La chimica siamo noi

International Year of Chemistry

La chimica siamo noi, il mondo che ci circonda, l’universo intero. Da quando la realtà è stata scomposta nei suoi elementi fondamentali, quelli della tavola periodica, e descritta attraverso reazioni tra di essi, non si può pensare di prescindere dalla chimica.

Il 2011 è stato dichiarato Anno Internazionale della Chimica proprio per rendere omaggio a questa disciplina, per farla conoscere e ri-conoscere in tutti i suoi aspetti, che vanno dal quotidiano allo straordinario, dall’infinitamente piccolo alle stelle, dalle scoperte eclatanti a quelli impercettibili (Nucera).

Con questo dossier vogliamo cogliere più aspetti della chimica di ieri e di oggi. A partire dall’origine della chimica, ricca di mistero (Ioghà) ripercorreremo la sua evoluzione nel tempo e racconteremo i personaggi che hanno contribuito alle più importanti scoperte del ventunesimo secolo (Canobbio- interviste). Da disciplina singola, la chimica presto si contamina con altre discipline, tra cui la fisica e la biologia (Aiello) per rendere la complessità del mondo moderno. Oggi la chimica è alla base di ogni tecnologia presente, è in quello che mangiamo, nei vestiti, negli apparecchi elettronici. E ogni giorno si ripensa nuova, innovativa, pronta a trovare soluzioni ai problemi e ai bisogni di una società che cambia, riconvertita se necessario, anche alla green economy (Borgia). La chimica non è solo scienza ma è anche arte, suggerisce alla letteratura (Scintilla) e alle arti visive (Tartivita) nuovi linguaggi, nuove idee, un mondo fluido di elementi e reazioni, di materiali.

Attraverso un percorso che raccoglie frammenti di storie, immagini, suggestioni, vogliamo festeggiare la chimicaper ricordare quanto questa scienza entra nel nostro essere, e quanto noi siamo scienza.

Ilaria Canobbio

Read time: 2 minsSubmitted by MaCSIS on 7 September, 2011 - 16:44
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Come dar voce a una scienza "persa" nella Storia

Sono in corso le celebrazioni per un anno speciale per le scienze naturali di base : il 2011 è stato proclamato dall’ Onu Anno Internazionale della Chimica. Un appuntamento che fa parte del decennio dedicato all’educazione allo sviluppo sostenibile (2005 – 2014). La preservazione delle risorse naturali sarà il focus principale di questi mesi dedicati alla chimica, con il coinvolgimento di molti protagonisti e con la supervisione dell’ Unesco (l’ Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura) e della IUPAC (l’Unione Internazionale della Chimica Pura e Applicata). È un’occasione importante, questa, non solo per gli addetti ai lavori in camice bianco. La portata dell’evento e la sua durata offrono l’opportunità di dare (o ridare) visibilità a un campo delle scienze naturali che sostiene un intero comparto produttivo dei paesi sviluppati, senza dare troppo nell’occhio. Sono quotidiani, a ben vedere, gli incontri che si possono fare con i prodotti dell’industria chimica: in casa mentre si usano elettrodomestici (un forno a microonde sfrutta le proprietà delle molecole d’acqua presenti nei cibi), in cucina quando, ad esempio, usiamo padelle antiaderenti o sui mezzi di trasporto, dove il consumo di combustibile è regolato da reazioni e leggi di cinetica chimica.

D’altra parte tutto in natura è chimica. Pressoché ogni fenomeno qui sulla Terra ha per protagonista le molecole, le unità fondamentali della chimica.

Cosicché, sebbene il confine tra diverse discipline scientifiche sia spesso sottile, i processi descrivibili chimicamente si possono rintracciare ovunque, dalla fisica della materia alle attività biologiche. Tuttavia, un cono d’ombra sembra nascondere la chimica, pura e applicata, agli occhi del grande pubblico.

Perché la chimica non suscita analoghi effetti di fascinazione di altre scienze, in un contesto tecnologico in cui invece ha un ruolo di primo piano? Questa scienza naturale, tra le più antiche, ha permeato la storia di tutta la Vecchia Europa, Italia compresa. Analizzando il suo ruolo nel corso del tempo, si possono forse individuare le vere ragioni del perché non gode, adesso, di un’adeguata popolarità. La sua evoluzione è spesso coincisa, infatti, con mutamenti sociali epocali, a cui si sono accompagnati – soprattutto nell’ultimo secolo – decisivi cambiamenti di atteggiamento, da parte dell’opinione pubblica, nei confronti delle opportunità e dei rischi a essa associati.

Un testimonianza del ruolo da protagonista che la chimica ha avuto, per esempio, nel nostro Paese, è arrivata in questi giorni di festeggiamenti per il 150° anniversario dell’ Unità di Italia. Diverse pubblicazioni (il libro “Reazioni tricolori” di Marco Ciardi è tra i più interessanti) descrivono il processo culturale e politico che ha portato all’unificazione della penisola, durante il quale i chimici non sono stati affatto estranei.

Nel 1839 si tenne a Pisa la prima “Riunione degli scienziati italiani”, un tentativo di far emergere gli studiosi italiani e dare visibilità alla ricerca scientifica dell’epoca - soffocata nell’ambiente elitario delle accademie dei vari stati di cui era costituita la penisola – iniziando, al contempo, a porre un’idea stessa di un’unità politica del paese. In queste riunioni, i chimici hanno avuto un ruolo determinante. Negli anni del Risorgimento, infatti, la cultura chimica ha avuto una profonda influenza su tutta la cultura italiana – basti pensare a Carlo Cattaneo, interessato ai problemi della nomenclatura chimica. L’impegno in prima linea dei chimici nelle battaglie per l’unificazione indica la convinzione, già maturata all’epoca, che il rapporto tra potere pubblico e industriale fosse una chiave strategica e un fattore cruciale per l’esercizio delle loro attività professionali. Ai nomi dei chimici Raffaele Piria, Stanislao Cannizzaro, Gioacchino Taddei e Francesco Selmi sono legate pagine importanti di storia del Risorgimento, con una partecipazione attiva sia sui fronti di guerra (la presenza di Piria all’assedio di Peschiera e di Selma a Custoza, tra le altre) sia in ambito accademico. Cannizzaro, in particolare, era convinto che la frammentazione italiana non avrebbe aiutato la crescita dei diversi settori scientifici e la loro valorizzazione a livello internazionale. Quelle idee si sono dimostrate lungimiranti e sono più che mai attuali, anche un secolo dopo.

lo sviluppo della chimica in Italia intesa come industria è coinciso con un risveglio economico e sociale in un contesto storico diverso, riproponendo nuovamente l’importanza del tema di una presenza forte della scienza applicata nel Paese. Nei primi anni del secondo dopoguerra, una parte rilevante dei nuovi beni di consumo in arrivo dall’America - dalle calze di nylon ai primi pesticidi, come il Ddt – erano prodotti diretti dei nuovi processi industriali chimici messi a punto negli Stati Uniti. Mentre metà della popolazione italiana ancora lavorava la terra e aveva difficoltà ad accedere persino ai servizi di primaria necessità, ecco che arriva nei primi anni ’60 il boom economico che ha nella chimica una delle sue basi sostanziali e una delle sue icone. Gli impianti petrolchimici di Marghera diventano, tra il 1958 e il 1963, il simbolo di una civiltà agricola che cerca il riscatto dalla miseria in una nuova era, fondata sull’industria. È lì che è possibile individuare il primo successo italiano nella corsa a ridurre le distanze economiche e sociali dal resto d’Europa. Al nome di Giulio Natta viene associato, ancora oggi, uno dei maggiori successi della ricerca scientifica italiana. Sintetizzando dei particolari catalizzatori che consentono la sintesi del propilene isotattico, una delle plastiche moderne derivate del petrolio, Natta ha contribuito a modificare gli stili di vita degli italiani. Il Premio Nobel per la chimica conferitogli nel 1963 può essere considerato l’apice della popolarità conquistata dalla chimica italiana, accademica e industriale, forse non più raggiunto.

Negli anni ’70, infatti, l’immagine della chimica industriale e, in parte, della chimica tout court cambiò da un atteggiamento di fiducia a un sentimento di sospetto e paura, in seguito alla improvvisa scoperta dei rischi connessi alla produzione di sostanze pericolose prodotte. L’incidente di Seveso del 1976 ha segnato un punto di non ritorno, da questo punto di vista. A causa forse della sua eccezionale velocità di sviluppo, la produzione industriale chimica non è stata accompagnata dalla messa a punto di un adeguato e parallelo sistema di controllo e gestione dei processi.

Se gli anni ’60 hanno rappresentato una fase di successo per la chimica, sia dal punto di vista produttivo che di popolarità, il periodo degli anni ’70 l’ha invece condannata a un’immagine di pericolo.

Questo tipo di industria continua, tuttavia, ad avere un ruolo determinante nel sistema produttivo dei paesi sviluppati: fornisce la materie prime per tutte le altre industrie e molti prodotti per il consumo ed è diventata, nel frattempo, sempre più specialistica. Fibre di carbonio, catalizzatori, materiali innovativi come i polimeri fotovoltaici e gli Oled (Organic Light Emitting Diod, dispositivi alla base del funzionamento dei nuovi schermi in plastica) sono ben lontani dai prodotti dei colossi petrolchimici di trenta anni fa. Si tratta, però, di oggetti ancora di consumo quotidiano, a confermare la forte pervasività della chimica: sui tessuti di divani, scarpe, sugli attrezzi sportivi, sugli occhiali, nei cosmetici o addirittura negli aerei, come i Boeing, sono presenti nuovi materiali compositi e a base di nanotecnologie ottenuti tutti con processi chimici di base.

Secondo Federchimica, in Italia sono le imprese chimiche le più innovative nella media delle imprese manifatturiere: i loro prodotti sono di carattere ‘intermedio’ e possono, quindi, rendere innovativi numerosi altri manufatti finiti (nel biennio 2002-2004 il 51% delle imprese chimiche italiane ha introdotto innovazione rispetto a una media del 37%).

Uno degli ultimi rapporti del Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), inoltre, indica una copertura di imprese fino a 250 addetti di oltre il 90% sul territorio nazionale, a fronte di percentuali più basse in Germania, Francia e Regno Unito (considerando che l’industria chimica europea è al primo posto a livello mondiale, garantendo una produzione di circa un terzo del totale). Si tratta di una rete di imprese di dimensioni medio-piccole, in linea con il ruolo delle PMI europee, che “svolgono un ruolo centrale nei volumi prodotti e nel numero degli occupati”. Il quadro tracciato da Cnel punta il dito, contemporaneamente, contro un saldo commerciale negativo relativo alle imprese di chimica di base e delle fibre chimiche. Questo vuol dire che, nonostante la forte presenza e potenzialità del settore, la sua debolezza commerciale esige che ci siano iniziative di sviluppo mirate, per invertire una tendenza aggravata oggi dalla recente crisi economica. Affinché la chimica moderna possa ridiventare davvero un’opportunità di crescita economica – così come è avvenuto negli anni ’60, quando ha ben rappresentato esigenze e aspettative dell’epoca - è necessario che si realizzino diverse condizioni come: un più alto livello di cultura scientifica, tecnica e sociale, di ricerca e sviluppo; la presenza di industrie meccaniche ed elettroniche adeguate nel fornire un ‘supporto’ complementare alla chimica; la disponibilità di materie prime a energia a basso prezzo. Per ristabilire un legame fiduciario con la società attuale, sarebbe auspicabile che questo comparto si rafforzi nel concetto di sostenibilità. Una chimica più sostenibile potrebbe, infatti, fornire soluzioni concrete nel modificare l’esistente evitando problemi e conseguenze dannose per il futuro – come avvenuto, invece, dagli anni ’70 in poi.

