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Open data e malattie emergenti

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La conoscenza medica e il senso comune hanno da sempre saputo che le malattie, e in particolare le epidemie, possono comparire improvvisamente in una popolazione, rimanervi per periodi più o meno lunghi ed eventualmente scomparire per riemergere una o più generazioni più tardi.
Trasportate dai battelli, dalle carovane o dagli eserciti, le fiammate epidemiche di malattie come la peste, il vaiolo, il tifo, l’influenza, la sifilide o la poliomielite colpivano città e campagne, decimavano le popolazioni e gli eserciti, cambiando spesso il corso della storia.
Nell’ignoranza delle cause specifiche di queste malattie, che saranno chiarite solo alla fine dell’Ottocento, gli unici metodi di lotta erano basati sulla prevenzione e l’isolamento per impedire la diffusione del contagio.
Per questo era essenziale condividere le informazioni sul “cammino delle pestilenze”, la frequenza e la distribuzione nello spazio e nel tempo delle epidemie, anche allo scopo di stabilire delle correlazioni con determinate situazioni ambientali o comportamentali, a livello individuale e collettivo. Nella pratica, tuttavia, ogni città o nazione aveva interesse a nascondere il diffondersi di gravi epidemie per paura che i blocchi sanitari impedissero i commerci e i viaggi. Solo nell’Ottocento con lo sviluppo delle relazioni internazionali e dell’igiene scientifica, lo scambio e la condivisione di informazioni diviene un obiettivo realizzabile grazie alla stipula di apposite convenzioni sanitarie internazionali e all’organizzazione di congressi e riunioni scientifiche.

In occasione della grande Esposizione Universale di Londra del 1851, organizzata nel monumentale Crystal Palace appositamente costruito a Hyde Park, le parole d’ordine ufficiali sono da un lato l’educazione e la collaborazione fra i popoli e dall’altra l’innovazione tecnologica, la presentazione di nuove macchine, lo sviluppo di accordi commerciali e scientifici internazionali. È l’inizio di un vasto movimento che vedrà nei decenni successivi l’organizzazione di diverse serie di congressi internazionali, dedicati alle varie discipline. Nel campo dell’igiene particolarmente importanti furono i congressi di Statistica e quelli di Demografia, dato che le politiche igieniche necessitavano di dati esaurienti sullo stato di salute e sulle condizioni di vita delle popolazioni.
Il primo Congresso internazionale di Igiene pubblica fu organizzato a Bruxelles nel 1851 e sempre a Bruxelles nel 1853 fu organizzata la prima Conferenza internazionale di Statistica, destinata principalmente alla messa a punto dei metodi da applicare nella raccolta dei dati, in modo da permettere confronti fra le diverse popolazioni e gli scambi di dati.

