Il Governo ha preparato un decreto in materia di fonti energetiche rinnovabili che modifica il precedente sistema degli incentivi. Viene indicato un dimezzamento degli attuali livelli a partire dall’anno prossimo con un carico sulle bollette degli utenti, che dovrebbe passare dagli attuali sei miliardi di euro all’anno, a tre miliardi a partire dall’anno prossimo.
Di queste intenzioni del Governo c’era stato alcune settimane fa un “avviso” attraverso una riflessione critica del ministro Corrado Clini; sembrava, da quelle pur parziali dichiarazioni, che fosse sotto accusa un sistema che incentivava la produzione del kwh rinnovabile ma non la capacita di produrre le relative tecnologie con un risultato finale di appesantire una bilancia commerciale - già messa male – con un deficit per l’acquisto di questi apparati che attualmente, solo per quanto riguarda il fotovoltaico, supera i dieci miliardi di euro. Non solo, ma con tali cifre si sono finanziate le capacità di ricerca e tecnologiche dei paesi fornitori rappresentati, in sostanza, dalla Cina e dalla Germania, senza nemmeno un euro per sviluppare una capacità nazionale.
Era quindi lecito aspettarsi che questa revisione modificasse un intervento che aveva ben pochi meriti, se non quello di assicurare rendite tali, secondo la battuta del ministro Clini riportata dal Corriere della Sera, da ”…far invidia ad uno spacciatore di droga”. E sembrava del tutto evidente che il cambiamento dovesse riguardare non certo la chiusura o la riduzione del ruolo delle fonti energetiche rinnovabili, ma la creazione di una capacità di ricerca, sviluppo e innovazione delle relative tecnologie. Una modifica in questa direzione avrebbe rappresentato non solo una diversa e più produttiva allocazione di risorse economiche importanti, ma avrebbe dimostrato l’esistenza di una riflessione in materia di strategie di sviluppo, di capacità di coniugare in queste strategie, la società della conoscenza e la qualità dello sviluppo e con la comprensione del fatto che nello specifico di queste tecnologie la loro competitività è una vicenda ancora in fieri e lo sarà ancora per anni in relazioni a margini esistenti in materia di ricerca e di innovazione tecnologica, anche di natura radicale.
Di tutto questo non c’è nemmeno una traccia nel decreto in questione. In quel testo si potrebbe ritrovare la presenza del ministro dell’Agricoltura e del ministro dell’Ambiente. Il ministro della Ricerca e dell’Università non era nemmeno presente, e già questo è significativo, ma non c’è traccia nemmeno del ministro dello Sviluppo che, stando sempre al Corriere della Sera del 12 aprile, avrebbe commentato il tutto affermando che “abbiamo avuto un sistema molto generoso rispetto ad altri paesi e vogliamo che i nostri incentivi restino superiori, ma non cosi incredibilmente superiori.” Francamente non era necessario un ministro dello sviluppo per arrivare a queste conclusioni. Sempre più frequentemente viene richiamata anche da esponenti del Governo, la necessità e l’urgenza di una politica per la crescita e, nonostante queste dichiarazioni, sempre più si allargano le perplessità sulle capacità di trovare conferme nelle iniziative del Governo.
Questa era un’occasione che più facile non si poteva nemmeno immaginare e l’avere perso il treno non può essere considerato come una distrazione ma piuttosto la traduzione di una convinzione in materia di politica economica e culturale dove prevale l’attesa per la mano invisibile. Invisibile come il nostro sviluppo e come le risorse per la nostra ricerca pubblica.