Secondo il quindicesimo rapporto annuale di Federchimica, “Responsible Care”, ottenuto monitorando 175 imprese, è già evidente uno sforzo dell’industria chimica a livello mondiale nel migliorare la qualità dei prodotti in merito a criteri di sostenibilità, quali salute, ambiente e sicurezza dei processi produttivi. Considerando i recenti sviluppi del mercato delle fonti d’energia rinnovabile, inoltre, la sostenibilità in campo energetico può rappresentare per la chimica un’altra importante sfida da cogliere - per esempio nella ricerca incentrata sulla riduzione dei consumi energetici, con la produzione di materiali d’avanguardia per l’illuminazione, come i nuovi polimeri luminosi.

Per garantire continuità a un necessario rinnovamento di questa scienza di base, non si può trascurare il fattore istruzione: la chimica – e quindi tutti i settori ad essa correlati – ha bisogno di risorse umane di un adeguato livello scolastico.

La scelta di un percorso di studi mirato di questo tipo, parte quasi sempre da una buona consapevolezza di quali siano le potenzialità delle scienze naturali e della chimica in particolare. Un’adeguata forma di comunicazione scientifica può contribuire in modo determinante, in questo senso. Saper riconoscere i meccanismi alla base del funzionamento degli schermi di un telefonino, le proprietà del fondo di una padella, degli abiti che indossiamo, la natura di cibi e bevande, dell’asfalto delle strade, dei pannelli fotovoltaici, può far scattare un interesse per quella che è potenzialmente una miniera d’oro in termini economici e intellettuali.

L’evento promosso dall’Onu per il 2011 ha, in definitiva, quest’ambizione.

Al di là dell’aspetto puramente congressuale e accademico, l‘International Year of Chemistry dà sicuramente la possibilità di ri-scoprire la chimica nella sua veste più moderna.

“Celebrare i successi e i contributi della chimica per il miglioramento delle condizioni di vita di tutti” è lo slogan che accompagna l’edizione italiana.

Federchimica (Federazione Nazionale dell’ Industria Chimica), partner dell’organizzazione, ha ideato l’Operazione Fabbriche Aperte, iniziativa che prevede l’apertura al pubblico di stabilimenti chimici. Una scelta dettata da un successo già brevettato, che ha visto dal 1987 l’adesione su tutto il territorio nazionale di circa 600 imprese associate. Un’iniziativa questa che, come si legge sulla pagina web dedicata “ha consentito di passare gradualmente da un pubblico circoscritto di opinion leader ad un target più ampio di comunità locali, con esperienza diretta e un vissuto a volte contrastanti verso le aziende chimiche”

Se Fabbriche Aperte è già un target nella comunicazione “dell’intero settore chimico”, la Settimana della Chimica – prevista per ottobre 2011, volta ad avvicinare il pubblico al mondo della ricerca – e Orientagiovani dedicata ad un incontro tra imprenditori e giovani sono solo alcuni esempi delle manifestazioni previste nel tentativo di ridare slancio alle scienze e la chimica. Convegni, mostre fotografiche, incontri, iniziative promosse da soggetti ed enti non necessariamente accademici puntano a coinvolgere soprattutto gli studenti delle scuole superiori, i probabili chimici di domani. Si spazia dall’applicazione della chimica per i beni culturali, ai temi legati all’eco sostenibilità.

Il 2011 è una duplice occasione per sollevare questo velo di indifferenza, dal momento che coinvolge sia scienziati che comunicatori - gli strumenti per coglierla sono tutti in buone strategie di comunicazione.

Come duplice è la responsabilità: le scelte strategiche di entrambe le categorie, comunicatori e scienziati, possono essere determinanti per vincere questa sfida.

Marco Milano

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L'anno internazionale della chimica

Il 30 dicembre 2008, presso la sede di Parigi, le Nazioni Unite hanno proclamato il 2011 Anno Internazionale della Chimica (IYC), affidando la responsabilità dell’evento all’UNESCO, l’Organizzazione della Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, e allo IUPAC, l’Unione Internazionale della Chimica Pura ed Applicata.

L’istituzione dell’anno celebrativo per la chimica ha come scopo quello di esaltare le conquiste conseguite da questa branca della scienza per il benessere dell’intera umanità.
Ma la vera speranza con la quale la proposta è stata avanzata e sostenuta già nel 2007 da un paese non industrializzato come l’Etiopia, è che l’evento possa risolversi in una grande opportunità per migliorare il rapporto scienza e società in particolare per gli aspetti che riguardano la diffusione della conoscenza e lo sviluppo sostenibile.
Viene dato così ulteriore valore al decennio che le Nazioni Unite hanno voluto proclamare come Decennio dell’Educazione allo Sviluppo Sostenibile, ossia il 2005-2014.
Il tema principale del IYC 2011 è rappresentato dalla comunicazione scientifica e non solo per il semplice fatto che la stessa manifestazione sia a tutti gli effetti un’ampia, condivisa e accessibile rappresentazione dei successi della chimica.
Subito dopo la proclamazione di Parigi, infatti, il Professor Jung-Il Jin, Presidente dello IUPAC, ha posto come scopo del IYC 2011 quello di «accrescere la comprensione e l’apprezzamento per la chimica, aumentare l’interesse dei giovani per la scienza, e generare entusiasmo per il futuro della chimica». La comunicazione della scienza non si sta limitando dunque alla semplice informazione o divulgazione delle scoperte, ma implica per le istituzioni scientifiche la necessità di creare un clima emotivamente favorevole attorno alla scienza stessa,  stimolando prima la voglia di scoprire il mondo scientifico, poi di comunicare la conoscenza scientifica.
Assumono così primaria importanza iniziative aperte e destinate a tutti i cittadini della scienza promosse all’interno dell’anno celebrativo. Una tra queste è “Tutto è Chimica”, concorso internazionale di fotografia indetto per riscoprire il valore e il carattere di orizzontalità che la chimica presenta, in quanto presente e rilevante in diversi ambiti della vita umana. Il concorso chiede ai diversi partecipanti di immortalare in un’immagine l’impatto che la chimica ha sulla vita quotidiana di tutti noi.
Altra iniziativa molto attesa è invece la “National Fun Chemical Experiment Design Competition” organizzata dalla Academic Division of Chinese Academy of Sciences; un concorso che prevede per tutti gli studenti delle scuole superiori e delle università della Cina la possibilità di collaborare con insegnanti e ricercatori di diversi istituti per progettare esperimenti chimici divertenti.

La comunicazione scientifica viene così sempre più affiancata anche a settori della conoscenza, quali l’arte e le capacità creative, tradizionalmente posti agli antipodi rispetto alla scienza: in questo senso vanno considerate e valorizzate le proposte quali l’evento “Creative Problem Solving nella ricerca chimica” dello scorso 5 maggio negli Stati Uniti, che vede come unico obiettivo quello di rafforzare e migliorare le abilità di pensiero creativo dello scienziato e la sua divulgazione.

Dalle parole del Direttore Generale dell’UNESCO, Koichiro Matsuura, è ben comprensibile come il tema principale della condivisione della conoscenza, tra le diverse fasce della società e i diversi ambiti del sapere umano, si possa intrecciare con quello della diffusione della cultura dello sviluppo sostenibile. Koichiro Matsuura ha affermato che «accrescere la consapevolezza sulla chimica è ancora più importante se pensiamo alla sfida rappresentata dallo sviluppo sostenibile. È sicuro che la chimica giocherà un ruolo importante nello sviluppo di fonti alternative di energia e nel provvedere al sostentamento della popolazione mondiale». Sostenibilità e scienza partecipata dunque sembrerebbero due binari che corrono verso la stessa direzione.
In tal senso assumono maggior peso gli eventi organizzati per offrire una prima importante opportunità di condivisione e di confronto sullo sviluppo scientifico.
Lo scorso 10 aprile si è tenuta la 1° Conferenza Internazionale sull’Energia Pulita in Cina, in cui per tre giorni si è offerta la possibilità concreta a ricercatori internazionali di discutere insieme degli ultimi sviluppi nella ricerca sulle energia pulita e sulla tecnologia per lo stoccaggio dell’energia prodotta. L’incontro e lo scambio diventa allora pedina fondamentale per lo sviluppo della scienza, come si legge dalla stessa presentazione dell’evento: «La partecipazione degli studenti alle riunioni sono fortemente incoraggiate e ci auguriamo che i giovani chimici lasceranno gli incontri ispirati a proseguire la loro carriera nel campo delle scienze chimiche e di affrontare le sfide future».

All’interno del IYC 2011 si trova molto spazio dedicato alla discussione partecipata, soprattutto sul tema dell’ambiente. Lo scorso 7 giugno a Vienna, all’interno della “Giornata di colloqui sull'Ambiente '11”, ha preso vita un ampio dibattito tra cittadini ed esperti: la discussione ha avuto come focus la "Green Chemistry" (chimica verde), ovvero il ruolo della chimica contemporanea negli specifici ambiti della lotta ai cambiamenti del clima, oltre che nel più generale rapporto uomo e ambiente.

