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La sinfonia n° 13 di Šostakovič

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L'annientamento della popolazione ebraica sul posto, al di fuori dei campi di sterminio, che i nazisti perpetrarono nella loro avanzata verso est dal mar Baltico al mar Nero, copre numericamente quasi la metà della Shoah. Babij Jar è un burrone non lontano da Kiev che, quando i tedeschi occuparono la città ucraina nel settembre del 1941, divenne la tomba della popolazione ebraica residente. E di intellettuali, partigiani ucraini, soldati prigionieri, addirittura calciatori della Dinamo che non si erano voluti far battere dalla squadra delle Forze Armate tedesche, ladri comuni, decine di migliaia di rom. A questo luogo, o meglio a ciò che rappresenta, Evgenij A. Evtušenko dedicò un poema, i cui versi sono stati immortalati dalla loro inclusione nella sinfonia n° 13 di Dmitrij D. Šostakovič. Poiché la sua intenzione era di rendere omaggio alle vittime innocenti non solo del nazismo, ma anche dello stalinismo, Šostakovič chiese poi a Evtušenko altri testi da introdurre nella sinfonia, che furono poi modificati su pressione di Nikita Chruščëv: “Vorrei scrivere una sinfonia per ciascuna delle vittime, ma è impossibile ed è per questo che dedico a tutte loro la mia musica”.
L'articolo di Simonetta Pagliani in occasione del Giorno della Memoria.
Crediti immagine: armenanno/Pixabay. Licenza: Pixabay License

La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.

A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo. Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.

Così Primo Levi, ne “La tregua”, ha raccontato il giorno in cui la 60ª Armata del Primo fronte ucraino, al comando del maresciallo Ivan Konev, liberò le 7.000 persone che ancora erano nei campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Tra quei soldati c’era Yakov Vincenko, allora diciannovenne, che in un’intervista a Giampaolo Visetti, per la Repubblica del 16 gennaio 2005, disse: «Io ho incontrato solo spettri. Donne, bambini, malati, erano incapaci di muoversi. C’era una puzza asfissiante... sono passato davanti a scheletri accovacciati nella melma gelata... La verità è che quel 27 gennaio nessuno di noi soldati si era reso conto di aver varcato un confine da cui non si rientra... Pensai a qualche migliaio di morti, non allo Zyclon B e alla fine dell’umanità».

A distanza di sessant’anni e cinque anni dopo che l’aveva fatto l’Italia con la legge 211, nel novembre del 2005 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite consacrò quella data alla memoria della Shoah; nel primo anniversario che seguì la delibera, alla presenza di ex prigionieri e soldati sovietici, nonché di 45 capi di Stato e di governo tra cui il presidente israeliano Moshe Katsav, riuniti nel campo di Auschwitz, Vladimir Putin promise di vigilare contro la rinascita dell’antisemitismo in Russia. Era il segnale di un cambio di passo post sovietico nei confronti della Shoah, che, nel lustro successivo, nonostante una certa resistenza burocratica e socio-culturale (peraltro, non dissimile da quella che ritardò la costruzione di un memoriale a Berlino), avrebbe portato all’apertura a Mosca del Museo virtuale dell’Olocausto e del Museo ebraico-Centro per la tolleranza e alla ricerca dei siti delle atrocità di massa tedesche, che ha reso visitabili virtualmente 40 memoriali, di cui 19 per vittime solo ebraiche.

Gli eccidi al di fuori dei campi di sterminio

L'annientamento della popolazione ebraica sul posto, al di fuori dei campi di sterminio, che i nazisti perpetrarono nella loro avanzata verso est dal mar Baltico al mar Nero, copre numericamente quasi la metà della Shoah (l’ossessione degli Einsatzgruppen per la ricerca di metodi di eliminazione a sempre più alto tasso di resa è ben descritta nel romanzo “Le benevole” di Jonathan Littel). Tuttavia, questi eccidi sono stati documentati con ritardo sia per la difficoltà degli storici di accedere agli archivi sovietici, sia per la negazione da parte dell'URSS di una sorte speciale per gli ebrei, che erano elencati tra le vittime genericamente come cittadini sovietici.