I postulati di Koch

Il primo Congresso internazionale di Igiene e di Demografia fu organizzato a Parigi nel 1878. È grazie alle decisioni prese in questo congresso che sarà creata la rivista Annales de demographie internationale (1877-1882), il cui scopo era rendere disponibili dati affidabili sulla demografia e igiene delle popolazioni. Dopo la rivoluzione pastoriana, una malattia infettiva (definita in precedenza grazie ai suoi sintomi o alle lesioni specifiche prodotte) diventa una patologia legata alla presenza di un agente vivente che può essere identificato solo in laboratorio: la presenza di un microorganismo specifico diventa la causa della malattia. È la base dei “postulati di Koch”, un insieme di regole procedurali secondo le quali a ogni occasione il microrganismo in questione deve poter essere isolato a partire da un tessuto malato, essere coltivato per dimostrarne la specificità, in condizioni controllate per evitare ogni contaminazione, e questa coltura deve riprodurre la stessa malattia una volta inoculata a un animale di laboratorio.
La microbiologia pastoriana associa il laboratorio ai luoghi classici dell’igiene, la popolazione e la clinica. L’insieme della società diventa il terreno di applicazione di nuovi metodi terapeutici e profilattici come la pastorizzazione, la disinfezione, la sieroterapia e la vaccinazione.
Lo sviluppo della Microbiologia produce così una rivoluzione al tempo stesso medico-scientifica e sociale: medica perché alla “dottrina dei germi” si associa rapidamente una tecnica di attenuazione della virulenza dei microorganismi patogeni, con il conseguente sviluppo della immunologia e della sieroterapia; sociale perché, grazie a un complesso processo che è stato definito di “medicalizzazione della società” , il rapporto medico-paziente-ambienti di vita e di lavoro viene reimpostato spostando l’accento dalla cura del singolo malato alla prevenzione delle malattie a livello sociale. La storia della lotta contro le epidemie è quindi marcata sin dall’inizio dalla necessità di raccogliere, conservare e trasmettere dati epidemiologici e di laboratorio da mettere a disposizione delle autorità di sanità pubblica allo scopo di rendere possibili efficaci politiche di prevenzione e di cura.
Questo obiettivo è divenuto ancora più urgente e indispensabile nel caso di malattie nuove o emergenti perché in questo contesto le conoscenze accumulate sono di necessità limitate, a causa della novità della patologia, e diviene di conseguenza indispensabile raccogliere e condividere tutte le informazioni epidemiologiche e di laboratorio disponibili. Il fenomeno delle malattie nuove o emergenti non è certamente nuovo in quanto tutte le grandi epidemie del passato al momento delle loro prime manifestazioni erano certamente malattie nuove, dovute o a un nuovo patogeno o più spesso al passaggio di un germe causale da un’altra popolazione o da un’altra specie.
Tuttavia, il fenomeno sembra essersi accentuato a partire dagli ultimi due decenni del ventesimo secolo, quando l’esperienza tragica della pandemia di AIDS ha suscitato il timore che altre forme di malattie infettive potessero emergere e provocare gravi pandemie.
Gli ambienti scientifici e le autorità di sanità pubblica, nazionali e internazionali, hanno rapidamente preso coscienza della possibilità concreta che nuove malattie potessero emergere.
Diverse conferenze all’inizio degli anni Novanta sono state organizzate sul tema dei “virus emergenti” e l’OMS ha creato una nuova divisione per lo sviluppo delle politiche necessarie a far fronte all’emergenza di nuove malattie. Una nuova rivista (Emerging Infectious Diseases) viene fondata nel gennaio del 1995 dal CDC (Centers for Disease Control and Prevention) di Atlanta e anche il grande pubblico sembra appassionarsi al tema come dimostra il grande successo, sempre nel 1995, del film Outbreak (Virus letale, nella versione italiana) che narra la storia di un’epidemia causata da un virus altamente patogeno introdotto accidentalmente in una piccola città della California e che mette in gioco il contrasto, tradizionale, fra un approccio militare e un approccio medico di fronte all’emergere di una nuova malattia contagiosa particolarmente grave.
Durante gli ultimi due decenni del XX secolo e nel primo decennio del XXI la lista delle malattie nuove non ha fatto che crescere, con una cadenza media di dieci nuove entità patologiche per anno, con un totale che attualmente raggiunge quota 500. Questo fenomeno è dovuto in parte all’affinamento dei metodi di indagine, che ha permesso di individuare malattie specifiche prima confuse con altre patologie, e in parte alla globalizzazione che ha favorito massicci movimenti di popolazione e di merci e anche il contatto con ambienti naturali prima non conosciuti, con la loro riserva di potenziali patogeni.

