La vicenda di Caterina, la ragazza affetta da rare malattie genetiche, insultata e minacciata sul web per aver detto che sarebbe morta senza i farmaci ottenuti attraverso la sperimentazione animale, ha riportato con prepotenza all’attenzione dell’opinione pubblica un dibattito che nei mesi scorsi ha diviso il Parlamento, sancendo, purtroppo, una vittoria degli animalisti che rischia di paralizzare la ricerca italiana.
Di fronte alle aggressioni verbali e ai macabri auguri di morte, lanciati su Internet da persone inqualificabili che si fanno forti dell’anonimato, la politica può fare ben poco se non esprimere una dura condanna per gli aggressori e vicinanza e solidarietà alla loro vittima. Qualcosa invece la politica può fare per cercare di far fronte all’offensiva di coloro che io chiamo “fondamentalisti animalisti”, senza bloccare la ricerca; per questo lo scorso 23 dicembre ho presentato un progetto di legge che prevede l’obbligo per le aziende farmaceutiche di specificare sulla confezione se il farmaco è derivato dalla sperimentazione sugli animali.
Le ragioni della Comunità scientifica internazionale, molto spesso, vuoi per ignoranza, vuoi per campagne mediatiche che puntano più sull’emotività che sulla ragione, vuoi per una buona dose di ipocrisia, non vengono comprese e accettate da quella parte di opinione pubblica schierata sempre e comunque dalla parte degli animali, o meglio, degli animalisti.
Compito della politica è dunque non solo quello di legiferare salvaguardando il giusto compromesso tra le necessità della ricerca e il benessere animale, così come è previsto dalla Direttiva europea del 2010 che regola la materia, ma anche informare i cittadini del fatto che la maggior parte dei farmaci oggi in commercio, dal più banale antidolorifico ai sofisticati antitumorali, è il frutto di una sperimentazione sugli animali.
Dobbiamo farlo da un lato sperando che questa consapevolezza serva a evitare, ad esempio, che vengano rigidamente recepite le norme approvate dal Parlamento che pongono ulteriori vincoli rispetto alla Direttiva europea, dall’altro per far sì che chi la pensa diversamente possa scegliere se curarsi usando o meno questi farmaci.
Io tra rendere possibile la vita a mille Caterine e proteggere un ratto non ho alcun dubbio, così come non ne ha quasi nessuno quando si tratta di disinfestare le proprie case da un’invasione di topi, ma è giusto che ciascuno di noi abbia le proprie idee in materia e comprendo che persone particolarmente “sensibili” possano non accettare di usare tali medicinali.
Scriviamo dunque chiaramente sulle etichette dei farmaci “testato su animali”, ma non fermiamo la ricerca, perché senza ricerca non c’è speranza, non c’è crescita, non c’è futuro.
Testato sugli animali, scriviamolo sul farmaco
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Un programma europeo può attrarre un contro-esodo di talenti scientifici dagli Stati Uniti, con un rinnovamento delle nostre istituzioni di ricerca. Di fronte al conflitto tra l’amministrazione Trump e le università americane, e alle opportunità che si aprono per l’Europa, è importante un’operazione di grande respiro, politico e culturale, con un adeguato investimento di risorse. ReBrain Europa è un’occasione che non dobbiamo mancare.
Negli anni 30 le scellerate politiche nazi-fasciste hanno indotto un esodo senza precedenti di almeno 15.000 intellettuali – scienziati e artisti, ebrei e no – verso gli Stati Uniti (si veda la ricostruzione storica in Adorno, Fleming, & Bailyn, The Intellectual Migration. Europe and America, 1930–1960, Harvard University Press, 1969; e in Claus-Dieter Krohn, Emigration 1933–1945/1950, Europaische Geschichte Online, 2011).