In una nazione duramente colpita, che piangeva venti milioni di morti, il mito fondatore sovietico della "grande guerra patriottica" (Velikaya Otechestvennaya Voyna) non avrebbe avuto la stessa carica di risarcimento se fosse stato dato un risalto particolare allo sterminio degli ebrei. Solo a partire dal 1991 sono apparsi in Russia i primi studi sulla Shoah, tra cui “Il libro nero - Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945” di Il'ja Erhemburg e Vasilij Grossman, con materiale prima censurato: le testimonianze a supporto degli eventi descritti nel libro erano state raccolte, infatti, dal Comitato ebraico antifascista tra il 1942 e il 1948, anno in cui il Comitato venne sciolto dalle autorità sovietiche. Parte dei documenti confiscati, ma non distrutti, riuscì tuttavia a pervenire clandestinamente all'archivio dello Yad Vashem e così gli autori del libro, ebrei di nascita, seppure intellettuali allineati con le direttive del partito, non poterono evitare di portare alla luce sia il sostegno che le popolazioni di Ucraina, Bielorussia, Lituania ed Estonia diedero alle truppe di occupazione nel massacro dei concittadini israeliti, sia la persistenza post bellica, in quei luoghi, di un antisemitismo ancora legato all’attecchimento della propaganda nazista contro il “giudaico-bolscevismo”.

Il massacro di Babij Jar

Il progetto di ricerca dei siti delle stragi fu chiamato “Babij Jar di Russia”, nome mutuato da quello di un burrone alto dai venti ai venticinque metri, non lontano da Kiev, che, quando i tedeschi occuparono la città ucraina nel settembre del 1941, divenne la tomba della popolazione ebraica residente. Il massacro fu deciso dagli ufficiali delle SS Kurt Eberhard (morto suicida in carcere nel 1947), Friedrich Jeckeln (condannato a morte da un tribunale militare sovietico nel 1946) e Otto Rasch, che comandava l'Eisatzgruppe C (dichiarato non processabile nel 1948 per il morbo di Parkinson del quale morì lo stesso anno), che lo attuarono con battaglioni delle SS e delle SA e con l'appoggio della locale polizia ucraina.

Come emerge dal dettagliato rapporto militare, riportato dallo storico Martin Gilbert, i tedeschi ordinarono agli ebrei rimasti nella città (33.771 tra donne, bambini e anziani, poiché gli uomini erano arruolati) di riunirsi all’aperto per ricevere disposizioni, li condussero verso una radura, dove, bastonando e aizzando i cani, li obbligarono a svestirsi e ad andare incolonnati verso la cresta del burrone. Dall'altra parte dello strapiombo erano all’opera le mitragliatrici: le persone uccise o ferite cadevano e si sfracellavano. I poliziotti ucraini parteciparono prendendo i bambini per le gambe e gettandoli nel vuoto. Alla fine dell’operazione, le pareti del burrone furono minate e seppellirono la gente, anche quella ferita, ma viva.

Nei mesi successivi, Babij Jar fu usato per eliminare intellettuali, partigiani ucraini, soldati prigionieri, addirittura calciatori della Dinamo che non si erano voluti far battere dalla squadra delle Forze Armate tedesche, ladri comuni, decine di migliaia di rom e, naturalmente, altri ebrei (secondo stime sovietiche, le uccisioni arrivarono a centomila).

Come ricorda Antonella Salomoni, storica dell'Università della Calabria, mentre le vittime del primo eccidio si erano presentate spontaneamente, ingannate dai manifesti nazisti, gli ebrei uccisi successivamente furono spesso catturati su delazione della popolazione locale. Il baratro, alla fine, inghiottì anche le responsabilità dei collaborazionisti ucraini, una volta ritornati nell’orbita sovietica: il processo contro i responsabili dei crimini di Babij Jar, condotto nel 1967 a Darmstadt in Germania (centosettantacinque testimoni e undici condanne) fu quasi ignorato dalla stampa sovietica; solo nel 1976 venne costruito sul sito un monumento ufficiale, sul quale, peraltro, non erano menzionati gli ebrei e passarono altri 15 anni prima che ne venisse eretto un altro rappresentante la menorah.

