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I primi cinquant'anni di AdA

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AdA. “Anello di Accumulazione”: questo acronimo compare 51 anni fa nei
Laboratori Nazionali di Frascati (ora dell’INFN) come idea per superare i
limiti degli acceleratori esistenti e produrre reazioni in cui si spende
molta energia per traformarla in particelle nuove. In un seminario, Bruno
Touschek, un collega austriaco di eccezionale creatività, importato da un
lungimirante Edoardo Amaldi all’università di Roma dopo una vita
travagliata dalla guerra e dall’antisemitismo, lancia l‘idea di accelerare
elettroni contro antielettroni (positroni, per sottolineare la carica
elettrica positiva) e di produrre così particelle create nel vuoto
dall’altissima densità dell’energia di annichilazione. Una scommessa ai
limiti del credibile nel 1960; ma, contro l’incredulità di molti, ci
proviamo e ci riusciamo, accumulando fasci di elettroni e positroni in un
piccolo anello magnetico, prototipo di quelli che verranno. E’ AdA, che
incomincia a dare segni di fattibilità nel 1961: è un esperimento più che
una macchina. Ma apre la strada alle macchine “professionali” che
piacciono agli ingegneri: ACO a Orsay (Parigi), VEPP 2 a Novosibirsk e poi
Adone a Frascati, Spear a Stanford, Doris ad Hamburg, ecc. ecc. fino al
LEP di Ginevra. Anelli ovunque e tecnologie di primo ordine, nonché
risultati sulla “eccitabilità del vuoto” come diceva Touschek quando
eravamo in quattro (per raddoppiare di lì a poco con altri frascatani e
con i francesi di Orsay). AdA ha accumulato per ore elettroni e positroni
in un vuoto prodigioso che i Laboratori di Frascati avevano imparato a
ottenere con pompe fatte in casa. Se mai l’Italia ha avuto il bene e il
piacere di mostrare che “volendo per buoni motivi, si può fare”, è stato
nel 1961; quando i capi, Edoardo Amaldi, Giorgio Salvini e Felice Ippolito
avevano il coraggio di fidarsi dei giovani e dare loro sostegno e mezzi
per affrontare il nuovo snza precedenti. Non è nostalgia, è il senso di
privazione che si vive oggi, “indignados” da altri modi di godere la vita.




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La Valle dei dinosauri ritrovata nel Parco dello Stelvio

parete di roccia

Nel cuore delle Alpi, a 2500 metri di quota, si conserva la memoria di un mondo perduto. Pareti quasi verticali di Dolomia Principale, un tipo di roccia sedimentaria, custodiscono migliaia di impronte lasciate 210 milioni di anni fa da dinosauri erbivori che camminavano lungo le rive di un mare tropicale ormai scomparso. Una scoperta eccezionale, avvenuta nel Parco Nazionale dello Stelvio, che apre una finestra senza precedenti sul Triassico europeo e sulla vita sociale dei primi grandi dinosauri.

Prima della formazione delle Alpi, qui esisteva un paesaggio incredibilmente differente. Immaginate una distesa tropicale pianeggiante, lambita dalle acque di un oceano poco profondo e ormai scomparso che oggi chiamiamo Tetide, con un clima che non aveva nulla a che vedere con le vette gelide di oggi. Proprio in questo luogo tanto diverso dall’attualità, 210 milioni di anni fa, il fango soffice ha registrato il passaggio di svariati giganti: si trattava di prosauropodi, dinosauri erbivori dal collo lungo, che si muovevano in branchi lungo le rive di un'antica piattaforma carbonatica.