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Nella mente dei kamikaze

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All’indomani dell’attentato dell’11 settembre 2001, il genetista Richard Dawkins scrisse un articolo sui «martiri» di al-Qaida dipingendoli come «ragazzi inzuppati di testosterone ma troppo poco attraenti per avere una donna in questo mondo». Da qui l’impellente necessità di ottenere i favori «delle settantadue spose vergini garantite, colme di desiderio ed esclusivamente per loro».

L’analisi-invettiva del più rappresentativo degli scienziati britannici restituisce una visione caricaturale delle motivazioni dei kamikaze di al Qaida, e in generale di tutti gli uomini-bomba che, dalla Palestina allo Sri Lanka, insanguinano il pianeta. L'ultimo attentato di Bengasi (Libia) mostra peraltro che il pericolo al Qaida è tutt'altro che tramontato.

La visione sessuocentrica di Dawkins fa il paio con altre visioni ingenue, che per riportare a dimensioni di ragionevolezza l’atto suicida del kamikaze parlano di fanatismo religioso, di irrazionalità o di psicopatologia.

Negli ultimi anni si sono avvicendate molte teorie sulla genesi del terrorismo suicida. Quando gli attentati libanesi di Hezbollah erano chiaramente sostenuti dall’Iran, molti analisti hanno abbracciato la teoria del terrorismo come attività sponsorizzata dagli «stati canaglia», in cui poco contava la volontà dei singoli maritiri. Secondo Daniel Pipes, direttore del Forum sul Medio Oriente e consigliere del Dipartimento di Stato e della Difesa USA, «sono i governi, non gli individui pronti a immolarsi, a rendere questo fenomeno una forza così potente. Senza il supporto di questi stati, gli atti di terrorismo suicida sarebbero infrequenti e inefficaci». Gli stessi «martiri» sarebbero in realtà vittime di forme di ricatto e di costrizione (1).

La spiegazione politica e ideologica

La dottrina dell’origine statale del terrorismo suicida è stata per anni alla base dell’agire dell’amministrazione americana, e solo oggi sembrano esserci dei ripensamenti dopo i bagni di sangue in Afghanistan e in Iraq. Questa spiegazione è stata invero ampiamente contraddetta dai fatti: il terrorismo suicidia prospera proprio dove la lotta politica sembra essere sfuggita dalle mani di un chiaro indirizzo statale o centralizzato (come nelle seconda intifada palestinese). Inoltre, tutte le indagini condotte finora mostrano come la scelta del «martirio» sia libera e volontaria. Fatto, quest’ultimo che apre il campo ad altre ipotesi di spiegazione. Secondo Rafi Israel, docente presso il Truman Institute of Peace della Hebrew’s University, i kamikaze palestinesi in particolare condividono una personalità segnata da scarsa autostima e da situazioni familiari devastate dall’occupazione israeliana. (2)

Per lo psicologo Andrew Silke, invece, la genesi della scelta del terrorismo suicida risale a una serie di eventi traumatici che ledono la sfera sociale della persona. In particolare sembrano rivestire particolare importanza «forme di violenza fisica estrema commesse dalla polizia o dalle forze di sicurezza sui futuri martiri o loro amici o parenti» (3).

Una spiegazione simile viene addotta dal direttore del programma di salute mentale della Comunità di Gaza Eyad Sarraj, quando sottolinea il carattere traumatico e umiliante delle violenze compiute sia dall’esercito israeliano sia dalla polizia palestinese sugli oppositori più irriducibili (4).

Vi è poi chi, come lo psicologo israeliano Ariel Merari e il saggista Malise Ruthven, mette in evidenza gli aspetti ideologici e religiosi del terrorismo suicida. L’analisi del retroterra politico e culturale dei dirottatori dell’11 settembre, in particolare dell’architetto-ingegnere egiziano Muhammad Atta che sembra aver avuto il ruolo di leader del gruppo, rivela un forte radicamento nell’islamismo radicale di Sayyd Qutb (1906-76), ideologo dei Fratelli musulmani, e di Shukri Mustafa (1942-77), guida spirituale dell’Associazione dei musulmani.