Rimuovere la memoria di Babij Jar era funzionale a coprire il collaborazionismo degli ucraini con i nazisti, una realtà vergognosa e incontrovertibile che gli storici parzialmente attribuiscono al forte malcontento antisovietico della regione. Fra il 1929 e il 1933, la grave carestia (il cosiddetto Holodomor) che fece morire di fame in Ucraina milioni di persone, divenne la leva della propaganda nazista sulle colpe della collettivizzazione della terra imposta da Stalin: così, quando le forze dell’Asse occuparono l’Ucraina fra il 1941 e il 1944, più di 30.000 ucraini si arruolarono nelle Waffen-SS in funzione antibolscevica e antirussa e il neoformato Esercito insurrezionale ucraino (Ukrains'ka Povstans'ka Armija, UPA), accoglieva i tedeschi come liberatori.

In seguito, i guerriglieri dell’UPA, che nel 1943 avevano sterminato, insieme o per conto dei nazisti, le popolazioni ebraica e polacca residenti in Volynija sotto la spinta nazionalistica finirono col rivolgere le armi anche contro la Wermacht e poi contro l’Armata Rossa, cessando le attività all’inizio degli anni '50 del Novecento*.

I versi di Evtušenko

Nel 1961, Evgenij A. Evtušenko, di passaggio nella capitale ucraina per una serata di lettura, pregò lo scrittore Anatolij Kuznecov di accompagnarlo a Babij Jar e rimase colpito sia da quello che vide (il luogo era una discarica di immondizia) sia quello che non vide (era assente qualsiasi segno commemorativo). Turbato anche dalla memoria dei recenti attacchi antisemiti avvenuti in Russia sotto la sigla BŽSP (acronimo di Bej židov, spasaj Rossiju, “Picchia gli ebrei, salva la Russia”, uno slogan retaggio dei pogrom di epoca zarista), Evtušenko compose in poche ore il poema “Babij Jar”, di cui diede lettura nell’auditorium del Museo Politecnico di Mosca. I versi, che Elie Wiesel definì “il grido di un giovane russo in collera”, commossero il pubblico, ma scatenarono una bufera politica: se recitarli era stato possibile, pubblicarli sarebbe, quindi, stato arduo.

Invece, contro ogni previsione di Evtušenko, nel settembre del 1961 Valerij Kosolapov, il responsabile editoriale dell’autorevole Literaturnaja Gazeta, accettò di mandarlo in stampa, a dispetto del pericolo che correva. Kosolapov era certamente un membro del Partito Comunista, perché a quei tempi nessuna carica poteva essere ricoperta da persone che non lo fossero, ma era anche un veterano di guerra e, quando era entrato a Kiev con l’Armata rossa, aveva visto la fossa comune con i suoi occhi. Dopo essersi consultato con la moglie, perché sapeva di giocarsi il posto di lavoro, disse a Evtušenko: ”Io sono comunista, capisci? Come potrei non pubblicarlo?”.

La conseguenza paventata non si fece attendere e il capo della Sezione Cultura del Comitato Centrale in persona arrivò negli uffici della rivista, per farlo licenziare. A fronte dell’appoggio di parte della società civile (quell'edizione della Literaturnaya Gazeta fu immediatamente esaurita) molti intellettuali organici sovietici si dissero sdegnati sia perché il poema ricordava il dolore inferto dal nazismo alla comunità ebraica, ma taceva di quello a tutte le altre nazioni e ai milioni di giovani soldati caduti in guerra, sia perché esso gettava l’onta dell’antisemitismo proprio sul popolo sovietico, quello che più aveva sofferto a causa dei tedeschi.

La musica di Šostakovič

Accerchiati dai censori, forse i versi di Evtušenko avrebbero avuto vita breve se non fossero stati immortalati dalla loro inclusione nella sinfonia n° 13 in si bemolle minore op. 113 per basso solista, coro di voci maschili e orchestra, di Dmitrij D. Šostakovič, sottotitolata Babij Jar. A Michael B. Shavelson (che lo intervistava per il Boston University Bridge) Evtušenko ha confessato la sua incredulità nel ricevere la telefonata in cui il famoso compositore della sinfonia “Leningrado” gli chiedeva: “Caro Evgeni Alexandrovič, ho letto la sua poesia Babij Jar e mi ha colpito profondamente. Vorrebbe essere così buono da darmi il gentile permesso di comporre un... non so neanche come chiamarlo, un pezzo?”.

