazioni, a uomini di scienza divenuti più famosi di lui.
Si ricorda anche il contributo dell’astrofisico ucraino George Gamow che compì studi rilevanti nel campo della fisica nucleare e della biologia suggerendo la struttura “a triplette” del DNA. Nel 1948, George Gamow espresse una nuova idea sul Big Bang. Se l’universo si era formato con un’esplosione improvvisa e cataclismatica, quell’esplosione doveva aver emanato una quantità di radiazioni ben precisa. Queste radiazioni dovevano essere rilevabili e uniformi in tutto l’universo. Nei due decenni successivi si ebbe la prova empirica dell’ipotesi di Gamow. Nel 1965, due ricercatori Arno Penzias e Robert Wilson s’imbatterono casualmente in una forma di radiazione fino allora inosservata. La cosiddetta "radiazione cosmica fondamentale” era diversa da qualsiasi altra cosa proveniente dall’universo, poiché era straordinariamente uniforme. Questa radiazione era l’eco del Big Bang, che si propagava ancora dai primi momenti della grande esplosione. Gamov aveva indovinato! Grazie alla scoperta, Penzias e Wilson ricevevano il Nobel senza conoscere la teoria che stava alla base della loro scoperta. In occasione della premiazione dei due americani, Gamow né riceveva alcun premio né alcuna menzione.
Ritornando ai neutrini, queste masse piccolissime ci fanno compagnia da ottanta anni ma li conosciamo ancora poco. Gli sforzi compiuti per studiarli sono stati spesso ricompensati da un premio Nobel: Reines (1995 neutrino elettrone), Leon Lederman, Melvin Schwartz e Jack Steinberger (1988, neutrino mu), Koshiba e Davis (2002 neutrini cosmici). Sapremo cogliere i frutti di tale sforzo? Queste inafferrabili particelle elementari sembrerebbero svelare una caratteristica intrinseca incredibile, infatti sarebbero capaci di viaggiare a una velocità superiore a quella della luce nel vuoto di oltre 7 chilometri al secondo. Tale scoperta porterà a un futuro Nobel? Lasciamo che il futuro affermi la Verità, e richiamando il pensiero di Tesla: “Giudichiamo ciascuno secondo la propria opera e i propri obiettivi”.
Ioghà Antonella
Si è parlato molto di neutrini in questo ultimo mese, da quando i fisici dell’esperimento OPERA, chiusi nei laboratori nazionali del Gran Sasso, hanno comunicato al mondo che, forse, i neutrini vanno più veloce della luce. Se questo dato fosse confermato, da più di una misura indipendente, sarebbe rivoluzionata la fisica delle particelle e quindi tutto il nostro mondo così come lo conosciamo. Un problema non da poco.
D’altronde descrivere e caratterizzare i neutrini non è stato facile. Molto del merito della scoperta di Antonio Ereditato e il suo gruppo di ricercatori è legata in modo indissolubile alla fisica italiana: Enrico Fermi e i ragazzi di via Panisperna, Ettore Majorana e Bruno Pontecorvo.
I neutrini sono particelle elementari con massa piccolissima o assente, sono privi di carica e interagiscono solo attraverso le forze di interazione debole e la forza di gravità ma non risentono della forza di interazione nucleare ed elettromagnetica. Queste particelle misteriose vengono liberate in alcune reazioni nucleari che avvengono nelle stelle (come nel nostro sole), all’interno dei pianeti e sono dappertutto anche se noi non ce ne accorgiamo e abbiamo difficoltà a identificarle perché interagiscono molto poco con la materia.
Il primo a immaginare l’esistenza dei neutrini è stato il fisico austriaco Wolfgang Pauli nel 1930 in base alle osservazioni sul decadimento radioattivo di tipo beta, per salvare il principio di conservazione dell’energia sancito dalla prima legge della termodinamica. Quando un neutrone decade genera un protone e un elettrone. Ma non solo. Scrive lo stesso Pauli ”per salvare la statistica e il teorema dell’energia… c’era infatti bisogno di pensare una nuova particella per far quadrare i conti..una particella molto strana, neutra, senza massa o quasi, incapace o quasi di reagire con la materia…”.Questa particella è il neutrino, ma ancora non si chiama così. A darle un nome e una teoria solida è il fisico italiano Enrico Fermi che nel 1934 propone la teoria del decadimento beta che ipotizza l’esistenza di una forza debole capace di trasformare, nel nucleo, il neutrone in protone. In questa trasformazione sono coinvolti gli elettroni e la nuova particella proposta da Pauli. Il neutrino teorizzato da Fermi ha una massa nulla o molto più piccola di quella dell’elettrone, una velocità uguale a quella della luce, è soggetta alla forza debole, e la sua capacità di interazione con la materia dipende dalla sua energia.
