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Detriti spaziali: chi non ha testa abbia gambe!

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"Chi non ha testa abbia gambe!” È un proverbio che era molto citato dalla mia insegnante di matematica del liceo. Lo usava per sottolineare una nostra mancanza di ragionamento o di attenzione che portava inevitabilmente a un lavoro, e quindi a una fatica suppletiva che sarebbe stato possibile evitare. Il fatto che lo andasse ripetendo di anno in anno, sempre a ragione, e a turno a praticamente tutti i suoi allievi, dimostra quanto il concetto, nonostante appaia semplice e ovvio, fosse ostico da imparare.
E credo che lo sia tuttora e un po’ per tutti, ragazzi e adulti. Probabilmente gioca, nel “non avere testa”, più che una mancanza di ragionamento una sorta di pigrizia, di miopia mentale, che ci porta a non voler affrontare una situazione nella maniera corretta, cercando invece scorciatoie, anche economiche.

È molto comune essere insensibili al “rischio differito”, cioè al non dar peso a un determinato comportamento, comodo e apparentemente conveniente nel momento in cui lo si assume, che però ci potrà quasi sicuramente danneggiare in un futuro più o meno remoto. Se così non fosse non fumeremmo, non prenderemmo contravvenzioni per eccesso di velocità, non avremmo abitudini alimentari riprovevoli ma saremmo più saggi: avremmo “testa”.
Sono invece molte le occasioni in cui continuiamo a non averla, pur consapevoli che inevitabilmente arriverà il momento in cui dovremo avere gambe.
Con l’aggravante che spesso le gambe che dovranno intervenire saranno quelle della generazione successiva.

È quanto è successo con la produzione e la gestione di una grande varietà di rifiuti che inquinano e minacciano l’integrità dell’ambiente e di molte nostre attività. E così, dopo aver a lungo “sporcato” senza curarci troppo delle conseguenze, queste hanno incominciato a farsi sentire costringendoci a modificare le cattive abitudini e a rimediare – quando possibile – ai danni fatti: a “ripulire”. E se, giusto per fare un paio di esempi, ripulire l’Everest da circa cinquanta tonnellate di spazzatura lasciate dagli scalatori mediamente ogni anno è impresa vicina a soluzione, e diverse iniziative sono state avviate per ripulire il Great Pacific Garbage Patch (una quantità sterminata di plastica fotodegradata in minuscoli pezzetti che si è concentrata per via delle correnti marine in una ben precisa zona dell’Oceano Pacifico settentrionale, grande – è una stima – molto più di un milione di chilometri quadrati), ben più complessa e costosa sarà l’operazione di ripulitura da migliaia di detriti spaziali in orbita intorno alla Terra.
E dire che nello spazio abbiamo imparato ad andarci solo da poco più di mezzo secolo. In questo breve periodo, tuttavia, sono stati circa 5000 i satelliti messi in orbita con successo e nel farlo non abbiamo prestato sufficiente attenzione a non “sporcare”, direttamente o indirettamente, il nuovo ambiente che andavamo a occupare.

Lo spazio che circonda la Terra è infatti molto più contaminato di quanto crediamo. Si stima che vi siano in orbita circa mezzo milione di oggetti di dimensioni comprese tra 1 e 10 centimetri (quelli sotto al centimetro sono probabilmente più di 100 milioni). Quelli più grandi di 5 cm, circa 17 mila, vengono continuamente monitorati da terra. Di questi, meno del 5% è costituito da satelliti operativi, il resto – a parte molti satelliti interi ma ormai inerti, resti di propulsori e componenti varie – sono soprattutto frammenti prodottisi in oltre 250 esplosioni o collisioni avvenute in orbita; 2000 hanno dimensioni superiori al metro. Il grosso dei detriti spaziali si addensa nelle cosiddette “orbite basse” tra circa 400 e 2000 km di altezza dalla superficie terrestre, privilegiando quelle polari. Solo gli astronomi puntano i loro sensori verso le profondità del cosmo, i satelliti commerciali per le telecomunicazioni, quelli meteorologici e per il monitoraggio dell’ambiente e quelli militari sono tutti programmati per guardare all’ingiù. E le orbite polari, o quasi polari, sono proprio quelle che permettono di sorvolare periodicamente tutte le regioni della Terra.

Una collisione con un detrito di 10 cm che viaggia a velocità dell’ordine dei 20.000 km/h produce effetti catastrofici e una moltitudine di altri detriti il cui successivo urto con satelliti operativi o dismessi (ma ancora orbitanti) è altrettanto devastante. Per non parlare dell’urto tra grandi satelliti ancora integri. Ma quanto sono probabili queste collisioni?

