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Il malato immaginato

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Il malato immaginato di Marco Bobbio (Einaudi, 2010, pagg. 150, euro 18,00) è un libro bellissimo, lo si dovrebbe leggere e commentare nelle scuole di medicina un po' per volta, soffermandosi sugli argomenti più controversi e su quelli paradossali. Così i ragazzi saprebbero dei malati (donne soprattutto) che fanno esami ogni settimana, illudendosi di poter cogliere avvisaglie di malattie prima che si manifestino e che se non gli prescrivi certi esami cambiano medico. Sei disarmato di fronte a quei malati lì, per quanto tu sappia spiegare.

E saprebbero delle leggi crudeli del mercato. Con la scusa che l’industria per investire deve prima aver guadagnato, non basta dare i farmaci a chi è davvero malato, bisogna cominciare a curare anche chi è appena un po’ malato e che guarirebbe da solo: se chiamo depressi quelli che sono appena un po’ giù magari con delle buone ragioni, il mercato degli antidepressivi aumenta, se continuo ad abbassare i valori "normali" di colesterolo o di pressione arteriosa ci saranno più malati e venderò più farmaci.

E anche chi forse si ammalerà. Chi ha fattori di rischio per esempio. Ma quanti sanno che fattore di rischio qualifica un grado di probabilità? Che non ha niente a che vedere con il fatto che ci si ammalerà per forza. Gli studenti dovrebbero leggere Bobbio per sapere che - poiché chi muore, muore soprattutto di infarto o di tumore - fare tutto quello che si può fare per ridurre le probabilità di avere un infarto, vuol dire aumentare quelle di morire di tumore. Ed è vero naturalmente anche il contrario.

E poi il rischio non si manifesta nel vuoto, dipende da molti fattori. Dipende da che vita uno fa, e da cosa comporta l'impegno per ridurre quel rischio rispetto a tutto il resto. E poi, chi lo sa l'effetto di trattamenti mediamente efficaci sul singolo individuo? Informazioni così nella letteratura medica quasi non ce n'è. Facciamo studi su tanti ammalati e per pubblicarli bene servono migliaia di soggetti, ma poi curiamo un ammalato per volta e ci facciamo guidare dall'evidenza degli studi. E' la medicina dell'evidenza: ma attenzione, fa notare Bobbio, le "ricerche cliniche sono prevalentemente finanziate, organizzate e condotte dall'industria", che così decide per cosa c'è evidenza di efficacia e per cosa no. La medicina dell'evidenza così com’è oggi è meglio che niente, ma ha tanti limiti e comunque, fa notare l'autore riferendosi a un lavoro del 2003 su un giornale che valuta i risultati della ricerca nella pratica clinica, non ci sono dati che dimostrino che la medicina dell'evidenza aiuti a fare diagnosi più precise e a dare cure più efficaci rispetto all'approccio più tradizionale. Insomma in medicina il nuovo non è sempre meglio. Nemmeno nel campo dei farmaci. Uno studio di qualche anno fa ha dimostrato che i diuretici (vecchi farmaci che costano pochissimo) sono meglio dei farmaci più moderni e costosi nel proteggere dai danni della pressione alta.

Leggere Bobbio servirà agli studenti per capire che ridurre il rischio di infarto con un certo farmaco del 34 percento rispetto al placebo in 5 anni può voler dire dover trattare 71 pazienti per evitare un evento: vale la pena ?

Cosa vuol dire che un certo farmaco preso per tre anni riduce del 90 percento il rischio di morire di una certa malattia? Per esempio che su 10.000 che prendono un placebo ne muoiono 10 e che col certo farmaco sempre su 10.000 ne muore solo uno, ma intanto 9.990 prendono il farmaco per tre anni per niente (speriamo non sia uno di quei farmaci che fanno male). Quante volte si sente dire dai chirurghi che il rischio di morire per un certo intervento è solo del 2 percento (e quindi facciamolo, ne vale la pena)? Ma i chirurghi non dicono quasi mai qual è il rischio di morire a non farlo, l'intervento.

Quanti hanno dubbi che sia meglio prevenire che curare? Pochissimi e con molte buone ragioni. E allora ben vengano gli screening introdotti dagli anni 80, adesso lo si fa per i tumori (TAC del polmone, per esempio o PSA per la prostata) ma attenzione: quando si sottopongono a questi test i soggetti sani si entra in un tunnel di altri controlli e interventi e delle volte i danni sono più dei benefici. C’è chi trova un tumore viene curato e guarisce, ma ci sono anche quelli che non guariscono e quelli che vengono operati per niente perché il tumore non sarebbe cresciuto o perché era benigno.