Entrambe queste forme di radicalismo islamico spingono verso una fedeltà assoluta alla lettera del Corano, un rifiuto antintellettualistico di ogni forma di interpretazione e spiritualizzazione del messaggio religioso, che li conduce a vedere nel jihad una guerra senza esclusione di mezzi contro quegli individui e quelle società «infedeli» che non consentono il libero esercizio della religiosità e della legge islamica. Per l’ingegnere Muhammad Atta, il testo sacro non è altro che una sorta di manuale operativo di «scienza missilistica» da impiegare per la distruzione di una società che si è ribellata alla sovranità di Dio (jahiliyya), in modo da poter instaurare finalmente il califfato universale. (5)

Tuttavia queste spiegazioni, se danno conto delle motivazioni a intraprendere azioni terroristiche, non fanno luce sulla scelta del martirio da parte di tanti giovani musulmani.

Chi ha cercato di individuare nelle condizioni di deprivazione sociale ragioni sufficienti a indurre al terrorismo suicida è l’economista palestinese Basel Saleh. Dal suo studio delle storie personali di 67 terroristi suicidi emerge che la grande maggioranza di essi sono stati picchiati e torturati più volte dalle forze speciali israeliane, che hanno ucciso molti dei loro parenti. I terroristi sono per lo più giovani non sposati, con un livello elevato di istruzione ma con lavori precari, inesistenti o comunque non relazionabili al loro livello di studi. Fanno parte di solito di famiglie con una media di 8 persone e, pur non patendo la fame, conoscono condizioni di vita molto dure. (6)

Di questi l’aspetto che ha richiamato di più l’attenzione degli studiosi è la frustrazione legata alle prospettive professionali che non trovano uno sbocco positivo in una società piagata dalla guerra civile com’è quella palestinese, dove la quota dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni sfiora il 20 per cento ed è in continua crescita. Le uniche agenzie che si occupano di loro sono quelle associazioni religiose che gli stati arabi hanno lasciato crescere perché si occupassero di assistenza sociale, istruzione e formazione. Ma ben presto questi gruppi sono sfuggiti al controllo statale trasformandosi in focolai di opposizione politica, e in alcuni casi, si pensi all’ala militare di Hamas, in fucine di terroristi.

le radici sociali

Un importante contributo alla genesi sociale del terrorismo suicida è stato portato dal ricercatore del CNRS francese Scott Atran (7). La fuga verso soluzioni terroristiche non può essere spiegata, secondo Atran, né con le categorie della povertà né con quelle dell’ingenuità e ignoranza, né tantomeno ricorrendo a presunti disturbi della personalità. Tutte le indagini svolte sui martiri e i loro familiari, così come le informazioni che ad Atran sono state date dalla CIA in merito al contenuto degli interrogatori svolti nella prigione di Guantanamo, rivelano l’appartenenza dei terroristi a un ceto medio-alto, con una alto grado di istruzione e di consapevolezza sociopolitica.

La chiave di accesso più convincente alla mente dei giovani terroristi sembra essere piuttosto il potere di condizionamento pressoché totale che le organizzazioni riescono ad avere su di loro.

Il meccanismo psicologico è lo stesso che tempo addietro ha funzionato con i kamikaze giapponesi: creare comunità chiuse con una forte impronta mistico-militare, dove tutti si sentano affratellati nella realizzazione di un progetto segreto e considerato di vitale importanza. Il sacrificio di ciascuno, in questa logica, porta alla salvezza degli altri «fratelli» quando non della intera comunità. Le interviste condotte sia alle reclute del gruppo pachistano alleato di Al-Qaida, Harkat al-Ansar, sia a quelle di Jemaah Islamiyah (Singapore) confermano questo senso di appartenenza al gruppo (quasi una nuova famiglia) forgiato sulla ricerca ossessiva della segretezza e sulle letture del Corano.

Altra parola chiave è «obbedienza all’autorità». Quanto questa sia una molla capace di far compiere le peggiori nefandezze lo dimostrano bene gli esperimenti dello psicologo americano Stanley Milgram, richiamati nella ricerca di Atran (vedi riquadro).

