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La scienza in marcia, ma quale scienza?

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Tra pochi giorni una Marcia per la Scienza mobiliterà ampi strati della comunità scientifica statunitense per affermare l’importanza della ricerca nell’affrontare le sfide ambientali e sociali della nostra società. La marcia prende le mosse dalla “Women’s March” organizzata dal movimento femminile immediatamente dopo l’insediamento di Trump, Il 21 e 22 gennaio scorso, che aveva portato in strada mezzo milione di persone in diverse città degli Stati Uniti.

Sul sito del neonato movimento non si menzionano direttamente né Trump né il suo atteggiamento ostile nei confronti della ricerca, che il neopresidente dichiara non essere una priorità del suo governo. Tuttavia, nell’appello scritto dai promotori dell’iniziativa ci sono chiari riferimenti alle prese di posizione del Presidente americano in materia ambientale: “Ci sono alcune cose che riconosciamo come fatti, senza possibili ‘fatti alternativi’: la Terra sta diventando più calda per via delle attività umane; la biodiversità deriva dall’evoluzione.” Non è un caso che la data scelta per la marcia è il 22 aprile, Giornata mondiale del pianeta. L’appello ha fatto già il giro del mondo, ed in pochissimi giorni ha raccolto centinaia di migliaia di adesioni da tutto il mondo, anche in Italia.

Siamo abituati a immaginare gli scienziati immersi nel loro studio, intenti a produrre conoscenza a beneficio dell’umanità. Ed in moltissimi casi il loro contributo è indiscutibile. Ma ci riesce difficile immaginarli scendere in piazza per protestare, come invece molti lavoratori di altri settori fanno da sempre, per rivendicare il proprio ruolo nella società e il loro diritto ad essere ascoltati. O, semplicemente, per spiegare cosa fanno e come svolgono il loro lavoro.

Ed in effetti non tutti condividono l’idea di scendere in piazza. Non ci riferiamo ovviamente ai sostenitori di Trump, ma agli stessi scienziati. Secondo alcuni, la mobilitazione presenta l’altra faccia di una scienza che è poco avvezza a dialogare con la società in merito a strumenti e mezzi che usa per produrre la sua conoscenza. Salvo indignarsi quando qualcuno non apprezza i suoi risultati. E’ questa la posizione di Robert S. Young, geologo marino, direttore di un programma di ricerca sugli effetti dei cambiamenti climatici nelle aree costiere alla Western Carolina University, che, in un articolo sul New York Times, spiega le sue perplessità verso la marcia. Una “mobilitazione spettacolare” come la marcia rischia di inasprire, secondo Young, il clima di divisione che si respira negli USA (e non solo lì) tra chi si schiera a favore della “verità” e chi, invece, “non capisce nulla”. Secondo Young, gli scienziati dovrebbero comunicare di più e più spesso, invece di rivendicare visibilità solo quando vedono messo in discussione il proprio ruolo. Come a dire che, in mancanza di una comunicazione inclusiva in “tempi di pace”, è difficile essere riconosciuti alleati in “tempi di guerra”.

Parallelamente, c’è chi si chiede se questa marcia non possa far rinascere il movimento ‘Science for the people', e dar vita ad un network di “scienziati progressisti”, o rinverdire il dibattito sul rapporto scienza-società molto attivo in Italia negli anni '70-80.

Fuori dalla torre d’avorio

Lavorando da anni in un’istituzione scientifica pubblica, sappiamo bene che la “torre d’avorio” è una metafora usata per descrivere una separazione tra scienza e società più percepita che reale. Come dice Latour, siamo tutti coinvolti in esperimenti socio-tecnici collettivi che superano i confini del laboratorio. Eppure, la metafora della torre rappresenta efficacemente una diffusa tendenza del mondo scientifico ad operare in maniera “indisturbata” nella sua attività di produzione di fatti e verità, e a rivendicare uno status autonomo per la scienza. La torre simboleggia anche la distanza che spesso la società avverte nei confronti di un mondo di cui non comprende metodi e linguaggi, sempre più complessi ed autoreferenziali.