Enrico Fermi è“consapevole dell’importanza del suo lavoro e disse che quello sarebbe stato il suo capolavoro, ricordato dalla posterità, certo il meglio di quanto avesse fatto fino ad allora” (Emilio Segrè). In realtà Enrico Fermi è ricordato in tutto il mondo per i numerosi contributi in fisica quantistica e in fisica nucleare, per la teoria del decadimento beta, per la statistica quantistica di Fermi-Dirac e per i risultati sulle interazioni nucleari. Fermi ha progettato e realizzato il primo reattore nucleare a fissione in cui è stata prodotta la prima reazione nucleare a catena controllata, ed è stato uno dei direttori del progetto Manhattan che ha portato alla realizzazione della bomba atomica. Vincitore del Premio Nobel per la fisica nel 1938 (per l’identificazione di nuovi elementi della radioattività e la scoperta delle reazioni nucleari mediante neutroni lenti) il suo nome è legato per sempre alle particelle elementari, i fermioni, e a un elemento della tavola periodica, il Fermio.
Il grande merito di Enrico Fermi è soprattutto quello di essere stato l’iniziatore di una feconda scuola italiana di fisici. Professore di fisica teorica all’Università di Roma ha creato il gruppo di via Panisperna, centro di avanguardia a livello mondiale, che comprende Franco Rasetti, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi ed Ettore Majorana. Anche Ettore Majorana, fisico geniale e ombroso, ha dato un contributo alla fisica del neutrino, sostenendo che neutrino e antineutrino sono la medesima particella. Oggi ancora si cerca negli esperimenti al Gran Sasso il “neutrino di Majorana”.
Il più giovane dei ragazzi di Via Panisperna è Bruno Pontecorvo, che dedica tutta la sua ricerca al problema della massa del neutrino e che per primo intuisce la possibilità che il neutrino oscilli tra tre “sapori”, elettronico, muonico e tauonico. Bruno Pontecorvo, inoltre, suggerisce il bersaglio più adatto per rivelare la presenza di neutrini allo stato libero. Pontecorvo propone di utilizzare un isotopo del cloro, il cloro37, che possiede il nucleo particolarmente ricco di neutroni e che se colpito da un neutrino decade in argon37, che è altamente radioattivo e quindi facilmente rilevabile. Grazie a questa intuizione, il fisico americano Raymond Davis riesce a identificare i neutrini solari. Ma non solo, dai suoi esperimenti emerge che il numero di neutrini rilevati è inferiore di due terzi rispetto al numero di neutrini atteso, fornendo una prova indiretta della teoria dell’oscillazione dei neutrini, e quindi della loro massa.
L’esperimento OPERA condotto in collaborazione tra il CERN di Ginevra e l’INFN del Gran Sasso in Italia mira a descrivere proprio lo stato di oscillazione dei neutrini. Ancora una volta un gruppo di ricerca italiano è all’avanguardia nello studio e nella caratterizzazione dei neutrini e ancora una volta i risultati sono sorprendenti. Il responsabile del gruppo di ricerca che ha osservato che i neutrini provenienti dal CERN viaggiano a velocità superiore a quella della luce è un fisico italiano, Antonio Ereditato.
In questi cento anni la ricerca italiana ha contribuito in maniera importante alle grandi scoperte della fisica delle particelle sia in Italia che nel mondo: i neutrini sono oggi al centro dell’attenzione, e domani lo saranno i bosoni, che rivendicano anch’essi una storia italiana con la loro scoperta da parte di Carlo Rubbia. In un paese che spende solo l’1,5% del PIL in ricerca e che ha mandato i suoi migliori cervelli all’estero, questo è un gran risultato, e dovrebbe renderci una volta di più orgogliosi di essere italiani.
di Ilaria Canobbio