L’esempio storico della polio (1939-1965)

La necessità di una collaborazione internazionale basata sullo scambio di dati epidemiologici e di laboratorio si è chiaramente manifestata a partire dagli anni Quaranta del XX secolo, esattamente negli anni in cui è stata creata la prima organizzazione veramente internazionale di sanità, l’OMS, a causa dell’emergenza drammatica di un’epidemia di poliomielite, la cui vastità era certamente nuova anche se la malattia in quanto tale è certamente antica. La storia della pandemia di poliomielite è relativamente breve coprendo circa sette decadi, dai primi anni del ventesimo secolo all’inizio degli anni 1980 perché, anche se la polio continua a essere un serio problema di sanità pubblica in un numero limitato di Paesi in via di sviluppo, la malattia è quasi scomparsa altrove ed è sulla via di un’eradicazione globale. Le punte epidemiche si sono avute negli anni 1936-39 e poi nel 1953-58 in tutti i Paesi industrializzati, con una crescita esponenziale e un forte impatto sociale che trasformò la malattia in un “problema mondiale”.
In un rapido susseguirsi di eventi, l’espansione impressionante dell’epidemia fu contrastata e quindi bloccata grazie a un altrettanto impressionante serie di attività internazionali e innovazioni tecnologiche, con la rapida messa a punto e diffusione di vaccini e di tecniche efficaci di terapia e riabilitazione.
La trasformazione della “paralisi infantile”, una malattia relativamente rara, descritta clinicamente per la prima volta all’inizio dell’Ottocento, in “poliomielite epidemica” che toccava in modo drammatico molti Paesi sviluppati pose uno dei problemi di sanità pubblica più angosciosi. Ciò che era inquietante non era solo che la forma paralitica della polio diventava sempre più frequente e si estendeva in Paesi considerati indenni, dato che in ogni caso questa frequenza era (pressoché dappertutto) nettamente meno importante di altre malattie infettive, in particolare la tubercolosi.
Il problema era che non c’era alcun rimedio né apparentemente nessun metodo preventivo, a parte i metodi tradizionali di quarantena e isolamento dei malati, ma soprattutto che paradossalmente la malattia colpiva più duramente i Paesi in cui le misure igieniche contro la diffusione delle malattie infettive erano più efficaci e largamente applicate, come i paesi del Nord Europa e gli Stati Uniti.
Il fattore decisivo per la gravità della malattia era il cambiamento dei gruppi di età colpiti, in modo tale che per quanto riguarda la polio le misure di igiene, che allontanavano le fonti di infezione dai neonati e bambini piccoli, sembravano essere la causa diretta della nuova epidemia e della sua gravità. Nei Paesi che disponevano di buone condizioni igieniche, l’infezione era meno frequente ma la malattia più grave, dato che l’infezione provocava sintomi leggeri nei bambini e al tempo stesso li immunizzava, mentre la gravità delle conseguenze paralitiche aumentava con l’età e i più duramente colpiti erano i bambini più grandi, gli adolescenti e i giovani adulti.
Il “trionfo della società igienica”, il sogno dei grandi igienisti della fine dell’Ottocento, che per Adrien Proust, il padre di Marcel, avrebbe dovuto essere il punto d’arrivo del “nuovo orientamento della politica sanitaria” dopo la rivoluzione pastoriana, aveva certamente prodotto una diminuzione notevole della frequenza delle malattie infettive in molti Paesi ma al tempo stesso aveva creato le condizioni per una nuova malattia epidemica grave. Le prime reazioni all’aumento drammatico dell’epidemia erano state, come d’abitudine, le quarantene, la chiusura delle frontiere, l’isolamento stretto dei malati, l’interdizione delle riunioni pubbliche, compresi i cinema e le manifestazioni sportive, la forte restrizione degli spostamenti di persone.
I responsabili della sanità pubblica si resero tuttavia conto che queste misure erano in gran parte inefficaci ma venivano egualmente applicate con severità “nell’intento lodevole e ben fondato di calmare l’ansia della popolazione”, il che ovviamente pone un gran numero di problemi relativi alla comunicazione pubblica in una situazione di pandemia grave. Nel 1953, la terza Assemblea Mondiale della Sanità discusse il problema e sottolineò con forza la necessità di produrre e diffondere precise direttive internazionali relative alle misure da prendere per prevenire la propagazione della polio.
In questa occasione, fu creato un comitato internazionale di esperti che tenne la prima sessione a Roma, dal 14 al 19 settembre 1953, di seguito al primo Congresso internazionale di Microbiologia. Il primo rapporto del comitato, pubblicato dall’OMS nell’aprile 1954, indicava con chiarezza la necessità di mettere in piedi un “programma mondiale” di lotta contro l’epidemia, basato sulla raccolta e condivisione di dati accurati sulla diffusione epidemica, i fattori determinanti e i meccanismi di trasmissione della malattia.
Altro punto importante era l’invito a uno sforzo condiviso per mettere a punto misure terapeutiche e preventive (Expert Committee on Poliomyelitis 1954).
I risultati dell’azione internazionale contro l’epidemia di polio furono positivi, grazie in particolare alla costituzione di centri di ricerca internazionali per l’identificazione dei ceppi, la diffusione di informazioni epidemiologiche e la preparazione di vaccini efficaci. All’inizio degli anni Cinquanta venne creato, per iniziativa della American National Foundation for Infantile Paralysis, un comitato per l’elaborazione di nuovi metodi vaccinali antipoliomielitici, di cui facevano parte Jonas Salk e Albert Sabin, i due principali ricercatori in questo campo.
I vaccini che portano il nome di questi due medici furono prodotti e sperimentati a partire rispettivamente dal 1954 e 1955.
Nel 1962, solo dodici mesi dopo l’omologazione del vaccino orale (VPO) messo a punto da Sabin, fu realizzata a Cuba una massiccia campagna di vaccinazione sull’insieme del territorio e poco tempo dopo la trasmissione autoctona del virus fu interrotta. L’esempio fu rapidamente imitato da molti altri Paesi. In Italia venne prima adottato il vaccino Salk (IPV) nel 1957 e quando l’epidemia raggiunse il suo picco nel biennio ’59-’60 la vaccinazione venne raccomandata alle persone da 0 a 20 anni. Nel 1964 iniziò invece una campagna di vaccinazione di massa con il vaccino Sabin (VPO) e in pochi anni l’epidemia fu sotto controllo.
Gli ultimi due casi autoctoni si verificarono nel 1982 in due bambini non vaccinati e l’Italia poté essere dichiarata “polio free”. Raramente, se non mai, una nuova tecnologia sanitaria era stata applicata con tanto successo e in così poco tempo. Questo successo era stato in gran parte il risultato di un partenariato senza precedenti fra organizzazioni internazionali, organizzazioni umanitarie, settore privato e centri di ricerca con la creazione di “conoscenza aperta e condivisa” sulla malattia, le sue cause e i metodi di lotta contro di essa.