La partecipazione allargata alla scienza assume un significato fondamentale, nel momento in cui diverse regioni del mondo sottosviluppato vedono nello sviluppo scientifico, in special modo della chimica, il motore della sostenibilità economica e produttiva: il 16 gennaio si è tenuto all'Università di Witwatersrand, nella città di Johannesburg, in Sud Africa, un congresso organizzato dalla Federazione delle Società Africane di Chimica (FASC), all’insegna di un forte entusiasmo per la creatività della chimica, percepita come fondamentale fattore per il futuro dell'Africa; mentre a Bangkok, in Tailandia,  è previsto per il periodo tra il 5 e l’8 settembre 2011 il 14° Congresso Asiatico della Chimica (ACC), ponendo attenzione particolare sulle conquiste e i contributi che la chimica contemporanea potrà offrire da qui in avanti per lo sviluppo e la sufficienza economica di una regione vastissima come quella del sud-est asiatico.
Parallelamente alle linee guida della comunicazione e della sostenibilità su cui sviluppa principalmente l’Anno Internazionale della Chimica, è necessario prendere in considerazione un’ulteriore dimensione che trova largo spazio e rappresentazione tra le diverse manifestazioni in programma: infatti l’anno celebrativo vuole rendere omaggio al contributo fondamentale che le donne hanno saputo offrire alla chimica e alla scienza in generale. Non a caso le celebrazioni hanno avuto come sede per uno tra i primi eventi d’apertura la Jinnah University di Karachi, in Pakistan, ateneo esclusivamente per donne. Qui il 3 gennaio scorso si è tenuta la “Prima Conferenza Internazionale di Chimica sul Suo Ruolo nelle Scienze”, forum per l'interazione tra accademici e ricercatori a livello nazionale e internazionali.
L’evento di chiusura di tutto l’anno celebrativo è stato organizzato invece a Bruxelles per il 1° Dicembre 2011, esattamente a cent’anni dalla consegna del premio Nobel per la chimica a Marie Curie.
La scienziata polacca è stata una donna unica per lo sviluppo scientifico del 900, come dimostra l’ottenimento di due diversi Premi Nobel. Nel 1903 Marie Curie diventa la prima donna insignita di un Premio Nobel, condiviso insieme al marito Pierre Curie, per le ricerche congiunte effettuate sulla radioattività spontanea, e ad Antoine Henri Becquerel a cui si deve la scoperta stessa della radioattività. Nel 1911 è invece unica vincitrice del Premio Nobel per la chimica, consegnatole per la scoperta e per lo studio degli elementi radio e plutonio.
Marie Curie non è stata solo un’illustre donna scienziata del ‘900, ma rappresenta ancora oggi un importante modello per lo sviluppo e la condivisione della conoscenza scientifica: infatti, subito dopo aver scoperto il processo di isolamento del radio, la scienziata polacca non ha depositato alcun brevetto, ma ha deciso di rendere disponibile donare tutto il sapere comunità scientifica.
In Italia si sta focalizzando l’attenzione sulla chimica per la preservazione delle risorse naturali.
Le celebrazioni previste e organizzate in Italia sono coordinate da un Protocollo d’Intesa siglato tra MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), SCI ( Società Chimica Italiana) e Federchimica.
Il Presidente di Federchimica, Giorgio Squinzi ha affermato che «va raccontata e valorizzata innanzitutto la capacità della chimica di risolvere molti grandi problemi che l’umanità è chiamata ad affrontare, come ad esempio l’accesso all’acqua potabile, il migliore utilizzo dell’energia e la disponibilità di trasporti più efficienti».
Si intuisce anche da queste parole, come la chimica ricopra ancora oggi un ruolo fondamentale per lo sviluppo non solo economico dell’umanità, tenuto conto che l’apporto totale della chimica su un’economia avanzata quale quella del Regno Unito rappresenta il 20% del PIL (fonte Royal Society ), ma soprattutto per uno sviluppo sostenibile e democratico.
Squinzi a tal proposito ci ricorda che «nel 2050 convivranno su questo pianeta 9 miliardi di persone: la chimica ha altrettante ragioni per trovare modi per produrre cibo ed energia per tutti razionalizzando l’uso delle risorse a disposizione».
Per questo diventa cruciale per la chimica, come per le altre discipline scientifiche, la costruzione e il mantenimento di un nuovo rapporto con la società.
In questo senso assume forte significato l’iniziativa “Fabbriche Aperte” operazione ideata da Federchimica dal 1987 e riproposta anche per il ITC 2011, con l’apertura al pubblico degli stabilimenti chimici di oltre 600 imprese associate: l’obiettivo principale del progetto è quello di rafforzare il dialogo e il rapporto tra impresa e territorio nel tentativo, da una parte, di consolidare la fiducia dei cittadini nei confronti dell’industria chimica italiana, dall’altra, di indirizzare l’impresa verso un processo di trasparenza e di massima affidabilità.
Le celebrazioni organizzate in tutto il mondo per l’Anno Internazionale della Chimica sono numerose e di stampi assai diversificati, ma presentano un unico filo rosso: concepire i miglioramenti socio-economici e ambientali futuri, dalla difesa della salute, alla salvaguardia della sicurezza e della tutela dell'ambiente, come imprescindibili da uno sviluppo scientifico in cui società e le altre forme della conoscenza umana non si limitino al ruolo di ricettori passivi, ma al contrario entrino in relazione diretta con i processi di produzione e comunicazione della scienza.

Giuseppe Nucera

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La chimica e la nostra capacità di dominare i suoi segreti

La chimica pervade tutto nella nostra vita anche quello che passa spesso inosservato, dice Jean-Marie Lehn, premio Nobel per la chimica nel 1987: un mondo senza chimica "sarebbe un mondo senza materiali sintetici e questo significa essere senza telefoni, senza computer e senza cinema, senza aspirina, senza pillole anticoncezionali o senza carta e quindi non i giornali o i libri". Una delle meraviglie più inaspettate che la chimica riserva a coloro che per la prima volta si addentrano anche solo poco oltre la sua anticamera descrittiva, è la possibilità di trasformare la materia a proprio piacimento. Da sempre l’uomo ha osservato i cambiamenti esteriori della materia basandosi sui mutamenti del suo aspetto apparente e delle sue proprietà percepibili. Solo negli ultimi secoli tuttavia è stato possibile individuare e descrivere in modo coerente l’insieme delle leggi chimiche e fisiche che stanno, direttamente o indirettamente, alla base di queste trasformazioni. Questa scienza affascinante suscita notevole interesse, ma spetta a noi fare buon uso di essa iniziando a rivalutare la sua storia. Volgendo uno sguardo al passato, la nascita della chimica risale alla scoperta del fuoco. Racconta Denis Diderot, filosofo francese del secolo XVIII: «Un giorno alcuni spagnoli approdarono a una contrada sconosciuta del Nuovo Mondo la cui popolazione era così primitiva che ignorava persino l'uso del fuoco. Era d'inverno. Gli spagnoli dissero agli indigeni che con un po' di legno avrebbero prodotto il fuoco, un essere che avrebbe mandato luce e calore come un piccolo sole, e che poi l'avrebbero spento con l'acqua.
—    Voi dunque sapete, — chiesero gli indigeni, — che cosa sia questo fuoco?
—    No — risposero gli Spagnoli.
—    E sapete che cosa sia il legno?— No.
E sapete che cosa sia l'acqua?
No.
Spagnoli e indigeniGli indigeni si misero a ridere, e volsero le spalle agli Spagnoli: i quali, per scaldarsi e cuocere i loro cibi, accesero il fuoco, che non sapevano cosa fosse, con dell’olio che non sapevano che cosa fosse, e poi lo spensero con dell'acqua, che pure non sapevano che cosa fosse».
Se l'uomo non si fosse servito del fuoco, prima di sapere che cosa fosse, sarebbe ancora l'uomo delle caverne. L'uso empirico del fuoco ci ha condotto a scoprire i metalli o le terre cotte, il vetro o la calce viva, i grandi acidi, e numerosi sali: insomma tutto quel bagaglio di fatti sperimentali che rese possibile spiegare il fuoco.
Pierre-Joseph Macquer, un chimico del secolo XVIII (fu il primo che riuscì a portare in soluzione il caucciù) nel Dizionario di chimica afferma: «La cosa pare incredibile, ma pure è vera! Dopo tante esperienze eseguite col fuoco e tanti libri scritti intorno al fuoco, non sappiamo ancora che cosa sia il fuoco».
Maquer afferma che prima del Seicento si effettuavano ricerche e procedimenti di natura chimica in vari campi dell’attività umana. Le differenti parti della chimica esistevano, ma la chimica non esisteva ancora, solo agli inizi del XVII secolo comincia a delinearsi come scienza autonoma. La lontana origine della chimica è dimostrata anche dall’etimologia del termine khemeia che secondo alcuni deriva dalla parola egiziana Kham che significa nero, con allusione al colore scuro del fertile suolo dell’Egitto dal quale si pensava provenissero le conoscenze naturali più remote: l’espressione potrebbe quindi significare arte della terra d’Egitto. Un’altra teoria afferma che khemeia deriva dall’Arabo al-Kimiya dove al ha la funzione di articolo determinativo, mentre Kimiya dovrebbe intendersi come arte di fare leghe metalliche o, in alternativa, arte di trattare i succhi vegetali. Si pensa che la chimica trovi le sue origini nell’alchimia. Non è propriamente vero, ma non è vero nemmeno che la chimica si possa considerare totalmente indipendente dall’alchimia. AlchimistiCome acutamente osserva Antonio Di Meo (Storia della Chimica, Il Sapere, Newton, 1994), per comprendere bene i rapporti fra chimica e alchimia, è necessario accennare anche al fatto che, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, soprattutto grazie alle concezioni del medico-chimico Paracelso, col termine alchimia si cominciò a indicare ogni trasformazione artificiale delle sostanze. S’iniziò a distinguere fra un'alchimia esoterica, legata alle finalità gnostiche e metafisiche e un’alchimia essoterica, più legata alle manipolazioni artigianali dei corpi naturali. Un esempio di questo slittamento di significato lo troviamo in Vannoccio Biringuccio. Intransigente critico dell'alchimia "sophistica, violenta e non naturale", dichiarava che esisteva un secondo tipo di alchimia che partoriva "ogni giorno nuovi e bellissimi effetti, oltre all'esser molto utile all'uso e commodita humana". Questo secondo tipo di alchimia sarà, in effetti, uno dei principali presupposti della moderna chimica sperimentale. L'alchimia, per mezzo della sua arte di purificazione di metalli imperfetti, non faceva altro che realizzare in termini riavvicinati quello che, secondo il decorso naturale, richiedeva tempi lunghissimi. Solo dal 1600 la chimica comincia lentamente a prendere una sua configurazione di scienza, pur mantenendo ancora molti aspetti contemplativi, mistici e filosofici. Citando ancora Di Meo, la chimica poteva essere considerata quasi sorella dell’anatomia, dato che cercava di dividere i corpi naturali per individuarne i componenti, ma fino a questo punto si limitava ad analizzare ciò che esisteva in natura. Nel Tyrocinium chymicum, Jean Beguin, seguace di Paracelso, sosteneva che la chimica indagava su un oggetto "aprendolo per vedere l'interno e il fondo della sua natura". La chimica era perciò la scienza degli oggetti che l’uomo non poteva comunque trasformare.
C’era però, parallelamente, un'altra chimica, detta iatrochimica (chimica medica), che aveva come scopo quello di operare, ma solo grazie alla conoscenza contemplativa acquisita per mezzo della chimica filosofica: in qualche modo, seppur gerarchizzato, la teoria e la pratica collaboravano.
Robert Boyle e Antoine Laurent Lavoisier introdussero il metodo quantitativo nello studio delle trasformazioni della materia, contribuendo a eliminare tutte le false credenze che avevano dominato fino a quel momento lo studio di tali fenomeni. L’irlandese Robert Boyle, che nel 1661 scrisse un’opera dal titolo The Sceptical Chymist, per primo formulò una definizione precisa di elemento chimico che esprimeva nei seguenti termini: “Io intendo per elementi certi corpi primitivi e semplici, che costituiscono gli ingredienti di cui sono fatti tutti gli altri corpi chiamati composti, e nei quali questi ultimi possono essere risolti”. The Sceptical ChymistTale definizione è valida ancora oggi: si tratta solo di sostituire la parola corpi con sostanze. I metalli non sono elementi e per tale motivo riteneva che questi corpi potessero trasformarsi gli uni negli altri come auspicavano gli alchimisti. Il fuoco ha la funzione di “congregare homogenea e segregare eterogenea”, altera la dimensione della forma e del movimento tanto da alterare la struttura dei corpi stessi. Nicolas Lémery nel Cours di Chimie, del 1675, supera la posizione di Boyle. Egli riteneva che gli elementi fossero presenti nel composto prima della sua risoluzione e quindi la loro esistenza non fosse dovuta all’azione del fuoco o di altri reagenti. Il fuoco nel rarefare la materia non può dare vita a una struttura completamente diversa di quella che aveva prima. Il fuoco invece “trasforma le sostanze ma non li principi”. Per il salto definitivo nel mondo della scienza mancava ancora l’applicazione, alla ricerca chimica, delle misure quantitative nonché quella delle tecniche matematiche. Verso la fine del 1600 nacque, ad opera del medico e chimico tedesco Georg Ernest Stahl (1660-1734), la teoria del flogisto (da un verbo greco che significa “bruciare” o “infiammare”) secondo la quale tutte le sostanze coinvolte nella combustione, liberano una sostanza che è appunto il flogisto. Le sostanze combustibili, affermava Stahl, sono ricche di flogisto e il processo di combustione determinava la cessione di questo non meglio specificato elemento all’aria, la quale lo trasferiva ad altri corpi che quindi diventavano a loro volta combustibili. Ciò che rimaneva dopo la combustione era privo di flogisto e quindi non bruciava più. Il flogisto, per fare un esempio, era presente nella legna, ma non nella cenere. La soluzione del paradosso fu trovata dal grande chimico Antoine Laurent Lavoisier. Egli dimostrò che nell’aria è presente un elemento particolare, un componente reattivo sia per le combustioni e sia per le calcinazioni, al quale fu dato il nome di ossigeno, parola che in greco significa generatore di acidi. In questo modo Lavoisier pervenne alla formulazione della legge della conservazione della massa, la quale con parole semplici afferma che “in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. Il Traité élémentaire de chimie (1789) di Lavoisier costituì le basi della nuova chimica del sec. XIX. Antoine LavoisierDagli ultimi decenni di tale secolo grandissima importanza è venuta assumendo, per la stessa ricerca pura, lo sviluppo dell’industria chimica nel campo dei prodotti organici di sintesi, dei derivati del petrolio e dei composti macromolecolari. Lo sviluppo della chimica ha contribuito a superare la visione della vita e dei meccanismi biologici come mistero, suggerendo invece come punto centrale della capacità vitale una raffinata organizzazione della materia, degna di studio e fonte di osservazioni scientifiche e applicazioni pratiche. Anche la nuova concezione della struttura dell'atomo di John Dalton e la possibilità di utilizzare le grandi quantità di energia in esso racchiuse rappresentano un'acquisizione fondamentale della chimica nel XX secolo. Bisogna ricordare lo sviluppo degli studi per la preparazione di nuovi composti chimici e a tal proposito non si può far a meno di citare l’italiano Giulio Natta e i suoi polimeri. E ancora, lo sviluppo delle tecniche di preparazione dei composti chimici ha permesso di aggiungere ai farmaci di origine vegetale o animale anche un grande numero di farmaci di sintesi. Nasce così una nuova chimica che studia il modo di migliorare la qualità della vita senza danneggiare l'ambiente e le persone.
Salvatore Califano in Storia della Chimica (Bollati Boringhieri, 2010) sostiene che la chimica sia parte fondamentale della cultura generale e ha avuto un impatto decisivo sulle società moderne. La nascita e la crescita della struttura e industriali e le trasformazioni sociali che ne sono derivate sono strettamente legate con lo sviluppo della chimica. Come conseguenza di questa sua natura complessa e articolata, la chimica oggi rappresenta il ponte naturale di collegamento tra discipline molto diverse eppure il contributo offerto a questi saperi resta spesso nell’ombra. Industria chimicaSpesso i mass media hanno contribuito a creare nell’opinione pubblica la convinzione che la chimica sia responsabile di alcuni tra gli aspetti più negativi delle società industriali, dall’inquinamento alle piogge acide, dall’adulterazione degli alimenti alla preparazione di droghe e veleni. Soltanto facendo rivivere la sua storia, conclude Califano, si può restituire alla chimica il ruolo importante nelle teorie della conoscenza, in particolare come conoscenza della struttura della materia da concepire come parte fondamentale della cultura dell’umanità. Ed è questo l’obiettivo che si pone l'Anno Internazionale della Chimica, inaugurato il 27 gennaio 2011 su iniziativa dell’Etiopia e promosso dalle Nazioni Unite. Sarà un’occasione per celebrare l’Arte e la Chimica e il suo contributo fondamentale alla Conoscenza, alla Tutela dell’Ambiente e allo Sviluppo economico.
Sotto la bandiera di "Chimica: la nostra vita, il nostro futuro", l’Anno Internazionale della Chimica cercherà di promuovere l’immagine della Chimica nell’opinione pubblica di tutto il mondo per diffondere la consapevolezza della sua importanza per una crescita sostenibile, in tutti gli aspetti della vita e delle attività umane.

