“Distanti ma uniti” è un refrain delle settimane di quarantena che avrebbe potuto infastidire parecchio Einstein, che non è mai riuscito a mandare giù l'idea dell'entaglement quantistico.
“Distanti ma uniti”. Poche cose avrebbero potuto infastidire Albert Einstein quanto il refrain consolatorio delle settimane di questa dannata quarantena. Oltre a essere un incoraggiamento, “Distanti ma uniti” potrebbe infatti benissimo essere il payoff di uno dei brand più affascinanti della fisica quantistica, disciplina verso cui lo scienziato nutrì un complesso “odi et amo”.
Battezzato sotto il nome di entanglemet da Erwin Schrodinger, Nobel nel 1933 per i suoi fondamentali contributi alla rivoluzionaria meccanica che avrebbe mandato al manicomio molti newtoniani, l’ipotesi di un intreccio in grado di tenere unite due particelle anche a miliardi di anni luce di distanza è una di quelle congetture che Einstein non è mai riuscito a mandar giù. Si tratta di un’idea così scandalosa da inquietare persino chi, come lui, tempo e spazio li ha completamente rivoluzionati.
Se sono qua non posso essere là
Se tra due particelle c’è di mezzo l’universo e ciononostante riescono a comportarsi come se fossero unite, il tempo e lo spazio non sono né assoluti e né relativi. Tempo e spazio non sono più e basta. Pensateci un po’, se per qualche strana ragione venissimo a scoprire che esiste una forza in grado di garantire effetti istantanei su oggetti distanti miliardi di chilometri, che senso avrebbe parlare di distanza? Non solo, se due particelle potessero agire come se fossero una verrebbe meno anche il principio di località, quel fenomeno per cui se io sono qui non posso essere al tempo stesso anche da un’altra parte. Un gran bel casino.
Due oggetti, pensa Einstein, devono invece essere sempre distinguibil: particelle che si trovano agli estremi dell’universo non possono essere immediatamente connesse. Se lo sono, devono esserci dei punti intermedi a dare corpo alla connessione. Due particelle distanti non possono essere unite. L’entanglement non è ammissibile. Secondo lui queste spooky action at a distance, “inquietanti azioni a distanza”, non possono avere cittadinanza nell’universo. Le esperienze della fisica quantistica avrebbero invece dimostrato il contrario. La cosa interessante tuttavia non è questa, non è l’“errore” di Einstein, la cosa interessante è il fatto che a instillare questa inquietudine nel cuore delle cose è stato proprio lui, Einstein.
Come funziona la luce?
Insieme a molte altri misteri, agli inizi del ‘900 Einstein vuol capire come funziona la luce, com’è fatta e come si propaga. Aristotele, Newton, Thomas Young, fino ad allora gli scienziati si erano sostanzialmente divisi un due fazioni, c’era chi sosteneva che la luce fosse da considerarsi un fascio continuo che si propaga nello spazio come un’onda, e c’era invece chi la considerava composta da particelle piccolissime. Einstein (al tempo impiegato all’Ufficio Brevetti di Berna) ha di fronte a sé due strade per poter rispondere alla sua domanda: la teoria ondulatoria e quella corpuscolare. Come risolve il problema? A modo suo: le sceglie entrambe.
Nell’anno mirabile 1905 propone di interpretare la luce come onde distribuite in “pacchetti di energia”, i quanti di luce. Scontentando in un sol colpo atomisti e fautori della teoria dei campi, propone una teoria ibrida secondo cui la luce è al tempo stesso un’onda e una particella. Esisterebbe quindi in natura qualcosa che si può descrivere contemporaneamente come granulare e fluida, discreta e continua. Impossibile da capire ma fatto sta che funziona. Probabilmente senza nemmeno volerlo, Einstein inaugura la meccanica quantistica. Secondo questa nuova dimensione del sapere, nel micromondo delle particelle non eserciterebbero più la loro sovranità le leggi newtoniane della fisica classica, quelle che funzionano nel nostro mondo, ma altre leggi. Oggi molte di quelle intuizioni le abbiamo messe in pratica: tecnologie come i laser, i microscopi elettronici, la risonanza magnetica e gran parte delle tecnologie informatiche si basano sulla fisica quantistica. L’idea dei quanti di luce, insomma, funziona. Tutto risolto? Per niente.
L’Universo non locale
Se da un lato questo nuovo modo di interpretare la natura avrebbe trovato sempre più riscontri sperimentali, dall’altro insinuava il principio più anarchico con cui la scienza avesse mai sognato di dover fare i conti, il principio di “non località”. Cosa significa? Detto in poche parole significa che un oggetto può al tempo stesso essere qui e là e che una medesima forza può esercitarsi istantaneamente in un luogo e in un altro. Vuol dire che due corpi possono essere “distanti ma uniti” e possono esserlo al di la di ogni metafora. Significa che la località, il fatto che io sono qui in questo momento, è una specie di illusione ottica e che lo spazio così come lo intendiamo non esiste. E questo a Einstein, che pure lo spazio lo ha riformulato, non stava per niente bene.
Lo spazio, pensava Einstein, esiste e ogni punto nello spazio ha una sua realtà oggettiva, così come ogni influsso può esercitare la sua forza su un oggetto solo attraverso dei punti intermedi. Se A è qui e B è lì, una qualsiasi forza che da A arriva a B dovrà esercitarsi attraverso i punti che distanziano A e B altrimenti vorrà dire che A e B sono la stessa cosa. Insomma, il teletrasporto non è possibile. “Nessuna definizione ragionevole di realtà può permettere qualcosa del genere”, scrive Einstein in un famoso articolo pubblicato nel 1935 insieme a due giovani allievi, Nathan Roser e Boris Podolsky, “Can Quantum-Mechanical Description of Physical Reality Be Considered Complete?”.