Troppo, se si tiene conto della posta in gioco: la distruzione di apparecchiature costosissime e difficilmente rimpiazzabili e i rischi per la vita degli astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale o in viaggio.
Nel 2009 per la prima volta si è verificata la collisione, a circa 800 chilometri d’altezza, tra due grossi satelliti ancora integri: Cosmos 2251 (spento da tempo) e un satellite (attivo) della flotta Iridium per le telecomunicazioni (v. “le Stelle” n. 72, pp. 28-30). Il risultato della collisione, avvenuta a oltre 40.000 km/h, è stata la disintegrazione di entrambi i satelliti in circa 2000 pezzi, una quantità di detriti seconda per numero solo a quelli prodotti dalla collisione – volontaria questa volta – avvenuta due anni prima in un test di distruzione satellitare condotto dai cinesi a spese del loro satellite meteorologico Fengyun 1C, non più operativo. Quel test da guerre stellari produsse circa 3000 detriti spaziali. Si pensa che proprio uno dei pezzi generati in quell’urto abbia colliso, nel gennaio di quest’anno, con un piccolo satellite russo operativo (BLITS, di fatto un piccolo specchio per telemetria laser di precisione da terra) danneggiandolo e mettendolo fuori uso.

Nel 2012, un piccolo pezzo del Cosmos 2251 è invece passato sufficientemente vicino alla Stazione Spaziale Internazionale da consigliare di trasferire i sei occupanti 
della ISS nelle due Soyuz a lei attraccate. In diverse altre occasioni, quando la probabilità d’impatto superava la soglia di sicurezza fissata dalla NASA, la ISS ha invece modificato la propria orbita per allontanarsi dalla traiettoria del detrito. Circa ogni settimana una decina di detriti si avvicina oltre il livello di guardia (2 km) da un satellite operativo e le agenzie spaziali devono intervenire manovrando i satelliti in modo da evitare collisioni. Nel 2008 furono evitate una serie di collisioni (ad Aura, Cloudsat, ISS, TDRS 5 e Parasol) a seguito di altrettante manovre. L’anno successivo le manovre furono nove di cui due per la ISS, una per lo Space Shuttle e le altre sei per altrettanti satelliti.

Queste operazioni tuttavia possono essere condotte solamente sui satelliti ancora in funzione e dunque solo per una piccola percentuale degli oggetti orbitanti monitorati. La maggior parte delle collisioni è pertanto inevitabile.

Si genera quindi un perverso effetto moltiplicativo che, anche in assenza di nuovi lanci e dell’immissione in orbita di nuovi satelliti, fa aumentare continuamente il numero di detriti e, di conseguenza, la probabilità di ulteriori collisioni che ne produrranno altri. Questo in quanto, almeno nelle orbite basse, è già stata superata la densità critica, il punto di non ritorno.
Tra le conclusioni raggiunte alla sesta conferenza europea sui detriti spaziali tenutasi presso lo European Space Operation Center di Darmstadt (Germania) nell’aprile del 2013 si legge che in assenza di interventi attivi di rimozione, la probabilità di collisioni continuerà ad aumentare nel tempo e prima della fine del prossimo secolo sarà 25 volte superiore a quella attuale.
Il tasso “naturale” di eliminazione dei detriti per rientro e disintegrazione atmosferica è infatti di gran lunga inferiore a quello con cui i nuovi detriti vengono prodotti. Gli oggetti in orbite più basse di 600 km normalmente rientrano e bruciano nell’atmosfera nel giro di alcuni anni ma già ad una altitudine di 800 km la permanenza in orbita si misura in decine di anni e al di sopra dei 1000 km in secoli o più. Non solo quindi è necessario che i nuovi satelliti siano costruiti in maniera tale da rimanere integri per lungo tempo dopo aver cessato le operazioni (senza riserve di combustibili o batterie cariche che possano accidentalmente esplodere) e dotati della possibilità di essere manovrati e portati in orbite sufficientemente basse da garantire il loro rientro a terra, ma è anche necessario intraprendere misure attive per la rimozione dei satelliti non più operativi, dando priorità alla “ripulitura” delle orbite con più alta probabilità di collisione, ai satelliti di maggiori dimensioni e a quelli che hanno una permanenza prevista nello spazio più lunga.

Si stima che per invertire la tendenza all’aumento del numero di detriti saranno necessarie da tre a dieci missioni di “rimozione” all’anno. Il problema non è semplice e sono allo studio diverse ipotesi che contemplano bracci meccanici o reti per ancorare il satellite da rimuovere e trainarlo in un’orbita sufficientemente bassa; cannoni ionici per imprimergli sufficiente momento e modificargli l’orbita nella maniera desiderata; vele spaziali orientabili da ancorare al satellite per aumentare il suo attrito con l’atmosfera residua e accelerarne il rientro o addirittura per “guidarlo” (v. “le Stelle” n. 117, pp. 10-11).

A chi volesse approfondire l’argomento dei detriti spaziali segnalo una pubblicazione trimestrale della NASA (Orbital Debris Quarterly News) disponibile gratuitamente in rete.

Tratto da Le Stelle n° 122, settembre 2013


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