Ioghà Antonella

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Le donne e la chimica

Il 2011 è l'Anno Internazionale della Chimica: lo ha proclamato l'ONU affidando la responsabilità dell’evento all’UNESCO, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, e a IUPAC, l'Unione Internazionale della Chimica Pura ed Applicata.

La chimica è fondamentale per la nostra comprensione del mondo e dell’universo. Le attività nazionali e internazionali che si svolgeranno nel 2011 svilupperanno e approfondiranno tutti i campi del sapere in cui la chimica svolge un ruolo strategico in quanto scienza pura (chimica di base) e in integrazione ad altre scienze, quali la fisica (astrochimica), la biologia (biochimica, neurochimica), l’industria (chimica di sintesi e industriale, chimica dei materiali). In particolare si affronterà il ruolo della chimica nella preservazione delle risorse naturali e nella tutela dell’ambiente e il suo impatto nello sviluppo economico e nell’innovazione sostenibile.

Nel 2011 si celebra anche il centesimo anniversario dell’assegnazione del Nobel per la chimica a Marie Curie: un'opportunità per celebrare il contributo delle donne nella scienza, e un’occasione per riflettere su quale sia stata la condizione delle donne scienziate nei secoli passati e quale sia adesso. Il libro European Women in Chemistry, realizzato dall’European Association for Chemical and Molecular Sciences (EuCheMS) edito proprio in occasione dell’anno internazionale della Chimica celebra il ruolo delle donne europee nello sviluppo di questa disciplina. Nel volume si racconta la storia scientifica e personale di cinquanta studiose di chimica e i sacrifici che molte di queste grandi donne scienziate hanno dovuto superare per lasciare il segno agli albori di questa disciplina. Dai personaggi più noti, i premi Nobel Marie Curie, Irène Joliot-Curie, Dorothy Crowfoot Hodgkin, Ada Yonath a donne meno note al grande pubblico, ma i cui contributi scientifici sono stati di vitale importanza per il progresso della chimica.

Ripercorriamo qui in breve le biografie e le principali scoperte scientifiche di alcune di queste grandi scienziate, unite tra loro da una passione, la chimica.

Marie CurieLa più famosa è Marie Curie che ha ottenuto un primo premio Nobel per la fisica (con il marito Pierre Curie e Antoine Henry Becquerel) nel 1903 e un secondo premio Nobel nel 1911 per la Chimica. Marie Curie (1967- 1934) nasce a Varsavia in Polonia ma studia chimica e poi fisica alla Sorbonne (l’università è interdetta alle donne in Polonia).  A Parigi conosce anche il futuro marito Pierre Curie, professore di fisica. Insieme i coniugi Curie riescono a identificare due nuovi elementi chimici il polonio e il radio e a descrivere il fenomeno della radioattività, già scoperta da Henry Becquerel, come proprietà intrinseca atomica di alcuni elementi. Il Nobel in Chimica del 1911 viene assegnato a Marie Curie per essere riuscita ad isolare polonio e radio puri. Marie Curie muore di leucemia nel 1934 probabilmente a causa delle radiazioni a cui è stata esposta durante la sua attività di ricerca.

Nel 1935 viene assegnato il premio Nobel per la chimica alla figlia di Marie Curie, Irène Joliot-Curie (1897-1956) e al marito Frédéric Joliot per la scoperta della radioattività artificiale in particolare per essere riusciti a generare isotopi radioattivi sintetici a partire da alcuni elementi non radioattivi.

Irène e Frédéric Joliot-Curie Irène e Frédéric Joliot-Curie.

Anche Irène Joliot-Curie muore di leucemia poco più di vent’anni più tardi. Non solo donne di scienza, Marie e Irène Curie sono attive durante la prima guerra mondiale con unità da campo, le petit Curie, automobili attrezzate con apparecchiature a raggi X. Inoltre Marie Curie fonda nel 1912 l'Institut du Radium, che dirige fino al 1932 quando la direzione passa alla figlia Irène. Oggi chiamato Institut Curie, il centro è tuttora un'importante istituzione scientifica per la ricerca sul cancro. I raggi X sono stati quindi fondamentali per le successive scoperte in campo chimico e biochimico come strumento in grado di studiare la forma e la struttura delle proteine presenti nelle cellule.

Dorothy Crowfoot HodgkinNel 1964 il premio Nobel per la Chimica è assegnato a Dorothy Crowfoot Hodgkin (1910-1994), biochimica inglese, per la determinazione della struttura della cobalammina-vitamina B12 attraverso l’analisi cristallografica. La cristallografia è una tecnica che permette di determinare la struttura tridimensionale di una molecola attraverso l’immagine che essa produce quando viene attraversata da un fascio di raggi X. Tra le molecole identificate oltre alla vitamina B12, il colesterolo, l’insulina e la penicillina. In particolare i dati ottenuti sulla penicillina hanno permesso di progettare e sintetizzare altri antibiotici fondamentali per la cura delle malattie infettive. Dorothy Crowfoot Hodgkin diviene membro della Royal Society nel 1947 e membro dell'American Academy of Arts and Sciences nel 1958. Nel 1965 le viene conferita la più alta onorificenza inglese dalla regina Elisabetta II: viene infatti nominata membro dell' Order of Merit. In seguito si impegna per il diritto allo studio e per l'ottenimento della pace nel mondo, istituendo a Bristol nel 1970 la Hodgkin Scholarship e la Hodgkin House per favorire il diritto allo studio degli studenti provenienti dai paesi africani e asiatici.

