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Università: Ministro, più coraggio!

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Durante le manifestazioni di protesta sul decreto della scuola, il Ministro Gelmini si stupiva della partecipazione di tanti studenti universitari, affermando che quei provvedimenti non riguardavano l’università. L’affermazione era formalmente accurata, ma falsamente ingenua. Ben sapeva infatti il Ministro che la protesta era per la legge 133, che aveva tagliato i fondi all’università per circa 700 milioni entro il 2010, fino ad arrivare nel 2013 a più di 1000 milioni. Siano state o no le manifestazioni degli studenti, il Ministro Gelmini ha successivamente varato un decreto che porta qualche novità positiva, anche se i tagli per ora rimangono. E’ senz’altro un provvedimento positivo quello che impedisce agli atenei indebitati di assumere personale e bandire nuovi concorsi. Inoltre, mentre la legge 133 prevedeva che i numerosi pensionamenti, previsti tra i 2010 e il 2013, potessero essere rimpiazzati solo nella misura del 20%, il decreto consente nuove assunzioni nella misura del 50% del costo recuperato attraverso i collocamenti a riposo. Un’importante aggiunta: almeno il 60% della somma così recuperata deve essere destinata all’assunzione di ricercatori, mentre non più del 10% può essere utilizzato per la creazione di nuovi posti di professori ordinari. Quest’ultimo è un buon provvedimento, che interrompe il reclutamento preferenziale di ordinari ed associati senza aumentare in maniera significativa l’immissione di giovani ricercatori nel corpo docente più anziano d’Europa! Inoltre il decreto Gelmini blocca transitoriamente i 1.800 concorsi per professori associati e ordinari banditi nel 2008, a cui si è iscritta una folla di dimensioni calcistiche: ben 40.000 candidati! Infine, il decreto che, come recita il titolo, è rivolto alla “valorizzazione del merito e alla qualità del sistema universitario e dalla ricerca”, stabilisce, per la prima volta nella storia dell’università Italiana, che una quota sia pur limitata del fondo del finanziamento ordinario dello Stato sia assegnata secondo principi meritocratici, come la qualità e i risultati della didattica e della ricerca scientifica. Un provvedimento epocale, anche se sarà importante vedere come sarà implementato in concreto.

Nel complesso, il giudizio sul decreto non può che essere positivo, perché per la prima volta si parla di merito, termine sconosciuto al sistema universitario Italiano. Ma non basta: non basta se continueremo ad avere 95 università (di cui quasi la metà gravemente indebitate), più di 5000 corsi di laurea, più di 600 facoltà, più di 300 sedi di atenei distaccate e minuscole, quasi sempre senza aule e laboratori e basate su corsi telematici per lo più virtuali. Per non parlare dello scandalo delle lauree lampo, concesse da molte università (private soprattutto, ma purtroppo anche pubbliche) sulla base del riconoscimento di crediti formativi attenuti lavorando nelle amministrazioni pubbliche.

Ministro Gelmini, un nuovo progetto di riforma dell’università deve essere realmente radicale, e dare un forte segnale di discontinuità. Il Gruppo 2003, già nel 2005 durante la discussione della legge 230 sull’università, aveva presentato proposte innovative alla 7a Commissione del Senato, che affrontavano il nodo centrale di un’università Italiana “alla canna del gas”: la totale assenza di incentivi (dentro l’università) e di competizione (tra le università).

La proposta di base era e rimane quella delle TRE ABOLIZIONI:

  • ­ abolizione dei concorsi,
  • ­ abolizione del posto fisso nelle università,
  • ­ abolizione del valore legale del titolo di studio.

Queste TRE ABOLIZIONI e la realizzazione del seguente DECALOGO costituirebbero la vera riforma: e si tratta di cose “normali”, che esistono normalmente non solo nell’Eldorado America, ma in tutti i principali paesi Europei:

  • Libera scelta di ogni università sul livello delle retribuzioni, con criteri meritocratici (produzione scientifica, brevetti, didattica innovativa).
  • Libere assunzioni (ogni università assume chi vuole e come vuole), assumendosene la responsabilità e le conseguenze.
  • Liberalizzazione dei percorsi di carriera: ogni università promuove chi e come vuole, assumendosene la responsabilità e le conseguenze.
  • Liberalizzazione della didattica: ogni università sceglie di insegnare ciò che vuole, e le scelte vengono premiate o penalizzate dalle iscrizioni degli studenti e dal mercato del lavoro.
  • Rafforzamento dell’esame di stato, in termini di capacità di valutazione ed efficacia selettiva, per controbilanciare ed integrare l’abolizione del valore legale del titolo di studio.
  • Liberalizzazione delle tasse e dei contributi: ogni università decide autonomamente la loro entità, sulla base della sua capacità di offerta e di attrazione.
  • Utilizzazione di parte dei fondi derivati dalle tasse per istituire un sistema di prestiti agli studenti meritevoli e bisognosi.
  • Attribuzione di ogni finanziamento sulla base degli indicatori di produttività scientifica condivisi da tempo dalla comunità internazionale (peer-review, site visits, study sections).
  • Istituzione di corsi in lingua inglese, per la internazionalizzazione dell’attività didattica e dei dottorati di ricerca.
  • Valutazione indipendente delle università da parte dell’Agenzia Italiana per la Ricerca Scientifica.

Tutte cose ormai così dette e stradette - finora del tutto inutilmente - che a scriverle ci si sente come un disco inceppato! 


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