In una recente intervista, Sheila Jasanoff traccia un parallelismo tra la crisi di fiducia nei confronti degli scienziati e la crisi di rappresentanza politica emersa recentemente in Gran Bretagna, quando il politico Michael Gove a proposito della Brexit ha affermato: “la gente di questo paese è stufa degli esperti.” “I motivi della diffidenza sono comprensibili, ma - chiarisce la Jasanoff - non hanno molto a che vedere con la fiducia verso i singoli scienziati e verso la loro ricerca della “verità”. Le persone non sono “stufe” che gli esperti cerchino la verità, ma del fatto che siano loro a decidere quali questioni sono utili o giuste. Gli scienziati pensano in “termini scientifici”, mentre le persone pensano in termini di problemi, di questioni da affrontare. A questo proposito Jasanoff propone un atteggiamento di “epistemic charity”, che accoglie il “beneficio del dubbio” e riapre le porte alla discussione e al dibattito.

In questo contesto, sembra centrale il ruolo di una comunicazione inclusiva e rispettosa delle diverse prospettive. Ne sono consapevoli gli stessi sostenitori della marcia quando dicono di voler “superare il divario tra scienziati e pubblico” e di voler considerare la ricerca “dalla prospettiva del pubblico”.

La scienza all’epoca della post-truth

In un articolo apparso su The Conversation, Andrea Saltelli e Silvio Funtowicz affrontano in maniera diversa la “sfida Trump” affermando che, per mettere in discussione il mondo della post-verità, la scienza deve mettere in discussione innanzitutto se stessa; deve, cioè, “riformarsi”.

Non sono gli unici a pensarla cosi. Poco prima del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell'Unione europea, che ha portato alla Brexit, e dell’elezione di Trump negli Stati Uniti d'America del 2016), l’editorialista della rivista Nature, Colin Macilwain, aveva lanciato una sfida: “Se Donald Trump dovesse innescare una crisi della democrazia occidentale, gli scienziati dovrebbero cominciare a riflettere sulle loro responsabilità”. Ora che Trump è diventato presidente, si chiedono gli autori dell’articolo, e la minaccia alla democrazia non è più solo una possibilità, gli scienziati sono disposti a riflettere sulle proprie responsabilità? Riconosceranno le crisi parallele della scienza e della democrazia?

Nell’articolo gli autori spiegano i meccanismi con cui una parte del mondo scientifico evita il tema della “auto-riflessione” sollevato da Macilwain, attraverso alcuni atteggiamenti che chiamano: denial, dismissal, diversion and displacement, e che proviamo a tradurre come negazione, liquidazione, diversivo e rimozione.

La negazione consiste nel non riconoscere la crisi, o, quantomeno, nel rifiutarsi di credere che essa possa avere un impatto sul ruolo sociale della scienza, compreso quello di fornire dati di supporto alle decisioni politiche. E’ quanto farebbero, ad esempio, organizzazioni internazionali come l’OCSE e l'UNESCO, che si avvalgono della consulenza scientifica per le loro policy senza riconoscere i problemi che attraversano la scienza stessa.

In altre situazioni, gli scienziati ammettono l’esistenza di problemi, ma li liquidano come qualcosa che può essere trattato con rimedi locali, o con soluzioni dall’interno, che non mettono in discussione il sistema. In un recente “manifesto per la scienza riproducibile” apparso su Nature, si elencano misure atte a migliorare aspetti del processo scientifico ma solo con lo scopo di rendere la scienza più “efficiente”. Eppure, uno dei motivi dell'attuale crisi, secondo gli autori, è proprio l’applicazione acritica alla scienza del concetto di “efficienza” mutuato dall’economia, che ripropone misure e metriche che molti ritengono essere parte del problema.