Nel 2009 il Nobel per la chimica è assegnato ancora a una biochimica e ancora per la determinazione di biomolecole attraverso cristallografia a raggi X. 

Ada YonathAda Yonath (1939), biochimica israeliana, insieme con Venkatraman Ramakrishnan e Thomas Steitz ha determinato la struttura della subunità maggiore dei ribosomi. I ribosomi sono piccole strutture subcellulari responsabili del trasferimento dell’informazione genetica dal DNA alle proteine. Inoltre Ada Yonath ha sviluppato una nuova metodologia chiamata criocristallografia in cui le proteine da analizzare vengono sottoposte ad un processo di congelamento rapido per ridurre il danno causato dai raggi X.

Rosalind FranklinUn’altra biochimica cristallografa di alti meriti scientifici ma meno fortunata è Rosalind Franklin che ha dato un contributo fondamentale alla scoperta della struttura del DNA. Rosalind Franklin (1920-1958) ebrea inglese studia e lavora a Londra e ottimizza l’analisi cristallografica per la determinazione della struttura del DNA, la molecola biologica contenuta nei cromosomi e che codifica l’informazione genetica. Le immagini del DNA ottenute dalla Rosalind Franklin in cristallografia (la famosa fotografia 51) sono state usate da Watson e Crick senza il suo consenso e senza alcun riconoscimento formale per costruire la struttura del DNA e suggerire il suo ruolo biologico. Watson, Crick e il collega di Rosalind Franklin, Maurice Wilkinson vincono il premio Nobel per la Medicina nel 1962, mentre Rosalind Franklin muore nel 1958 per un tumore alle ovaie contratto a causa delle lunga esposizione ai raggi X.

Nell’anno internazionale della chimica è giusto rendere omaggio a tutte le donne che con abnegazione, passione, creatività e con la loro vita hanno dato un contributo fondamentale alle scoperte scientifiche, che hanno dovuto lottare contro i pregiudizi e le discriminazioni, e che hanno contribuito giorno dopo giorno silenziosamente al miglioramento delle conoscenze scientifiche e all’avanzamento della ricerca.

Ilaria Canobbio

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La chimica che aiuta la vita

È il 25 Aprile del 1953 e la rivista Nature pubblica una paginetta con due colonne di testo dove è inserita la struttura a doppia elica del DNA, un immagine che diventerà simbolo di un’epoca.
Francis Crick e James WatsonAbbastanza incredibilmente, ricorda James Watson che, a scoprire la struttura caratteristica della molecola, furono un biologo e un fisico Francis Crick che possedevano una padronanza della chimica “nemmeno a livello scolastico”.
Oggi sappiamo benissimo che per arrivare a tale scoperta i due utilizzarono, in modo lecito e non, dati prodotti da dei chimici.
Maurice Wilkins che insieme ai due vinse il Nobel, portò infatti in “dono” la foto ai raggi X del DNA fatta dalla chimica Rosalind Franklin o, per dirla alla Watson, “dalla terribile e bisbetica Rosy”. Crick scrivendo a Wilkins ammetterà il “furto” ma lo giustificherà dicendo: ”Speriamo che il nostro furto possa almeno ricompattare il tuo gruppo”. Alludeva ai dati che lo stesso Wilkins aveva loro mostrato senza il consenso della Franklin e all’astio tra i due.
Watson e Crick  riuscirono a comprendere meglio la struttura del DNA, la sua funzione e la sua importanza utilizzando anche grazie ai dati ottenuti da Erwin Chargraff , il quale senza l’utilizzo delle tecniche cromatografiche non sarebbe mai riuscito a stabilire che nel DNA vi è un rapporto 1:1 fra adenina e timina, e fra citosina e guanina, le quattro basi azotate che lo compongono.
La scoperta del DNA pone le basi per la nascita della biologia molecolare. Ma cosa è la biologia molecolare? Quando è nata e su quali basi si poggia? La risposta si può trovare in una frase di  Warren Weaver, direttore della Rockefeller Foundation, che per primo nel 1938 impiegò il termine “biologia molecolare”, riferendosi alla chimica che sta nella vita: “Possiamo dire che ogni biologo molecolare, quando lavora sul bancone, fa un po’ di reazioni chimiche, magari senza saperne bene le formule… essendo probabilmente più interessato al DNA, alla sua sequenza, alle sue mutazioni”.
La biologia molecolare, studia quindi le reazioni chimiche delle e fra le macromolecole come il processo di trascrizione del DNA, questa “nuova” branca della biologia non è nient’altro che un evoluzione della “vecchia” biochimica e oggi la reazione biochimica che domina i banconi di biologia molecolare è la reazione polimerasica a catena, cioè la PCR . Kary B. MullisE’ la tecnica per eccellenza alla base della biologia molecolare. Questa invenzione, a opera del biochimico americano Kary B. Mullis, ha rivoluzionato lo studio dei genomi. E’ infatti una reazione chimica in grado di produrre miliardi di copie assolutamente identiche di qualsiasi frammento di DNA. Avere tanto DNA, soprattutto nella regione che interessa studiare, è fondamentale per qualunque applicazione di biologia molecolare. “La PCR è la tecnologia scientifica più importante degli ultimi cento anni”, ha detto il genetista americano Mark Hughes, uno dei responsabili del Progetto Genoma Umano. Ben meritato quindi è il Premio Nobel per la Chimica conferito a Kary Mullis nel 1993.
La scoperta del DNA rappresenta forse il capitolo più importante del rapporto fra chimica e biologia, ma lo stretto legame che intercorre fra la biologia e la chimica si sviluppa già agli inizi dell’Ottocento, quando ormai è chiaro che la vita, in termini chimici, è una combinazione fondamentale di carbonio, ossigeno, azoto.
Tutte le funzioni vitali, dalla respirazione alla riproduzione, dal metabolismo alla vista, dalla possibilità di provare dolore e piacere, di emozionarsi sono l’effetto di una serie di reazioni chimiche finemente regolate.
Il 1897 è l’anno della scoperta del primo enzima, la zimasi, a opera di Eduard Buchner che per questo lavoro riceverà il premio Nobel per la chimica nel 1907.
A partire dai primi decenni del secolo scorso il chimico anglo-tedesco Hans Adolf Krebs porta avanti indagini sul metabolismo intermedio e più precisamente sull’acido citrico.
Singolare poi il fatto come la rivista Nature rifiuterà il lavoro con il resoconto della caratterizzazione del ciclo di Krebs perché aveva articoli a sufficienza per riempire le proprie colonne per almeno sette settimane. In seguito Krebs utilizzerà quella lettera di rifiuto in molti suoi discorsi per incoraggiare i giovani scienziati.
Nel 1912, il biochimico inglese Gowland Hopkins e il polacco Casimir Funk descrivono compiutamente le malattie derivate da deficienze alimentari, e Funk, che lavorava in Inghilterra, propone il termine vitamin. Così epidemiologia e chimica affrontarono congiuntamente il problema di gravi patologie, quali il rachitismo e lo scorbuto arrivando a scoprire le vitamine.
A metà del ‘900 è il turno del chimico inglese britannico Frederick  Sanger che, lavorando con cromatografia ed elettroforesi su carta, arriva a determinare  la struttura primaria dell’insulina.
Una svolta nel pensiero biochimico riguardo alle proteine, infatti Sanger dimostra come la sequenza amminoacidica delle proteine avesse una struttura non periodica e una natura “individuale”.
Grazie alla grande conoscenza della natura dei legami chimici nel 1951 Linus Pauling scopre la struttura ad alfa-elica delle catene di amminoacidi dell’alfa-cheratina;  Max Perutz dal canto suo, otto anni dopo, scoprendo la struttura dell’emoglobina, avvalendosi della cristallografia.
Tante e tante ancora sono le storie che legano la chimica alla biologia, il 2011 sarà l’anno giusto per ricordarselo.

Francesco Aiello

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Chimica verde

 L’ondata di ottimismo e innovazione esplosa in Italia alla fine degli anni ’50, ha il volto della chimica, insieme al settore metallurgico e meccanico. Il settore chimico diventa un elemento determinante per lo sviluppo di tutta l’economia nazionale e attraverso la costruzione di grandi stabilimenti petrolchimici, l’Italia diventa il paese della chimica d’avanguardia. Ma l’entusiasmo viene presto placato dalla scoperta dei danni che potevano provocare le lavorazioni chimiche. Si comincia a diffondere l’opinione che le miriadi di innovazioni avute grazie alla chimica nascondono il rischio di veri e propri disastri per l’ambiente e per l’uomo. Si scopre che molte delle sostanze usate nella produzione sono tossiche e molte industrie non usano nessuna precauzione nella tutela ambientale. Uno dei primi disastri percepiti come tali dall’opinione pubblica e provocati dall’industria chimica è dovuto all’utilizzo nei campi di quantità sempre più elevate di pesticidi, prima accolti come grande innovazione poi invece, diventati veri e propri veleni . Nel 1963 Rachel Carson denuncia la situazione in un suo libro di grande successo, La primavera silenziosa, che ha scosso le coscienze degli americani fino a influire sulla politiche sull’uso dei pesticidi. Ora attraverso nuovi studi di design molecolare si stanno sostituendo i vecchi pesticidi policlorurati, resistenti alla degradazione chimica o microbiologica nell’ambiente, con i piretroidi, analoghi della sostanza della piretrina naturale, con bassa tossicità per gli organismi superiori.

Ma la percezione del rischio chimico diventa davvero diffusa con i grandi disastri chimici. Nel 1976 a Seveso, dove la fuoriuscita di una nube tossica contenente diossina, causa a circa 240 persone la cloracne, una dermatosi provocata dall’esposizione al cloro e ai suoi derivati , a Love Canal nel 1978 che portò all’evacuazione di un intero quartiere a Niagara Falls in seguito alla scoperta di rifiuti tossici sotterrati in quei terreni. E poi nel 1984 con il disastro di Bhopal in India, dove in seguito alla fuoriuscita di una “nebbia mortale” formata da derivati del cianuro da una fabbrica della Union Carbide causò 4.000 decessi .

In seguito a questi disastri ci si rese conto che le autorità erano impreparate a gestire i rischi derivanti da disastri chimici e si capì che era necessario regolamentare la produzione chimica. Così nel 1982 gli Stati dell’Unione Europea si sono accordati su una politica comune di prevenzione dei grandi rischi chimici attraverso la “direttiva Seveso” , prima di una lunga serie di leggi ambientali, volte alla regolamentazione della produzione chimica, alla salvaguardia dell’ambiente e alla protezione della salute dell’uomo .

Ma ora che la chimica viene percepita come un rischio, come bisogna comportarsi? E’ possibile vivere senza chimica? Sarebbe paradossale pensare, di estirpare tutto ciò che fa parte della nostra vita e che è frutto di produzione chimica. Significherebbe eliminare tutte le materie plastiche, vivere senza elettronica, ma anche senza forniture mediche e farmaci. Infatti nella fabbricazione di tutto questo vengono utilizzati pericolosi solventi e vengono prodotte grandi quantità di scarti tossici. Si dovrebbe cioè, modificare il nostro intero modo di vivere e ritornare ad uno stile di vita, preindustriale.