Analisi cognitivista della mente del kamikaze

In una discussione a più voci condotta su un sito internet appositamente dedicato alla «genesi e futuro del terrorismo suicida» (8) il filosofo cognitivista el CNRS Dan Sperber ha cercato di arrivare a una comprensione più fine dei meccanismi cognitivi che possono spingere a una scelta così antiutilitaristica come il suicidio a fini politici. «Dal punto di vista dei leader delle organizzazioni terroristiche» scrive Sperber, «utilizzare terroristi suicidi è una scelta razionale», soprattutto perché con risorse limitate si riesce a ottenere il massimo di effetto (nel caso del conflitto israelo-palestinese, il rallentamento di un processo di pace e di nuovi insediamenti del nemico) con il minimo di spesa (la vita di una persona di un paese povero). Economicamente, si va a colpire il nemico nel capitale umano più prezioso: la popolazione civile di un paese ricco e industrializzato.

Dal punto di vista dell’agente, la scelta viene resa possibile dalla sua gradualità. Argomenta Sperber: «La domanda che ci si dovrebbe porre non è “Perché questi giovani compiono un’azione suicida”, bensì “Perché si rendono disponibili a commettere un’operazione suicida?”, e ancora “Perché, essendosi resi disponibili, vanno avanti piuttosto che cambiare idea?”». Alla prima domanda si può rispondere che offrirsi come volontari per fare qualcosa è più facile che fare qualcosa, non impegna ancora. In cambio però dà subito dei vantaggi, come il rispetto da parte della comunità, un’aura di eroismo che si confà al futuro martire, eccetera. Una volta che si è fatto questo passo, è più facile procedere verso i passi successivi che tornare indietro. «A ogni snodo decisionale successivo» continua Sperber, «la scelta è razionale, date le credenze e le preferenze dell’individuo. Il punto debole è la mancanza di lungimiranza al momento di offrirsi volontari». Tornare indietro dopo una scelta del genere comporterebbe disonore, disprezzo, delusione, rifiuto da parte degli amici e dei familiari.

Fino a un attimo prima del suicidio, l’utilità sociale che si trae dalla scelta è molto alta, per poi apparentemente annullarsi nell’atto autodistruttivo del martirio. Tuttavia, continua Scott Atran, continuare a pensare ai martiri come agenti razionali che decidono in base a convincimenti personali secondo un’ottica di responsabilità e utilità è il tipico errore di attribuzione compiuto da una visione del mondo individualistica di tipo americano o europeo. In realtà, nelle società asiatiche e africane, l’etica delle scelte ha una colorazione decisamente più comunitaristica che individualistica. «Istituzioni come al Qaida, Hamas o Hezbollah riescono a sfruttare il potenziale di sofferenza, oltraggio e umiliazione presenti in società come quella palestinese per costruire vere e proprie bombe umane» spiega Atran. «Come consumati pubblicitari, i leader carismatici di questi gruppi che sponsorizzano il martirio come arma politica, riescono a utilizzare i normali desideri per la famiglia e la religione per creare delle microcomunità coese al loro interno e pronte a esplodere in attentati verso l’esterno. E’ lo stesso tipo di manipolazione degli individui compiuto dall’industria della pornografia che volge il desiderio universale e innato di avere partner sessuali in dipendenza da immagini oscene su carta o su video».

Se la chiave del successo del terrorismo suicida è da ricercare nella manipolazione delle coscienze condotta da queste organizzazioni, è lì secondo Atran che si dovrebbe agire per prevenire nuovi proseliti. «Prima di tutto» scrive Atran «bisogna condurre studi sistematici su questi gruppi e sulle loro regole di reclutamento». Bisognerà riuscire a mettere in discussione il loro prestigio politico e culturale, magari, come propone il governo di Singapore, stimolando iniziative di confronto interreligioso e nuove forme di dibattito ed educazione civica.