La SARS

Fra le molte malattie nuove comparse a partire dagli anni Ottanta del ventesimo secolo, molte delle quali hanno storie di grande interesse e diversità, un ruolo paradigmatico spetta a una malattia virale apparsa per la prima volta in Asia all’inizio del 2003, la SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) la cui storia, breve ma densa e piena di lezioni, rappresenta un esempio paradigmatico da una parte dei rischi connessi alle malattie emergenti e dall’altra all’importanza della collaborazione internazionale e del “data sharing”. Il 13 febbraio 2003 una breve notizia nel Weekly Epidemiological Record riporta la notizia di un’epidemia con 305 casi e 5 morti a causa di una sindrome respiratoria sconosciuta, nella provincia di Guangdong, in Cina.
Il ministero della sanità cinese minimizza la situazione, parlando di una polmonite atipica. Sino a quel momento si erano verificati piccoli gruppi di casi indipendenti e qualche caso sporadico ma, a partire dalla prima settimana di febbraio, l’andamento dell’epidemia pende dimensioni allarmanti Il 21 febbraio un medico di 65 anni, proveniente da Guangdong, arriva all’Hotel Metropole di Hong Kong occupando una camera al 9° piano. Prima della sua partenza aveva trattato dei malati di “polmonite atipica” e al suo arrivo mostra i sintomi della malattia. Come mostreranno successivamente le inchieste epidemiologiche, almeno dodici altri ospiti del 9° piano contraggono l’infezione. Il 28 febbraio il medico italiano Carlo Urbani, delegato dell’OMS in servizio in Vietnam, viene chiamato con urgenza all’ospedale francese di Hanoi per assistere un caso di polmonite atipica. Riconoscendo che la malattia era nuova e potenzialmente molto pericolosa, Urbani informa l’Ufficio Regionale dell’OMS chiedendo uno stato di allerta elevato, l’isolamento dei malati e la verifica di tutti i contatti. Dopo aver trattato diversi casi di Sars a Hanoi, l’11 marzo Urbani parte per partecipare a una conferenza sulle malattie tropicale a Bangkok. All’arrivo all’aeroporto riconosce di star male e chiede di essere prima isolato e poi ospedalizzato.
Morirà qualche giorno dopo, il 29 marzo, vittima della malattia che aveva scoperto. Si deve rendergli un giusto tributo per essere rimasto fedele al suo mandato in una situazione di grave pericolo, accettando i rischi di essere sempre accanto alle vittime. Come scriverà il New York Times annunciando la sua morte, a quanti gli suggerivano la prudenza rispondeva: “Se non posso lavorare in questi situazioni, cosa sto a fare qui? Per rispondere alle mail, andare ai cocktails e spostare carte?”. Il 15 marzo viene emesso dall’OMS un secondo messaggio di allerta. Qualche giorno dopo alcuni ospedali di Singapore e di Toronto segnalano pazienti con sintomi tipici della Sars.
La malattia aveva dunque preso l’aereo, spostandosi rapidamente su tre continenti (Asia, Australia, America del Nord). Fino a questo momento la causa è ancora sconosciuta. I casi sono concentrati fra il personale ospedaliero e i medicinali abitualmente utilizzati in caso di infezioni polmonari si dimostrano inefficaci.
Il 26 marzo l’OMS organizza la prima “tavola rotonda virtuale” sugli aspetti clinici e terapeutici della Sars. Questa “conferenza elettronica” riunisce 80 clinici di 13 Paesi e un sommario della discussione viene pubblicato sulla pagina dedicata alla Sars sul sito web dell’OMS. Allo stesso tempo, l’OMS chiede a 11 laboratori di eccellenza in nove Paesi di creare una rete di ricerca multicentrica sull’etiologia della Sars e per la messa a punto di un test diagnostico. La rete creata dall’OMS utilizza le nuove tecnologie della comunicazione (email e website sicurizzati) in modo da condividere rapidamente i dati clinici e i risultati dei test diagnostici.