La presa di coscienza dei grandi rischi che la produzione chimica portava con sé, ha fatto sì che le grandi industrie di prodotti chimici si orientassero verso la chimica sostenibile. Il mondo della chimica, ha assunto un codice di comportamento che individua strategie precise di prevenzione dell’inquinamento, sia nel prodotto finito, sia attraverso la riconversione di vecchie tecnologie in nuovi processi ecocompatibili. Paul Anastas, docente della Yale University, direttore delle ricerche dell’Epa, Environmental Protection Agency, e ideatore della chimica sostenibile, insieme al suo collega John Warner hanno delineato le quattro idee alla base della “Green Chemistry”. La prima è quella di sviluppare processi che massimizzino la quantità di materia prima che entra a far parte del prodotto stesso, in modo da risparmiare sulle materie prime e di conseguenza sugli scarti da smaltire. La seconda spinge le industrie all’utilizzo di sostanze chimiche e solventi che siano sicure per l’ambiente o perlomeno ridurne l’utilizzo. La terza idea punta sull’utilizzo efficiente dell’energia, cioè produrre il più possibile utilizzando minore quantità di energia. L’ultima idea è quella che suggerisce di produrre meno scarti possibili. Da queste quattro idee principali gli ideatori hanno poi ricavato un elenco di 12 punti che costituisce il vero e proprio esoscheletro della Green Chemistry . Come afferma Paul Anastas nell’intervista rilasciata su Nature , l’obiettivo della chimica verde non è solo quello di ripulire l’ambiente , ma è quello di ridisegnare i processi chimici all’origine. Bisogna mirare a una chimica pulita dell’intero ciclo di produzione non solo del prodotto finito. Questi principi sono gli stessi che hanno contribuito alle varie campagne di sensibilizzazione da parte di Anastas e dei suoi alleati, come il “Presidential Green Chemistry Challenge”, che ogni hanno assegna cinque premi alle aziende che hanno mostrato di eccellere sulle altre nell’applicazione dei principi di sostenibilità. Grande importanza nella sensibilizzazione sulla chimica verde, è data dalla partecipazione volontaria al Responsible Care (www.responsiblecare.org) che incorpora tutte quelle industrie che perseguono miglioramenti nel settore dei processi chimici, sicurezza e prestazioni ambientali.

Oggi l’obiettivo dei nuovi laboratori chimici è quello di progettare nuovi composti e sviluppare nuovi metodi per rendere i vecchi composti più facilmente gestibili, si sta riducendo l’impatto ambientale e al tempo stesso si continua a innovare. <<Ora è possibile osservare le emissioni pericolose di numerosi prodotti tossici ed esaminare il loro impatto ambientale>>, afferma Beverly Thorpe dell’associazione Clean Production Action. Bisogna dunque domandarsi come la chimica possa diventare motore di sviluppo sostenibile e delineare un futuro alternativo, per un pianeta dove la popolazione umana è in continua crescita e le risorse sono limitate. È in quest’ottica che il Direttore Generale dell’UNESCO Koichiro Matsuura, durante la sessantatreesima sessione dell’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha affermato che la chimica ricopre un ruolo fondamentale nello sviluppo di fonti di energia alternative.

La chimica verde ha trovato una solida base soprattutto nell’industria farmaceutica, forse perché, come si legge nell’articolo di Nature “It’s not easy being green” di Katharine Sanderson: l’industria farmaceutica è quella che può guadagnarci di più. Gli impianti farmaceutici generano tipicamente fra i 25 e 100 chilogrammi di rifiuti per ogni chilogrammo di prodotto, un rapporto chiamato “fattore ambientale”, o “E-factor”. Un esempio lampante è dato dalla nuova sintesi dell’ibuprofene. Questa è una molecola con proprietà analgesiche e antiinfiammatorie presente in molti farmaci. La tradizionale sintesi consiste in un processo a sei stadi con la conseguente produzione di scarti da smaltire e altri sottoprodotti che necessitano una gestione separata. Una nuova sintesi industriale ha invece permesso di arrivare all’ibuprofene in soli tre stadi, il che ha ridotto la quantità di sottoprodotti non desiderati e ha diminuito i costi di smaltimento e trattamento dei rifiuti.

Un’altra esperienza degna di nota è quella dell’industria Pfizer e la sintesi del farmaco anti- impotenza “Viagra”. Prima che il farmaco andasse in commercio nel 1998, un team della Pfizer ha riesaminato e riorganizzato ogni fase della sintesi all’impianto di Sandwich, nel Regno Unito. Ha sostituito i solventi clorurati con altri meno tossici, ha introdotto processi volti a recuperare e riutilizzare questi solventi, e ha eliminato la necessità di utilizzare il perossido di idrogeno che poteva causare ustioni. Infine ha eliminato il bisogno di Oxalyl Cloruro, un reagente che durante le reazioni produce monossido di carbonio. Peter Dunn, leader della squadra di sintesi del Viagra ha commentato i risultati affermando che l’industria Pfizer ha ridotto l’E-factor nell’anticonvulsionante “lyrica”, con miglioramenti simili per l’antidepressivo Sertalina e negli antinfiammatori Celecobix, i tre prodotti da soli sono riusciti ad eliminare più della metà di un milione di tonnellate di rifiuti chimici. Il risparmio nelle materie prime e nell’utilizzo di energia, i costi di smaltimento degli scarti e le eventuali sanzioni dovute all’inquinamento arrecato, sono degli ottimi incentivi per le industrie che scelgono la chimica verde. Nell’etica della green chemistry non si valuta più semplicemente la resa di una reazione, ma si prendono in esame vari altri criteri: i materiali possono essere prodotti da fonti rinnovabili? Si producono sottoprodotti tossici? Si può evitare la loro produzione? Quanti scarti vengono prodotti? E’ efficiente sotto un profilo energetico? Fino a poco tempo fa questi parametri non erano incisivi nell’ identificare un processo chimico come preferibile ad un altro, ma oggi nei nuovi laboratori chimici, se si sottoponessero queste domande agli studenti, questi modificherebbero la loro visione delle reazioni chimiche? La sostenibilità del prodotto e del processo chimico, è diventata un valore aggiunto o il lavoro di Anastas e della sua squadra è solo un fenomeno isolato? Sicuramente quando questo processo di cambiamento sarà completo e la sostenibilità di un prodotto sarà un parametro fondamentale, allora si parlerà di svolta epocale.

Eugenia Borgia

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Il fascino discreto della chimica

Sebbene penalizzata da una comunicazione mediatica negativa, la chimica è intimamente correlata alle nostre vite e forse ci stupiremmo nel contare quanti prodotti esistono solo grazie al lavoro dei chimici e alle loro scoperte.

Industria chimicaDel resto la natura stessa è fatta di atomi e di molecole, in equilibrio dinamico. Eppure, nella percezione pubblica, l’immagine dell’industria chimica è spesso sinonimo di rischio. Ma da quando la chimica ha cominciato ad avere nella percezione delle persone il significato di “veleno”, “innaturale”, “sporco”? Da quando la chimica ha assunto la connotazione negativa che ancora oggi ne condiziona la valutazione da parte dell'opinione pubblica?

Sarà utile, a questo proposito, dare uno sguardo d'insieme a come la scienza e, nel caso specifico, la chimica siano state raccontate da letteratura e pubblicità: media diversi ma ugualmente pervasivi. Le immagini proposte dal testo letterario e da quello audiovisivo hanno fatto presa sull'emotività popolare, costruendo un immaginario ideale, spesso, purtroppo, sganciato da qualsiasi attinenza al reale.

A proposito di chimica, molti scrittori si sono sporcati le mani con quella che è considerata una materia complessa, addirittura “puzzolente”, se confrontata con la pura fisica. Goethe offre un esempio di come i legami tra le molecole possano diventare lo spunto per narrare umane storie d'amore; Le affinità elettive tra i reagenti chimici non differiscono più di tanto dall'attrazione che si prova tra un uomo e una donna. Il fascino che la chimica esercitò sullo scrittore tedesco fu tradotto in pagine memorabili che resero molecole e reazioni appassionanti quanto una love story.

In Italia fu Primo Levi a narrare di chimica dalle pagine dei suoi libri; in particolare ne Il sistema periodico, dove affiora la competenza scientifica dello scrittore e la sua mai sopita infatuazione per gli elementi chimici. Tanto da scrivere una raccolta di ventuno racconti, ognuno dei quali reca il nome di uno degli elementi della tavola di Mendeleev. In un'intervista rilasciata a Philip Roth, l'autore di Se questo è un uomo spiega: «...devo ammettere che non c'è contraddizione tra l'essere un chimico e l'essere uno scrittore: c'è anzi un reciproco rinforzo».

E come non ricordare, in questa rapida carrellata di “scrittori da laboratorio”, un altro italiano, Alberto Cavaliere, poeta, laureato in chimica?

Cavaliere espresse bene, con rime giocose, nel suo libro Chimica in versi, la vicinanza feconda tra chimica e letteratura. Si dice che l'innovativo esperimento poetico nacque per caso, durante un esame all'università, quando, incalzato dalle domande del docente, Cavalieri decise di rispondere letteralmente per le rime. Il risultato fu una serie di versi stravaganti e divertenti come questo sul cloro: «Composto trovasi, puro non già,/per la sua massima affinità/ Giallo-verdognolo, d'odor non grato,/è un gas venefico, che ci vien dato».

Questi sono solo alcuni esempi di come la chimica fu, in un passato più o meno recente, presa, usata e trattata dagli scrittori. Il rapporto tra i due mondi non fu quasi mai conflittuale, tanto che i letterati la usarono come potente mezzo di ispirazione e i chimici sfruttavano il fascino che questa materia esercitava per poter assoldare giovani leve da formare nei laboratori.

Tuttavia, il forte appeal è diminuito sensibilmente negli ultimi trent'anni e così, quando nel 2008 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 2011 “Anno internazionale della chimica” certamente aveva ben presente l'importanza vitale che questa branca della scienza ha avuto nello sviluppo della cultura umana: da Paracelso a Pasteur, passando per Marie Curie che, esattamente cento anni fa riceveva dall'Accademia Reale Svedese delle Scienze il premio Nobel per i suoi studi sul radio e sul polonio (sempre lei aveva ricevuto otto anni prima anche il Nobel per la fisica). L’importanza pratica delle scoperte ottenute grazie al sapere chimico è, come si è detto, inversamente proporzionale alla considerazione che ne ha il grande pubblico ai giorni nostri. Oggi la valutazione della chimica e delle sue implicazioni nella realtà quotidiana sembra stridere con l'idea, radicata nel senso comune, di naturalità.