Un altro modo di vedere le cose è di usare dei diversivi, spostando l’attenzione sulla guerra in corso tra la sinistra liberale colta e la destra conservatrice ignorante. E’ quanto sarebbe avvenuto con l'elezione di Donald Trump: dato che la scienza è sotto assedio, gli scienziati serrano i ranghi e respingono le critiche. Secondo gli autori, questo atteggiamento si basa su un radicato e diffuso “mito” che descrive gli scienziati come “la parte più nobile dell'umanità” e che presenta la scienza come un’attività in grado di pronunciarsi su tutta la gamma delle vicende umane e sociali. Ma il rischio di questa lettura è di diffondere un’immagine che rappresenta gli scienziati come “uno dei tanti gruppi di interesse”, come osserva John Besley. Ed in effetti negli USA l'opinione pubblica esprime riserve sull’obiettività degli scienziati, come mostrano alcune ricerche americane, e si comincia a chiedere una maggiore chiarezza rispetto ai ruoli.

Tra tutti gli atteggiamenti analizzati dagli autori, forse quello più diffuso è la rimozione, tipica di questa epoca definita, con un termine che l'Oxford English Dictionary ha eletto come parola dell'anno del 2016, “post-truth”, cioè post-verità.

Secondo tale definizione, la post-verità allude a una condizione in cui, “in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza; la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni; l’opinione pubblica si forma in base ad opinioni personali e non a fatti oggettivi, chiaramente accertati”.

La post-verità sembra rispolverare il vecchio paradigma del “deficit model”, ben noto a chi si occupa di comunicazione della scienza, secondo cui alla base dello scetticismo nei confronti della scienza, o della resistenza ad accettare alcune innovazioni ci sarebbe una scarsa alfabetizzazione scientifica del pubblico. Un concetto che, estremizzato, ha prodotto un’altra equazione: quanto più il cittadino è “ignorante”, tanto meno è legittimato a partecipare al dibattito e alle decisioni su temi scientifici che lo riguardano. Il deficit model è stato ampiamente usato per spiegare la diffidenza verso gli OGM o l’energia nucleare. Sebbene in teoria sia stato criticato sotto vari profili, e superato dai numerosi appelli al dialogo e al ”public engagement”, nella pratica questo modello è ancora molto diffuso. Esso è presente anche in un certo modo in cui la politica tende ad affrontare le preoccupazioni dei cittadini quali “questioni di ordine pubblico”, come insegna il caso del terremoto a L’Aquila.

E’ evidente che Trump oggi sta strumentalizzando la resistenza alle vaccinazioni di alcuni cittadini e i dubbi sui cambiamenti climatici, fingendo di contrastare Big Pharma e oscurando le pagine dedicate ai temi ambientali nei siti governativi. E questo è inaccettabile. Ma, chiedono Saltelli e Funtowicz nell’articolo sopra citato, è sufficiente liquidare le posizioni critiche dicendo che il pubblico non comprende la complessità delle questioni scientifiche? Quando si analizza la saga dei vaccini, è importante per esempio non sottovalutare come i rapporti tra l'industria farmaceutica e le autorità sanitarie possano fornire argomenti agli anti-vax. E' importante insomma essere consapevoli del contesto se si vogliono contrastare posizioni insostenibili dal punto di vista scientifico.

Certo il vecchio argomento dell'incompetenza scientifica della popolazione conosce molti controesempi. Casi di disastri ambientali negli USA degli ultimi decenni, da Love Canal, a Flint, nel Michigan e Washington, DC, hanno visto un ruolo molto attivo dei residenti, in questioni complesse, che in molti casi hanno dovuto ricorrere a esperti indipendenti, per stabilire i fatti accaduti e le responsabilità. Analoghi esempi italiani possono essere Porto Marghera e Ilva di Taranto

Cosa è successo alla scienza?

Abbiamo già analizzato sulle pagine di questo sito le ragioni che hanno portato a una certa crisi parallela nella scienza, nella politica e nella società. Ma c’è un altro aspetto che Saltelli e Funtowicz mettono in evidenza nelle loro riflessioni, che si rifanno ad un’ampia letteratura che da anni analizza il cambiamento in atto nel mondo della produzione scientifica. E cioè il sospetto che le dimensioni oggi assunte dalla Big Science stiano distruggendo le comunità disciplinari della Little Science. “Nessun sistema quantitativo e formalizzato di controllo di qualità è in grado di sostituire il vecchio sistema informale di produzione di conoscenza. E allora, la risoluzione richiede il coinvolgimento di soggetti e istituzioni che si muovono al di fuori del sistema scientifico”.