Educazione e confronto, non guerre

Dall’analisi degli ultimi documenti strategici statunitensi, Atran arriva alla conclusione che, nonostante l’aumento (nel decennio passato) del 133 per cento delle risorse spese per combattere il terrorismo internazionale (11,4 miliardi di dollari, più ovviamente i 79 miliardi di dollari spesi per la guerra in Iraq) ben poco viene riservato a programmi di studio e di prevenzione del proselitismo terrorista, nonostante le aperture di Obama. E’ come se si desse per scontato l’irrevocabilità della scelta del martirio, motivata, secondo il modo di vedere dell’amministrazione americana, da un «odio inestinguibile per le libertà, la democrazia il nostro modo di vivere».

Niente di più sbagliato: un sondaggio ormai storico del Pew Research Centre (9) sugli atteggiamenti globali in merito alle politiche e ai valori sociali in 21 paesi diversi conferma che le popolazioni che sostengono posizioni radicali vedono in realtà con favore il sistema di vita, le libertà civili e il sistema economico statunitense, come la Primavera araba, almeno all'inizio, ha dimostrato. La stessa indagine condotta sui palestinesi conclude che l’80% della popolazione mette addirittura al primo posto il sistema politico israeliano e al secondo quello americano. Risultati paradossali, che contraddicono la lettura del terrorismo musulmano in termini di «scontro delle civiltà» (10).

La banalità del male e l'obbedienza all'autorità
Stanley Milgram condusse i suoi esperimenti di psicologia applicata nel Connecticut subito dopo la seconda guerra mondiale, e li descrisse nel libro, non disponibile in italiano, Obedience to Authority. In questi si dimostra come sia relativamente facile indurre membri normali della popolazione a comportamenti moralmente inaccettabili basandosi sul principio di autorità. Per certi versi questi esperimenti confermano la tesi sostenuta dalla filosofa ebrea Annah Harendt della «banalità del male», categoria usata per spiegare come persone normali e mediocri come Rudolph Eichman abbiano potuto contribuire attivamente e addirittura pianificare l’olocausto.
Ai volontari americani per una di queste indagini fu detto che stavano collaborando a uno studio sugli effetti dell’apprendimento. Quando l’«allievo» sbagliava, i partecipanti – gentili massaie e impiegati americani scelti a caso per strada – dovevano premere un pulsante che, a quanto era stato loro detto, mandava una scossa elettrica. In realtà i presunti allievi altro non erano che attori che recitavano una parte seduti su finte «sedie elettriche». I pulsanti disponibili erano numerati da uno a trenta e ai partecipanti veniva fatto credere che le scosse fossero via via più forti man mano che il numero cresceva, da 15 a 450 volt. All’aumentare del voltaggio, crescevano anche le urla di dolore degli allievi, ma ai partecipanti che esitavano veniva ingiunto di continuare. Dei 40 partecipanti, una trentina andò avanti fino alla scossa di 450 volt, nonostante le urla strazianti. Fu la dimostrazione, ripetuta in varie località d’America, che l’adesione a un’autorità può cancellare il giudizio critico di persone normali inducendole ad azioni criminali. Certo che il sacrificio di sé per togliere la vita a innocenti sembra sfidare ogni logica. Invece è solo questione di tempo. E di psicologia. Il segreto sta nel far credere all’aspirante martire che la sua morte salva altre persone, quelle a lui più vicine, e che per ottenere questa salvezza è necessario ucciderne altre, a lui più lontane.