Sui siti web i gruppi di ricerca condividono anche le immagini al microscopio elettronico dei virus, le sequenze del loro materiale genetico e campioni di vario tipo prelevati da pazienti o durante gli esami post-mortem. I campioni potevano in questo modo essere analizzati in parallelo da vari laboratori e i risultati condivisi in tempo reale. L’identificazione dell’agente causale della Sars e lo sviluppo di un test diagnostico vengono così ottenuti in solo poche settimane: il 21 marzo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) pubblicano la prima descrizione clinica della Sars e il 16 aprile l’OMS annuncia che la causa della malattia è un nuovo patogeno, un membro della famiglia dei coronavirus mai osservato in precedenza nelle popolazioni umane. Il 1° maggio due gruppi di ricerca pubblicano su Science la sequenza completa del genoma del virus Sars. Grazie ai dati epidemiologici, alle evidenze cliniche, al depistaggio dei contatti e ai dati virologici vengono introdotte in tutti i Paesi una serie di misure di controllo del tutto simili a quelle che per secoli avevano contrastato la diffusione della peste e di altre malattie contagiose.
Così, a Hong Kong, dopo alcuni casi verificatisi nel complesso residenziale di Amoy Gardens, tutti gli abitanti dei 10 immobili di 15 piani (circa 15.000 persone) sono poste in quarantena per tre settimane. A Singapore, dopo la scoperta di un certo numero di casi tra gli impiegati, un grande mercato viene chiuso e i dipendenti messi in quarantena a domicilio. I controlli ai porti e agli aeroporti vengono notevolmente rafforzati e tutte le persone con sintomi vengono poste in quarantena.
In questo modo la diffusione dell’epidemia viene bloccata. Il 5 luglio l’OMS dichiara la fine dell’epidemia di Sars , dato che l’ultima catena umana di trasmissione del virus era stata interrotta. L’azione mondiale contro la Sars è stata l’applicazione di una strategia messa a punto dall’OMS qualche anno prima per l’individuazione delle fiammate epidemiche e l’organizzazione di un intervento rapido, in gran parte come risposta alle inefficienze riscontrate nelle epidemie di febbre emorragica Ebola in Congo, nelle epidemie di peste in India e di colera in America Latina alla fine del ventesimo secolo.
Due strutture organizzate grazie alla cooperazione internazionale sono state particolarmente decisive per il controllo dell’epidemia di Sars. La prima è stata la Rete mondiale di allerta e azione in caso di epidemie pubblica, messa a punto in Canada e utilizzata dall’OMS sin dal 1997, con lo scopo di ricercare sistematicamente nelle pubblicazioni e nei siti Internet gli indici di fiammate epidemiche, sulla base di un insieme molto ristretto di parole chiave . Durante l’epidemia di Sars questa rete ha raccolto informazioni recenti e sicure sulla propagazione dell’epidemia in zone ancora indenni.
La seconda struttura che si è dimostrata particolarmente utile è stata la Rete OMS di circa 110 laboratori situati in un’ottantina di Paesi che scambiano informazioni per le autorità sanitarie e i produttori di vaccini sui ceppi virali in circolazione, specialmente il virus dell’influenza, in modo da poter ogni anno fabbricare un vaccino efficace. Il successo ottenuto nell’azione contro la diffusione della Sars è stata un’importante lezione per le strategie nazionali e internazionali da seguire in caso di malattie emergenti. 