Poiché la sua intenzione era di rendere omaggio alle vittime innocenti non solo del nazismo, ma anche dello stalinismo, Šostakovič chiese poi a Evtušenko altri testi da introdurre nella sinfonia, che fossero espliciti in tal senso: “La maggior parte delle mie sinfonie sono pietre tombali. Troppi nostri concittadini sono morti e sono stati sepolti in luoghi ignoti a tutti, compresi i parenti… Vorrei scrivere una sinfonia per ciascuna delle vittime, ma è impossibile ed è per questo che dedico a tutte loro la mia musica”… “Mi pare che sia il caso di dedicare qualche parola alla coscienza. Di lei ci siamo dimenticati, ma ricordarcene è indispensabile. Bisogna riabilitare la coscienza, ridarle i diritti civili, offrirle una decorosa superficie abitativa nell’anima umana. Quando avrò terminato la tredicesima sinfonia, m’inchinerò ai suoi piedi, perché lei mi ha aiutato a rappresentare in musica il problema della coscienza.”

La sinfonia n° 13 risulterà, alla fine, composta di cinque movimenti: adagio (Babij Jar), allegretto (Umorismo) che irride chi ha l’illusione di controllare la satira popolare, adagio (L’emporio) che celebra la forza di sopportazione delle donne sovietiche, largo (Timori) sulla paura di parlare nell'epoca di Stalin e, infine, allegretto (La carriera) che predice grandezza imperitura solo a chi difende le proprie idee.

La trasposizione in cantata dei suoi versi entusiasmò Evtušenko subito al primo ascolto: “… se sapessi scrivere musica, l’avrei scritta esattamente come la scrisse Šostakovič. Sembrava che avesse tratto fuori la melodia dal mio intimo, come per magica telepatia, per fissarla con le note”.

L’esecuzione pubblica della sinfonia fu ostacolata dalle pressioni del Comitato Centrale sul basso solista e sul direttore d’orchestra designati che rinunciarono a parteciparvi e che, all’ultimo, furono sostituiti rispettivamente dal giovanissimo Vitaly Gromadskij e da Kirill Kondrašin; alla fine, la prima ebbe luogo il 18 dicembre del 1962 e fu un successo. Evtušenko, chiamato sul palco da Šostakovič, esitò a salire: “Ascoltando la sinfonia, avevo quasi dimenticato che le parole erano le mie, per come ero stato conquistato dalla potenza dell’orchestra e del coro. In verità, la cosa principale in quella sinfonia è la musica”.

Ci fu una seconda esecuzione e poi non fu più permesso di eseguire la Sinfonia con i versi originali: dietro pressione di Nikita Chruščëv in persona (che nel 1938 era stato a capo del Comitato centrale del partito comunista ucraino), Evtušenko accettò di apportare al testo modifiche che ponevano gli ebrei sullo stesso piano delle altre vittime (venne introdotto “…qui dei russi giacciono e degli ucraini, / giacciono con gli ebrei al loro fianco”) e che mettevano in risalto il ruolo dell’Unione Sovietica nella sconfitta del nazismo.

Šostakovič ne fu contrariato al punto che tentò alcune esecuzioni della sinfonia con il testo originale e poi rinunciò, tanto che, per tutta l’epoca sovietica, l'edizione ufficiale dell'opera completa di Šostakovič saltava dalla dodicesima alla quattordicesima sinfonia. Il primo movimento della sinfonia (reperibile su YouTube come segnalato in bibliografia) è, dunque, l’adagio Babij Jar, aperto da un lugubre rintocco di campane, che lo accompagnerà per tutta la durata. Il coro di bassi entra lamentando, con il primo verso, Non c'è un momumento a Babij Jar; poi, il basso solista intona il racconto del destino ebraico, dalla fuga dall’Egitto, all’affare Dreyfus e ai pogrom di Bialystok, dopo un accorato appello al popolo russo ("O caro popol mio, o Russia, tu da sempre sei internazionalista. Ma quante volte chi ha le mani sporche il tuo puro nome ha brandito? Io conosco la bontà della mia terra e come, senza mai rabbrividire, gli antisemiti proclamassero:"Noi siamo la Nazione Russa!").

