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Cronache della ricerca #254 / 25 febbraio 2023

La scienza ucraina non si arrende
Nelle foto: Kseniia Minakova, fisica dell'università di Kharkiv

È passato un anno dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa. Limitandoci al valore di testimonianza che la ricerca scientifica può giocare in questi frangenti, segnaliamo la storia che la rivista Nature ha dedicato ad alcuni ricercatori e ricercatrici che fra mille difficoltà sono rimasti a lavorare in Ucraina nonostante molti dei laboratori siano stati distrutti dai bombardamenti. Dei circa 60mila ricercatori ucraini solo il 10% ha lasciato il paese, gli altri continuano nonostante le difficoltà. È Il caso della fisica Kseniia Minakova, che lavora a pannelli solari ad alta efficienza, ritratta fra le rovine del laboratorio dell’Università tecnica di Kharkiv che ora grazie agli aiuti e il lavoro dei colleghi cerca di ricostruire. Ci siamo a nostra volta messi in contatto con Kseniia che ci ha inviato le foto pubblicate sopra. A lei e ai suoi colleghi va il nostro pensiero. Su Scienza in Rete quest’anno abbiamo dedicato decine di articoli alla guerra, a partire dalla coraggiosa lettera degli scienziati e giornalisti scientifici russi contro la guerra, fino alle sue conseguenze per la salute della popolazione e sull’ambiente nonché sulla ricerca scientifica internazionale in campo spaziale.

 

I danni (e a volte le opportunità) delle specie invasive: il caso del Mediterraneo. L’invasione del Mar Mediterraneo da parte di un numero sempre crescente di specie aliene: non è certo un fenomeno nuovo, anzi. Il Mar Mediterraneo è uno dei bacini più popolati da specie aliene invasive: sono quasi un migliaio quelle censite. Alcuni studi hanno però evidenziato che il tasso di arrivo e insediamento di nuove specie ha subito un’impennata in tempi recenti, complici i cambiamenti climatici che, contemporaneamente, rendono queste acque sempre meno idonee ad alcune specie native. Su Global Change Biology uno studio recente ha indagato, per la prima volta, le dinamiche che caratterizzano la diffusione nello spazio e nel tempo delle specie aliene del Mediterraneo, basandosi su una vasta mole di dati provenienti dalla letteratura scientifica. I risultati, come ci raccontano Anna Romano e Laura Scillitani, non solo confermano che il trend è in aumento, ma evidenziano anche come le barriere biogeografiche (come per esempio lo Stretto di Sicilia), che un tempo si ritenevano dei limiti per la loro diffusione, stanno perdendo questa funzione.
«Negli ultimi vent’anni abbiamo osservato un aumento significativo del numero delle nuove introduzioni e una maggior capacità invasiva delle specie introdotte. Infatti in questo periodo, le nuove specie introdotte hanno dimostrato una capacità di dispersione significativamente più alta rispetto alle altre. Il fenomeno nel suo complesso non mostra segni di rallentamento né di saturazione», ha commentato Ernesto Azzurro, primo autore dell’articolo e senior researcher all’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine (IRBIM) del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR).
Le conseguenze sono disparate, a volte disastrose: per esempio il dilagare nel Mediterraneo sudorientale del vorace pesce-coniglio, che a differenza dei pesci nativi bruca anche le alghe più giovani, ha già ridotto del 65% la copertura algale sui fondali dove questo pesce è più diffuso, portando a una riduzione del 40% della ricchezza di specie, conseguente alla perdita dell'habitat che le alghe costituivano. Tuttavia, il fenomeno presenta sfaccettature diverse.

Abbiamo approfondito l’argomento con un’intervista di Andrea De Giovanni a Ernesto Azzurro, che spiega più in dettaglio i motivi, i rischi, ma anche le opportunità legate a questo fenomeno. Se è vero, infatti, che le specie aliene rappresentano sicuramente una delle maggiori minacce per la biodiversità e l’equilibrio degli ecosistemi, poiché possono ad esempio competere con le specie indigene e sovrastarle oppure rappresentare dei predatori incontrastabili, allo stesso tempo possono costituire anche una risorsa, sostituendo le specie native nello svolgimento delle loro funzioni ecosistemiche, così come finendo nelle reti dei pescatori. «Il granchio blu, ad esempio, famigerata specie non indigena capace di danneggiare le reti dei pescatori con le sue chele possenti, è considerato anche una leccornia», ha osservato Ernesto Azzurro.

 

La gig economy porta sconquassi al mondo del lavoro. Un altro tipo di invasione è quella a cui è soggetto il mercato del lavoro, dove, anche come conseguenza alla pandemia di Covid, il lavoro a distanza ed erogato attraverso piattaforme online è sempre più diffuso. Gli inglesi la chiamano “gig economy”. Riccardo Lo Bue scrive dello studio The Hidden Inequalities of Digitalisation in the Post-Pandemic Context, pubblicato dal think tank Bruegel, secondo cui il lockdown durante la pandemia di COVID-19 ha accelerato il drastico cambiamento delle condizioni del mercato del lavoro, in particolare per il numero crescente di lavoratori che offrono servizi attraverso le piattaforme online e lavorano a distanza. Questa invasione di nuove modalità lavorative ha modificato le condizioni dei lavoratori andando anche oltre la perdita di posti di lavoro, con l’aumento di modalità di impiego non strutturate attraverso contratti standard e una diminuzione del welfare.

Da una parte si assiste all’aumento delle categorie di lavoratori non protetti, con contratti atipici che tutelano in maniera insufficiente diritti, salute e sicurezza sul lavoro. Dall'altra, il lavoro a distanza può comportare comunque problemi, legati all'isolamento e alla perdita delle reti sociali, che modificano anche le dinamiche del mercato indebolendo i lavoratori meno qualificati.
Una delle prime strategie suggerite nello studio è occuparsi dell'aggiornamento dei lavoratori in campo digitale, che risulta fondamentale per mantenere la competitività nel mercato del lavoro attuale; bisogna anche aggiornare le forme di tutela dei lavoratori, provvedendo a garantire una protezione sociale contro la disoccupazione e la fluttuazione del reddito caratteristica di alcune occupazioni atipiche. Inoltre bisogna pensare ad attività di prevenzione, che riguardino la salute anche mentale dei lavoratori. Anche in questo caso, la questione è sfaccettata: il lavoro a distanza può infatti avere risvolti molto positivi per la riduzione degli spostamenti, come ricorda uno studio recente dell’ENEA. Secondo questa ricerca il lavoro a distanza permette di evitare l’emissione di circa 600 chilogrammi di anidride carbonica all’anno per lavoratore (-40%), con notevoli risparmi in termini di tempo (circa 150 ore), distanza percorsa (3.500 km) e carburante (260 litri di benzina o 237 litri di gasolio).

 

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