Per il politologo Dan Sarewitz, la crisi della scienza è dovuta al suo impegno in ciò che egli chiama, mutuando il concetto di Alvin Weinberg, un’impresa "trans-scientifica", ossia in problemi che possono essere formulati scientificamente, ma non sono suscettibili di una soluzione scientifica con l’applicazione degli strumenti tipici di questo metodo. Alcuni problemi attuali legati alla riproducibilità negli esperimenti scientifici sarebbero connessi proprio al “tentativo di affrontare in maniera tradizionale tematiche trans-scientifiche, che esigerebbero altre soluzioni, e questo allo scopo di ottenere finanziamenti e salvaguardare le metriche nelle pubblicazioni”. Per Sarewitz, la scienza dà il meglio di sé quando è limitata da mandati chiari e controllati, per esempio, “al servizio di uno sviluppo tecnologico guidato dal mercato”. Eppure, chiedono Saltelli e Funtowicz, l'idea che "mercato" e "innovazione" mantengano la scienza integra pone la questione di “chi garantisce l’integrità di mercato e innovazione?”

Scienza e religione: diverse visioni del mondo

Nonostante le evidenti differenze, scienza e religione condividono il fatto che, come diceva Toulmin, entrambe funzionano come visioni del mondo. E proprio per questo, nonostante le loro “crisi esistenziali”, sia la religione sia la scienza continuano ad essere, dopo secoli, un’importante fonte di speranza per molti”. Una riflessione sulla crisi della Chiesa in passato può essere utile a comprendere quanto sta avvenendo nel mondo scientifico. Martin Lutero iniziò la sua Riforma come una reazione indignata alla corruzione generalizzata - economica ed intellettuale - all'interno della Chiesa. Il monaco Johann Tetzel, che vendeva le indulgenze in Germania intorno al 1517, era un esempio di tale corruzione. La crisi della scienza odierna rivela anche come la combinazione di corruzione, rabbia e nuovi media siano in grado di mobilitare grandi cambiamenti sociali.

“Riformare” la scienza, come auspicano gli autori, richiede una vasta mobilitazione democratica, che coinvolga scienziati di tutte le discipline, tecnici e cittadini, così come giornalisti e whistleblowers“. E’ già successo in altre epoche storiche che gli scienziati si siano mobilitati per la società, e succede ancora oggi. Ma questo presuppone reciproco ascolto e riconoscimento delle diverse prospettive.

Al momento, tuttavia, il progetto per una tale riforma sembra utopico, concludono gli autori. “Viviamo in un'epoca di crescente frammentazione, non di inclusione, in cui mettere in discussione il feticcio della verità oggettiva, rischia di suscitare accuse di relativismo post-moderno. Dobbiamo poter analizzare criticamente la co-evoluzione di scienza e potere a cui allude Macilwain. Oggi, qualsiasi cambiamento nella visione del mondo, scientifico o meno, deve anche riconsiderare l'attuale paradigma economico“.

Che fare?

Nessuno di questi cambiamenti strutturali è facile da realizzare, di questo gli autori sono consapevoli. Ma una cosa è certa: che la scienza dà il meglio di sé quando è esplicitamente “embedded”, cioè fortemente radicata nella società, contribuendo ad accrescere (e potenziare) i diritti di conoscenza di una “extended peer community”, vale a dire una comunità estesa di pari.

I cittadini hanno il diritto di essere coinvolti nei dibattiti sulle visioni e sulle politiche della scienza e di mettere in discussione i processi di governance che hanno determinato le tante crisi della società. Invece, in questo momento, sembrano essere solo chiamati a “difendere” la scienza dai suoi presunti nemici.1

1 L’articolo apparso su The Conversation, dal quale abbiamo tratto ampi stralci - col permesso degli autori - per la seconda parte del nostro pezzo.
 

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