Ecco spiegato lo scopo della celebrazione voluta dall'Onu che mira, infatti, a sensibilizzare maggiormente l'opinione pubblica sul valore della chimica e a renderne più brillante l'immagine. Come ha sostenuto il direttore generale dell'Unesco, Koichiro Matsuura: «Accrescere la consapevolezza sulla chimica è ancora più importante se pensiamo alla sfida rappresentata dallo sviluppo sostenibile. È sicuro che la chimica giocherà un ruolo importante nello sviluppo di fonti alternative di energia e nel provvedere al sostentamento della popolazione mondiale».

Il disastro di Bhopal, India 1984Il disastro di Bhopal, India 1984

Ai giorni nostri, spesso, allo stereotipo del chimico, scienziato dai capelli arruffati, tra le ampolle del suo laboratorio, intento a studiare formule complesse, subentra un'immagine meno romantica. Il chimico è l'inquinatore, l'uomo che lavora dietro le quinte per mettere a punto preparati pericolosi e nocivi per l'uomo e l'ambiente. A contribuire alla costruzione dell'immaginario negativo hanno influito decisamente alcuni disastri ambientali causati da incidenti a impianti chimici. Il più terribile, provocato da una funesta nube tossica, fu quello di Bhopal, in India, nel 1984 che provocò migliaia di morti (quasi diecimila, secondo le autorità indiane). In Italia Seveso, nel 1976, rappresentò l'apice del terrore legato all'intossicazione da sostanze chimiche. Il risultato è che oggi chiunque parli di chimica rischia di essere accomunato allo sviluppo dell'industria chimica, recando in sé anche le inevitabili connotazioni negative.

A questo punto la questione diventa, di diritto, appannaggio dei comunicatori. Infatti, a causa del 'salto semantico' che ha subito il termine 'chimico' (dal laboratorio e dalle formule all'industria e allo sfruttamento senza scrupoli delle risorse), è necessario mettere in campo le capacità dei comunicatori per ripristinare il giusto valore scientifico della chimica e rimuovere gli stereotipi e le associazioni grossolane che albergano, oggi, nel senso comune.

Le competenze dei comunicatori, di coloro che si occupano di strutturare e realizzare la comunicazione pubblicitaria, sino a oggi, sono state messe in gioco per arginare la diffidenza dell'opinione pubblica verso i prodotti commerciali.

La strategia attuata, però, è stata un colpo tremendo per l'appeal, già in caduta libera, della chimica. Si è innestata immediatamente una contrapposizione tra 'naturale' e 'chimico', ovvero bene contro male (una versione riveduta, ma non corretta, della contrapposizione natura versus cultura, così ricca di spunti per antropologi, sociologi e narratori). Davanti a una simile contesa chiunque si sentirà romanticamente attirato verso il naturale, verso ciò che è privo di contaminazione, ripudiando tutto ciò che riguarda l'artificiale, il chimico. Rispetto agli esempi letterari proposti all'inizio c'è un abisso.

agricoltura biologicaI piani comunicativi costruiti dai mass-media operano una mistificazione del vocabolo 'chimico', dovuta sia a esigenze commerciali, sia ad una volontà strumentale di evocare lo scontro tra 'naturale' e 'artificiale' (chimico). Un esempio per tutti: il caso delle colture biologiche. La stragrande maggioranza delle pubblicità di prodotti biologici tende a sottolinearne la purezza e la mancanza dell'utilizzo di pesticidi, ma, come scrive il giornalista e scrittore Antonio Pascale: «Questo slogan non è propriamente esatto […] anche nel biologico ogni varietà può essere trattata con vari prodotti chimici e la dicitura “naturale” che li accompagna è naturalmente priva di significato. Per esempio l'uso dei prodotti rameici […] vanta una lunga tradizione tanto da essere annoverato […] tra i prodotti consentiti dall'agricoltura biologica. [..] il rame però non è privo di effetti collaterali […] il rame può seriamente danneggiare lombrichi, funghi e batteri utili perché responsabili del degradamento della sostanza organica e gli azotofissatori. Il rame viene rilasciato in acqua e qui diventa molto tossico».

L'uso del termine 'chimico' usato nella sua accezione negativa è onnipresente nella comunicazione pubblicitaria. Soprattutto quando si parla di alimenti, ecco che rispunta la dicotomia tanto falsa quanto fuorviante. 'Privo di additivi chimici' è una locuzione che garantisce meglio di mille parole e di altrettante prove che il prodotto è di qualità e può essere acquistato senza temere alcuna intossicazione. Sempre Pascale nel suo libro ricorda che la DuPont è stata costretta a ritirare uno slogan che recitava così: «Più sicuri grazie alla chimica». Una frase vera, storicamente fondata e dimostrabile in numerosi modi. Ma i consumatori non hanno apprezzato e la legge del marketing ha prevalso, sacrificando verità accertate e secoli di migliorie ottenute grazie allo studio dei dottori in chimica. Quando si pubblicizza un prodotto alimentare, una nuova fragranza di profumo, un sapone delicato, i teorici del marketing solitamente evitano di dire che alle spalle di quel prodotto eccellente c'è un equipe di ricercatori in chimica, che con sapienza e meticolosità hanno sperimentato e combinato reagenti sino ad ottenere il risultato finale.

Di questo lavoro nulla si può comunicare. Se le celebrazioni organizzate dall'Onu vorranno avere successo, oltre ai cambiamenti sostanziali evocati, dovranno quindi mettere in conto anche una revisione del processo di comunicazione della chimica; cominciando con il rivalutare positivamente la figura del chimico, senza accostarla grossolanamente all'industria chimica, o, peggio, a quell'immagine stereotipata dell’industria chimica, che la vuole piena di cisterne colme di pozioni fumanti e inquietanti dove sono realizzati prodotti nocivi per l'uomo. La vita quotidiana è un costante processo chimico, a volte molto complesso: dal nostro corpo alla fotosintesi gli esempi sono innumerevoli. Affidarsi a esperti decrittatori di questi codici complessi è necessario per non trovarci in serie difficoltà.

Oltre a dedicarsi alla comunicazione, molti ritengono che un altro rimedio a questa tendenza può essere quello di impostare una nuovo modello didattico per l'apprendimento delle scienze, e, ovviamente, della chimica. Connetterla – dicono - con la letteratura, visti i forti richiami storici, coinvolgere gli studenti attivamente, facendo sporcare loro le mani. La chimica resta una delle discipline più difficili per antonomasia, affossarla ancora di più rendendola anche poco attraente e connotandola negativamente potrà essere un'operazione che avrà costi altissimi in termini di ricerca futura.

Le conclusioni? Non possono che essere riservate ad un altro esponente di spicco del ramo; Roald Hoffmann, premio Nobel nel 1981, considera l'ignoranza della chimica un ostico impedimento alla realizzazione di una società pienamente democratica. La chimica deve sapersi vendere bene, al contrario di quel che accade oggi, ma ogni singolo cittadino ha il dovere di informarsi su un campo dello scibile così determinante per la propria vita: «Nuovi chimici, brillanti trasformatori di materia, usciranno dai corsi di chimica. Essi però non saranno in grado di sfruttare appieno le loro potenzialità se noi non insegneremo a quel 99 % di persone che non sono chimici, cosa fanno i chimici».

Giuseppe Scintilla

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Il fascino delle reazioni chimiche nell'arte di Gilberto Zorio

Il 2011 offre ai comunicatori della scienza un'interessante opportunità: avvicinare il grande pubblico alla chimica. L'occasione è rappresentata dalla scelta di dichiarare il 2011 “Anno Internazionale della Chimica”, decisione dell'Onu - formalmente - motivata dall'anniversario dell'assegnazione del Premio Nobel per la chimica a Marie Curie (1911).

Un percorso esplorativo

Richiamare l'attenzione del pubblico sulle problematiche e peculiarità della chimica implica un impegno consistente, ma anche un importante sforzo creativo. Il processo comunicativo deve  riuscire ad affermare la centralità e rilevanza della chimica nella nostra società, e al contempo stimolare l'immaginazione del pubblico.

All'interno di questo scenario può risultare efficace raccontare le connessioni esistenti tra la chimica e altri settori creativi della nostra società, come ad esempio l'arte. L'arte si è relazionata con la chimica soprattutto attraverso un legame di tipo strumentale. Le conoscenze della chimica sono state infatti ampiamente utilizzate nel mondo dell'arte: dalle tecniche dell'affresco, all'incisione, o alla più recente fotografia. L'arte si è inoltre avvalsa della chimica non solo nella fase di produzione, ma anche nel recupero, ovvero nello sviluppo delle tecniche di restauro.

Appaiono invece meno numerosi i casi in cui la chimica diviene oggetto di riflessione artistica. In tal senso può essere stimolante prendere in considerazione un episodio di questo tipo, rappresentato dal lavoro di uno dei massimi autori dell'arte italiana contemporanea: Gilberto Zorio.

Il movimento artistico dell'Arte Povera

Accostarsi all'opera di Zorio significa inevitabilmente avvicinarsi all'Arte Povera, una delle avanguardie artistiche più importanti della seconda metà del novecento. Sulla base di questo presupposto è utile soffermarsi brevemente sul movimento dell'Arte Povera, presentando alcune delle sue principali caratteristiche.

Il nome di questo movimento si deve a Germano Celant, importante critico d'arte italiano, che negli anni '60 organizzò diverse mostre, in cui riuscì a riunire il nucleo costitutivo di coloro che successivamente saranno ritenuti i principali esponenti dell'Arte Povera (tra cui: Anselmo, Penone, Kounellis, Pistoletto, Merz, Pascali e lo stesso Zorio) (GALLERIA 1).

Nonostante i rapporti con artisti e movimenti stranieri, i riferimenti culturali di questa corrente sono stati principalmente italiani. Ad esempio la figura di Pasolini, con la sua critica verso la nascente società dei consumi, ha giocato un ruolo fondamentale per lo sviluppo dell'Arte Povera. Per quanto riguarda invece il campo delle arti visive, gli artisti che hanno esercitato una maggiore influenza su questo movimento sono stati altri autori italiani, tra cui Alberto Burri, Lucio Fontana e, soprattutto, Piero Manzoni.

L'Arte Povera presta una particolare attenzione ai concetti e alle idee, piuttosto che agli aspetti meramente estetici dell'opera artistica, motivo per cui viene universalmente ritenuta una forma d'arte di tipo concettuale. Essa ripone inoltre un'enfasi particolare sulla scelta dei materiali e le fasi di produzione. Di fatto, a causa di questo peculiare interesse per i processi di formazione dell'opera artistica, è considerata un'arte processuale. Questi ultimi elementi – fascinazione per i materiali e processualità della pratica artistica – vengono ulteriormente approfonditi da Zorio, il quale, rivolge la propria riflessione soprattutto sui processi di trasformazione della materia.

Le trasformazioni chimiche in Zorio

“Ogni essere umano è un recipiente di minerali e di acqua, le sue vene, i polmoni e organi sono uno straordinario laboratorio chimico fatto di tubi e alambicchi.”