A colpi di paradossi
Per consentire certe assurdità la meccanica quantistica doveva essere incompleta. Pur di dimostrarlo Einstein ci perse il sonno, eppure di cose su cui ragionare uno come lui ne aveva. In “Inquietanti azioni a distanza”, il bel libro in cui George Musser racconta quello che a tutt’oggi è uno dei più affascinanti misteri della fisica, lo scrittore americano fa notare che, resosi conto del rischio di dover fare i conti con una natura non locale, Einstein è così turbato che decide di prendersi una pausa e in quella pausa, così per distrarsi, inventa la teoria della relatività generale. “È come prendere una pausa in Medio Oriente per inventare una cura contro il cancro”. Toltosi di mezzo il pensiero della relatività generale, torna al problema. Formula paradossi, esempi, controdeduzioni, le pensa tutte pur di neutralizzare la carica esplosiva dell’entlangement.
Nel 1909, per esempio, porta a conseguenze estreme l’idea secondo cui una particella può comportarsi come un’onda. Cosa fa un’onda? Proprio come un’onda del mare, l’onda che descrive una particella tende ad allargarsi diventando una sorta di bolla sempre più grande fino a che, urtando qualcosa, finirà per scoppiare. Fuor di metafora, un atomo che emette luce come un’onda espande energia verso l’esterno formando una sfera. Quando questa sfera urta con un altro atomo finisce per collassare. Attenzione, ora arriva il paradosso. La bolla che descrive il comportamento del fascio di luce (l’onda) potrebbe arrivare a coprire spazi vastissimi prima di scoppiare e, se questo è vero, come potrebbe l’energia distribuita su tutta la bolla a concentrarsi in un solo istante nel punto dello scoppio? Dovrebbe poter agire una forza in grado di annullare le distanze e di comunicare in modo istantaneo a tutta l’energia distribuita nello spazio descritto dall’onda di andare a collassare proprio lì e non altrove. Assurdo.
Ovunque e in nessun luogo
E invece no. Immaginiamo di proiettare un fascio di luce contro una tenda con un piccolo buco. Quel che vedremo sul muro dietro la tenda è una piccola macchia di luce. Ora (con buona pace della tenda) immaginiamo di praticare un altro foro poco più grande del primo. Cosa ci aspetteremmo di vedere? Secondo la teoria corpuscolare e anche secondo il buon senso ci aspetteremmo di vedere due macchie di luce. E invece no, vediamo una specie di quadro zebrato a bande chiare e scure. Come mai? Si tratta di un comportamento perfettamente spiegabile solo se la luce, invece che come un corpo, si comporta come un’onda. Le onde che attraversano i due buchi si sovrappongono e finiscono con rinforzarsi o annullarsi a vicenda: le strisce scure riflettono i punti in cui si sono incrociate le gole delle onde, le strisce più chiare riflettono i punti in cui si incrociano le creste delle due onde (qui sotto, un video brevissimo e molto bello sul fenomeno dell’interferenza).
Per tornare al paradosso di Einstein, questo vuol dire che ogni singola particella di luce passa contemporaneamente attraverso tutte e due i fori. Ogni singolo elettrone, prima di collassare sul muro, potrebbe trovarsi in ogni altro punto dello spazio. Se siete meravigliati o basiti, o magari tutte e due, fate bene a esserlo. Non a caso John Earman ha descritto il fenomeno del collasso d’onda come un “miracolo”.
Meccanica quantistica per le masse
Oggi le correlazioni quantistiche tra particelle sono alla portata di tutti, o quasi. C’è per esempio un fisico americano, si chiama Enrique Galvez, che ha preso molto sul serio la divulgazione scientifica e in nome della “meccanica quantistica per le masse” ha messo su una sorta di manuale per appassionati con le istruzioni utili ad assemblare in garage un piccolo laboratorio quantistico. Il manuale “Correlated-photon experiments for teaching undergraduate quantum mechanics” è sulla sua pagina di Researchgate, liberamente scaricabile qui. Galvez ha pensato a tutto, il suo apparecchio permette anche di controllare il lancio del laser e di scegliere se sparare fotoni “normali” oppure fotoni quantisticamente correlati. Ed ecco il punto: fino a che i fotoni vengono lanciati in modo da rimanere normali, il tasso di probabilità che diano lo stesso valore è quello che ci si aspetta dalla statistica, circa un quarto dei lanci. Ma non appena il sistema comincia a generare particelle quantisticamente correlate, il tasso di coincidenze si impenna: i fotoni danno sempre lo stesso valore. Sarebbe come avere una macchina in grado di lanciare una moneta a Pechino e una a New York in modo tale che quando una dà testa l’altra dà sempre croce. Sempre. (E viceversa, come direbbe Gabbani).
L’entanglement esiste. Nonostante i reiterati tentativi di sconfessare gli effetti della sua stessa intuizione, Einstein non è riuscito a salvaguardare la natura dall’eresia della non località. Il concetto di spazio potrebbe essere vetusto. “Invece di pensare alla non località quantistica come a un effetto che agisce nello spazio – commenta George Messer – a mio avviso dovremmo considerarla come un segnale del fatto che il concetto di spazio in sé è superato”. Distanti ma uniti? Si può.