È infatti risultato indispensabile comunicare rapidamente e in modo trasparente ogni caso di malattia capace di propagarsi a livello internazionale, senza tentativi di dissimulare dei casi per paura di ripercussioni sociali ed economiche. Prima della globalizzazione, la malattia avrebbe causato qualche caso sporadico e isolato, senza alcuna conseguenza grave al di fuori del suo contesto geografico limitato. La Sars è stata una vera “epidemia della globalizzazione” che ha utilizzato la rapidità dei mezzi di trasporto e la mobilità delle popolazioni come mezzo di diffusione.
La malattia è stata battuta grazie alla combinazione, in qualche modo paradossale, dei metodi sanitari più antichi e delle più moderne tecnologiche biomediche e informatiche, in particolare il “data sharing”. La breve storia della Sars dimostra drammaticamente il rischio globale rappresentato dall’emergenza di nuove malattie ma al tempo stesso ha mostrato in maniera evidente il ruolo essenziale svolto dalla raccolta, messa a disposizione e diffusione degli open data. La questione fondamentale che si pone deriva dall’ineguaglianza nella distribuzione delle risorse tecnologiche, finanziarie e umane. Se i germi passano senza problemi attraverso tutte le frontiere, sociali e geografiche, le risorse (comprese le conoscenze scientifiche e tecnologiche) sono bloccate alle frontiere fra Paesi ricchi e poveri.

Il paradosso è che tali risorse sono minime proprio nelle regioni in cui il rischio di emergenza di nuove patologie è massimo. Solo un “governo mondiale della salute”, come preconizzato dai fondatori dell’OMS, caratterizzato da una molteplicità di iniziative e di attori, ben coordinati fra loro in assoluta trasparenza e dotati delle necessarie risorse finanziarie e intellettuali, è la chiave per rispondere adeguatamente alla sfida rappresentata dalle malattie emergenti.

BERNANDINO FANTINI

Tratto da Scienza & società - Open Science Open Data


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