Come nel caso della prostata che fa discutere da anni. L’aver trovato un antigene specifico per la prostata (PSA) che si può misurare nel sangue ha fatto pensare che quel test potesse identificare chi ha il cancro (anche molto prima delle manifestazioni della malattia). Da allora negli Stati Uniti si sottopongono al test, per esempio, quasi tutti gli urologi e l’80 per cento dei medici generici (dopo i 50 anni). Ogni anno effettuano questo screening 30 milioni di americani, per una spesa di 3 miliardi di dollari (solo per il dosaggio del PSA, senza tener conto degli accertamenti successivi che questo può indurre). C’è l’idea che scoprire la malattia e curarla per tempo dovrebbe aiutare a guarire. E’ così infatti in molti altri casi. Però il tumore della prostata è particolare: cresce molto lentamente e c’è il rischio di morire di altre malattie prima che questa debba realmente preoccupare. Così, dopo quindici anni precisi, alla fine di marzo 2009, il New England Journal of Medicine pubblica due lavori, uno condotto in Europa e uno negli Stati Uniti, nei quali complessivamente sono state studiate 250 mila persone. Con un risultato sorprendente: l’esame del PSA la vita non la salva quasi mai. Non solo: scoprirlo alto, fuori dalla norma, e farsi curare comporta sofferenze e disfunzioni anche gravi, senza che si possano dimostrare benefici. Spendendo per di più un sacco di soldi.

Quanti studenti di medicina sanno che ci sono sistemi molto diffusi e sofisticati per creare malattie (per poi poterle curare a vantaggio di tanti, operatori e organizzazioni)?

In Diario di scuola Daniel Pennac racconta i suoi insuccessi scolastici. Fosse vissuto adesso, nota Bobbio, non sarebbe sfuggito al Ritalin. Così, da simpatico irrequieto qual era, tanto da preoccupare i genitori, sarebbe diventato docile e indolente e forse non sarebbe diventato un grande scrittore.

Più interventi, più salute? Si chiede Bobbio. Non è detto. Un giorno forse si faranno organi in laboratorio. Ma un rene fatto in laboratorio che funzioni proprio come un rene normale costerà tantissimo. Sarà per tutti? E se no, per chi? Nessun sistema sanitario può sopportare i costi dell’innovazione in medicina. Novità ce ne sono ogni pochi giorni e certe tecniche oggi si usano proprio perché sono nuove. Invece bisognerebbe sapere se servono. E conoscerne fino in fondo i limiti. Però, stabilito che qualcosa serve, e che è meglio di quello che c’era già, dopo dovrebbe essere per tutti. “Certo, perché, se la scienza servisse ad esaltare le differenze fra ricchi e poveri, e fra chi è assicurato e chi no, allora ci si dovrebbe chiedere se la ricerca medica è davvero per la salute dell’uomo” (Daniel Callahan nel suo libro What price better health?).

Infine chi insegna agli studenti a parlare con gli ammalati e a informarli con garbo e sensibilità? Dal 2009 il governo inglese ha integrato le regole del Servizio sanitario nazionale con una sorta di contratto tra medici e ammalati. Il patto del governo inglese chiede ai medici di trattare gli ammalati con cortesia, saperli ascoltare e informarli sulle loro condizioni di salute. In Italia, per i medici, essere gentili con gli ammalati è ancora considerato un obiettivo da raggiungere. Da noi si fanno i convegni sull’umanizzazione - che brutta parola per parlare di ammalati e dei loro medici. Non se ne dovrebbero fare più di convegni così. Piuttosto andrebbero cambiate le regole, un po’ come hanno fatto in Inghilterra. Per gli ammalati c’è il diritto a essere informati, a scegliersi il medico di famiglia, ad avere garantite le cure (ma solo quelle per cui c’è evidenza di efficacia). E ci sono dei doveri. Non si può scegliere un medico e poi cambiarlo, per lo meno non troppo spesso. E si devono informare i familiari del fatto che si desideri o meno donare gli organi dopo la morte. L’ammalato può rifiutare le cure e il medico ha il dovere di rispettare le sue decisioni, tutte.


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