Accompagnato dagli archi e dalla celesta, il basso prosegue cantando l’amore e la paura dei due ragazzi Anne Frank e Peter van Pels che stanno per essere catturati dai nazisti. Al coro sussurra "arriva qualcuno!" il basso rassicura "sono i suoni della primavera"; il coro urla "buttano giù la porta!" e il basso risponde, esitante, "è il ghiaccio che si rompe". Poi si scatena un fragore di percussioni e il tema iniziale riprende a piena orchestra, rappresentando lo smarrimento di Peter e Anna e di chiunque abbia ascoltato, di notte, il passo di soldati sulle scale di casa, sperando che non si fermasse al suo pianerottolo.

L'esplosione orchestrale reintroduce il coro di bassi e si torna al tema iniziale: “Su Babij Jar si sente il fruscio dell'erba. Gli alberi sono minacciosi, come giudici. Ogni cosa grida nel silenzio e, scoprendomi la testa, sento lentamente i miei capelli diventare bianchi. E io divento un urlo continuo, sulle migliaia e migliaia di persone seppellite qua. Io sono ognuno degli anziani fucilati qui. Io sono ognuno dei bambini fucilati qui. Niente dentro di me dimenticherà, mai!”.

Nella conclusione del movimento, i versi dicono che solo quando l'odio degli antisemiti sarà sconfitto, si potrà parlare di nuovo di Russia: “Che suoni l'Internazionale quando l'ultimo antisemita sulla terra sarà seppellito. Nel mio sangue non c'è sangue ebraico, ma sono odiato con accanimento da tutti gli antisemiti come fossi ebreo. Ed è perciò che sono un vero russo!”.

 

*Non va ignorato che, nel 2010, il presidente ucraino Viktor Juščenko ha proclamato eroe nazionale il leader dell'UPA Stepan Bandera, tra le proteste della comunità ebraica e dei governi russo e polacco; quest’ultimo ha risposto nel 2016 eleggendo l’11 luglio a ricorrenza nazionale in ricordo del giorno del 1943 in cui reparti di Stepan Bandera e Roman Šuchevič attaccarono contemporaneamente circa 100 villaggi polacchi in Volynija, provocando oltre centomila morti, in gran parte donne, bambini e vecchi, vittime di una “pulizia etnica con elementi di genocidio”

 

Bibliografia
Evtušenko Engenij A. “Autobiografia precoce”. Feltrinelli: Milano, 1963
Shavelson Michael B. “The poem that stole past Khrushchev and into a symphony
Salomoni Antonella. “Parole e suoni per Babij Jar. Evtušenko e Šostakovič”, in RILUNE — Revue des littératures européennes, n° 10, « Mars et les muses 2016, p. 154-168 
Salomoni Antonella. “L'Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione”, Il Mulino: Bologna, 2007
Salomoni Antonella. “Le ceneri di Babji Jar”. Il Mulino 2019
Gilbert Martin. “Mai più. Una storia dell'Olocausto”. Rizzoli: Milano, 2000
Kuznecov Anatolij. “Babij Jar”. Adelphi: Milano 2019, 2ª ediz
Wiesel Elie. “Gli ebrei del silenzio”. Spirali: Milano, 1985.
Dmitri Shostakovich - Symphony No. 13 "Babi Yar" su YouTube 
Andrea Morpurgo, "Il manoscritto: 'Diario della terribile guerra' di Attilio Morpurgo e Gina Viterbo" («Diario del mese», n. 1 special monographic number "Memoria", 2005, pp. 52-59)
Resolution adopted by the General Assembly on the Holocaust Remembrance (A/RES/60/7, 1 November 2005), The Holocaust and the United Nations - Outreach Programme
"Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti"
Dmitri Shostakovich: Symphony No. 13, Op. 113 "Babi Yar". Tom Krause, baritone. Philadelphia Orchestra diretta da Eugene Ormandy. Registrazione del 21 gennaio 1970, la prima effettuata fuori dall’Unione sovietica
Shostakovich Sinfonia No.13, op.113 "Babi Yar", cantata in italiano. Ruggero Raimondi, basso; orchestra della RAI di Roma diretta da Riccardo Muti. Registrazione Live, Roma, 31 Gennaio 1970 

 


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