Come si costruisce un uomo-bomba
Una bomba obbediente e carica d’odio non si improvvisa. E non si sceglie a caso. Le preferenze cadono sui maschi giovani e non sposati. Ma soprattutto, il processo di selezione dura a lungo per assicurare proseliti fedeli. Secondo un’accurata indagine condotta da una commissione parlamentare di Singapore sui terroristi suicidi della Jemaah Islamiyah, il tempo di reclutamento minimo dura 18 mesi e avviene nell’ambito delle scuole di questa associazione. Quasi tutte le organizzazioni terroristiche asiatiche e mediorientali, infatti, gestiscono scuole (si pensi alle madrase afghane) così come molti altri aspetti della vita delle loro comunità, dal lavoro alle funzioni religiose alla previdenza e all’assistenza sanitaria. La carriera di una bomba umana si dipana così dalle prime classi all’ombra di una guida spirituale, attenta a cogliere gli elementi più promettenti. Solo alcuni, infine, vengono selezionati come aspiranti martiri. Fino al grande giorno della chiamata.
Un attentato suicida è per definizione imprevedibile. Non c’è radar che possa intercettare una bomba fatta di carne e ossa. In Israele si è provato con cani adestrati a fiutare l’esplosivo, ma basta un deodorante o uno spray repellente per metterli fuori strada. E poi chi controllare? Tutte le facce torve che passeggiano per la via? L’unica possibilità è infiltrare i gruppi terroristi con spie, ma il carattere di estrema segretezza di queste organizzazioni rende questo compito molto arduo.
Anche la rudimentalità degli ordigni gioca a favore dei terroristi. L’elettronica è assente; e a parte il plastico e l’innesco, tutti gli altri pezzi della bomba sono in libero commercio: una sorta di borsa di tessuto elasticizzato dove mettere l’esplosivo, biglie di acciaio o chiodi per rendere l’esplosione più devastante, filo elettrico, batteria e interruttore. Rispetto alle bombe di qualche anno fa, quelle attuali sono più piccole (circa 20 centimetri per lato) e più facilmente celabili sotto gli abiti: alcuni le vestono subito sopra l’ombelico, altri, per non rischiare di essere individuati a un’eventuale perquisizione, le portano alte intorno al petto. Il vantaggio delle donne kamikaze è che in Medioriente e in molti paesi asiatici vegono perquisite di meno; inoltre, in caso di sporgenza dell’ordigno possono simulare una gravidanza.
L’hardware per una missione suicida costa intorno ai 150 dollari. Più costosa è la preparazione, se si pensa alla rete di collaboratori, appoggi, ricognitori che servono per mettere a punto un attentato. Non è raro che vengano costruiti anche modelli in scala dell’obiettivo e che, dopo numerose ricognizioni sul posto venga eseguita una prova generale. Prima di partire per la missione, il martire spesso suggella il suo contratto con il gruppo attraverso un video-testamento, in seguito recapitato ai parenti.
Tra i costi da sostenere vi è poi la quota da versare alla famiglia del martire, circa 10 mila dollari in Palestina. Bazzeccole, comunque, rispetto all’impatto politico di questi attentati, capaci di generare quel tipico circolo vizioso di rappresaglie brutali che vanno ad alimentare per reazione un proselitismo ancora più intenso. Sangue chiama sangue, ma anche nuovi quattrini nelle tasche dei terroristi, se è vero che all’indomani di un attentato suicida in un supermarket israeliano compiuto da un diciottenne, una maratona televisiva saudita ha raccolto 100 milioni di dollari per la nuova intifada palestinese.

 

Bibliografia
D. Pipes, National Interest, 4, 95, 1986.
R. Israel, Terrorism Political Violence 9, 96, 1997.
A. Silke, «The psychology of suicide terrorism», in A. Silke, Terrorism, victims and society. Psychological perspectives on terrorism and its consequences, Chichester, John Wiley and Sons, 2003..
E. Sarraj, Mid East Reality Newsletter, feb 2002 (disponibile in http://www.middleeast. org/archives/newslet1.htm).
A. Merari, Harvard Int. Rev., 23, 2002, (disponibile nel sito http://www.hir. harvard.edu/back/article.php3?art_id=merari2234). M. Ruthven, Il seme del terrore, Einaudi, 2003.
B. Saleh, paper presented to the Graduate Research Forum, Kansas State Univ., 4 April (2003)
S. Atran, «Genesis and Future of suicide terrorism», http://www.interdisciplines.org /terrorism/papers/1/25/2
http://www.interdisciplines.org/terrorism/papers/1/printable/discussion
Views of a changing world 2003 (disponibile sul sito http://www;people-press.org/reports/display.php3?ReportID=185
S. Huntington, Lo scontro delle civiltà, 2002, Garzanti.


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