In occasione dell'esposizione organizzata dall'Instituto Valenciano de Arte Moderno (IVAM) nell'Iglesia del Carmen (Valencia), Zorio rispondeva così alla domanda di Celant circa il frequente uso di tubi dalmine in molti dei suoi lavori. Tubi e alambicchi sono infatti due degli elementi ricorrenti di una riflessione incentrata sulla trasformazione, intesa da Zorio come modificazione della materia e passaggio di energia. Trasformazione spesso declinata attraverso l'uso di reazioni chimiche. Probabilmente sono questi i concetti chiave dell'arte di Zorio, un universo in cui elementi archetipici e materiali poveri collaborano per innescare suggestive esperienze nello spettatore

tenda Tenda (1967), di Gilberto Zorio

Zorio, nato a Andorno Micca (Biella) nel 1944 e formatosi all'Accademia Albertiana di Torino, è, fin da dagli inizi della sua carriera, attratto dai processi di trasformazione. Fascinazione che emerge in opere come “Tenda” (1967), in cui l'artista, ricostruendo la struttura di una tenda da campeggio, intende riprodurre il processo di evaporazione dell'acqua marina, o “Piombi” (1968), nella quale ogni estremità di un arco di rame è immersa in una vasca di piombo diversa per il composto contenuto (solfato di rame e acido cloridrico), innescando una serie di reazioni di ossidazione capaci di modificare i materiali impiegati.

Piombi Piombi (1968), di Gilberto Zorio

Il lavoro di riduzione compiuto sugli oggetti, e quindi sui materiali, prosegue negli anni '70, periodo in cui l'operazione di “impoverimento” si rivolge sempre più verso i segni. È in questo contesto che inizia la sua riflessione su alcuni archetipi - la stella, il giavellotto, la canoa e il crogiolo – mantenendo comunque accesa la propria curiosità per la potenzialità e l'energia della materia. Il più utilizzato tra gli archetipi è sicuramente quello della stella, che è concepita da Zorio come «la proiezione del cosmo nella nostra considerazione delle cose, archetipo che l'essere umano sceglie quale unità di misura dell'incommensurabile». La stella, simbolo atavico che rimanda al mondo metafisico, è riprodotta utilizzando materiali diversi (terracotta, piombo, rame, ecc.), secondo  dimensioni differenti e in relazione con i contesti in cui viene creata ed esposta. Ad esempio, nell'ultima mostra dedicata a Zorio presso il Museo di Arte Moderna di Bologna (MAMbo), Torre-Stella-Bologna, unico lavoro creato appositamente per quell'evento, insiste, come il titolo lascia presagire, proprio sull'archetipo della stella. L'opera, costruita come un intervento architettonico utilizzando mattoni in gasbeton, è un'enorme stella al cui interno è posizionato un alambicco, visibile solo attraverso un piccolo foro tra le pareti della “Torre-stella”. La forma dell'opera è  lievemente avvertita dallo spettatore, il quale può però coglierla a pieno dai piani superiori del museo bolognese. L'installazione è stata inoltre creata considerando le caratteristiche e la storia dello spazio espositivo del MAMbo, cercando di relazionarsi con la storia dell'edificio, che originariamente era la sede dell'antico panificio comunale della città. In definitiva, il visitatore ha l'opportunità di vivere un'esperienza complessa, intrinsecamente legata alla presenza di elementi in trasformazione (dall'accompagnamento musicale all'illuminazione, senza dimenticare i reagenti presenti all'interno dell'alambicco), che conferiscono al lavoro una forte dinamicità.

La stella è la protagonista anche di “Fontana Arbitraria”, installazione permanente realizzata nel Parco di Poggio Valicaia del comune toscano di Scandicci. In questo caso le trasformazioni chimiche giocano un ruolo secondario, mentre appaiono valorizzati l'energia dell'acqua e il contesto in cui si ritrova l'opera, insistendo sul dialogo tra l'intervento umano e lo scenario naturalistico del parco.

Le trasformazioni in Zorio sono quindi intenzionalmente contestualizzate, sia in una dimensione spaziale (il luogo) che temporale (la durata). La dimensione temporale acquista una peculiare rilevanza, facendo sì che i suoi lavori non possano mai considerarsi definitivamente conclusi, essendo piuttosto in continua mutazione. Una simile concezione del processo artistico poggia anche sulla figura di «un autore non creatore ma demiurgo, che plasma la materia perché il mondo accada, e in questo senso quel che accade del mondo e nel mondo non è sotto il controllo, sotto la mente razionale di un'artista ma è oggetto di un processo magico-alchemico-artistico». Quest'ultima affermazione, pronunciata da Gianfranco Maraniello (direttore del MAMbo e curatore anche di un'altra mostra, sempre dedicata a Zorio, realizzata nel Centro Galego de Arte Contemporánea di Santiago di  Compostela), rimanda a un concetto spesso accostato alla produzione artistica di Zorio: l'alchimia, un sistema filosofico esoterico da alcuni considerato il precursore della chimica premoderna e prescientifica. L'alchimia, proprio per la sua dimensione esoterica, probabilmente si rivela più attraente per il mondo dell'arte rispetto alla chimica, poiché capace di evocare una potente carica di mistero e di magia, e quindi di sorprendere il pubblico. Questo aspetto andrebbe però analizzato più in profondità, considerando un congiunto di fattori caratteristici dell'arte di Zorio (le sue procedure ed espressioni, e non da ultimo, la sua formazione) e, più in generale, della relazione tra arte e scienza, due modalità di conoscere e immaginare il mondo differenti e tuttavia in dialogo.

Torna quindi la suggestione di entrare in contatto con la scienza, e in più in particolare con la chimica, anche attraverso l'arte, un percorso chissà atipico, ma efficace per coinvolgere il pubblico e la sua immaginazione.

Carlo Tartivita

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Chimica e beni culturali: intervista a Luigi Campanella

Atomi e molecole non sembrano avere molto a che fare con l’arte e le espressioni culturali umanistiche in genere. Eppure già durante i primordi dell’arte pittorica, la scelta dei pigmenti per la pittura murale etrusca e romana, ad esempio, veniva fatta in base alle proprietà di materie prime provenienti da giacimenti naturali. Una selezione, questa, spesso inconsapevolmente di carattere chimico, che venne perfezionata poi durante il rinascimento: Raffaello, Leonardo, Piero della Francesca, Masaccio sono tra i principali creatori di nuove tecniche pittoriche ottenute mescolando i pigmenti naturali con ‘leganti’ organici – come uovo, colla e caseina. In epoca moderna la chimica può spingersi ancora più a fondo, offrendo sofisticate tecniche sia per studiare le proprietà più ‘intime’ dei materiali costituenti un’opera d’arte e il suo stato di degrado sia per contribuire con processi e prodotti innovativi alle fasi di restauro. Si tratta di un ruolo affascinante quanto indispensabile per preservare il patrimonio storico-artistico dei beni culturali, di dimensioni eccezionali nel nostro Paese.  Eppure, nonostante atomi e molecole siano i costituenti primi dei beni artistici e i meccanismi che ne regolano le attività il supporto per la loro conservazione, anche in questo caso il contributo della chimica passa in secondo piano. La responsabilità sta, probabilmente, nell’immagine ingombrante di pericolo e distanza dalla vita quotidiana che l’Anno Internazionale della Chimica vuole tentare di riformulare.

Luigi Campanella è un chimico analitico, docente dell’Università La Sapienza di Roma.

Da molti anni si occupa di conservazione di beni culturali, sia in ambito di ricerca che di didattica. Direttore del Polo Museale Musis, ha uno sguardo privilegiato sul mondo della divulgazione scientifica proprio nel rapporto chimica –beni culturali.

Quali sono state le circostanze, nel suo percorso professionale di chimico, che l’hanno convinta a dedicarsi anche allo studio e conservazione dei beni artistici?

La chimica viene molte volte considerata una scienza ‘di servizio’, qualcosa a cui riferirsi solo per un apporto di tipo tecnico. La mia convinzione è sempre stata, invece, che la chimica sia una scienza di ‘conoscenza’. Il settore dei beni culturali è uno di quelli in cui questo misunderstanding si è percepito maggiormente. In passato, cioè, ci si affidava quasi totalmente all’empirismo per il restauro e la conservazione, mentre era evidente quanto fosse opportuno e necessario l’apporto di una scienza esatta per migliorare lo stato della conoscenza. Da chimico analitico sentivo particolarmente questa errata interpretazione. Per questo mi sono avvicinato ai beni culturali.

Si possono individuare dei momenti ‘storici’ salienti o critici, che lei ha vissuto da testimone o protagonista, in cui è stata evidente l’importanza della chimica in questo settore in Italia?

Occasioni di questo tipo, che ho potuto vivere anche da protagonista, sono state moltissime.

Uno dei più significativi è stato senz’altro durante il mio impegno di consigliere scientifico dell’allora Sindaco di Roma, Francesco Rutelli, quando venne proposto un programma di monitoraggio e restauro dei principali monumenti romani – come la Fontana di Trevi, il Marco Aurelio, Ostia antica e varie catacombe. O in situazioni anche molto lontane dalla mia città, durante rapporti istituzionali con Paesi come il Mozambico, il Sud Africa, l’Iran, l’Egitto. Si tratta di Paesi in via di sviluppo, in cui l’esigenza di avere il supporto della chimica in molti settori, compreso i beni culturali, risulta particolarmente forte.

Per molto tempo i restauratori hanno fatto a meno dei chimici, pur comportandosi spesso come tali. Qual è il livello di consapevolezza raggiunto oggi, che lei può registrare anche come divulgatore, circa la necessità di questa scienza?

Quasi 15 anni fa c’è stata un piccola rivoluzione, quando l’UE obbligò anche l’Italia a predisporre dei corsi di formazione rivolti ai tecnici per i beni culturali. Fino a quel momento la formazione era stata delegata agli istituti non universitari, come il Ministero per le attività culturali. In questo modo sono nati i vari corsi di laurea dedicati, avendo come conseguenza l’avvio di un ‘binario’ nuovo rispetto al passato – mentre prima i due percorsi erano paralleli, non consentendo ai restauratori di fare il salto di qualità. Il risultato è che negli ultimi anni si registra una maggiore consapevolezza e diversi segnali e proposte di contatto tra i due mondi (empirico e scientifico puro), con un vantaggio doppio: gli universitari hanno una sponda operativa nel campo del restauro e i restauratori ante-reforma possono venire a contatto con le ultime esperienze della ricerca scientifica, rafforzando la loro empiricità anche in campo scientifico.

L’ industria dei beni culturali è un settore ad alta potenzialità, ma ancora sofferente. Il ruolo dell’Università e della ricerca si prospetta come semplice ponte o come protagonista per un suo auspicabile rilancio?

Considerando la formazione ‘rinnovata’, il ruolo dell’università è e sarà fondamentale. Oggi ci sono sempre più aspetti che  richiedono un avanzamento di conoscenza e nuove frontiere scientifiche. In continuazione nascono nuovi materiali, come risultato di studi di base improntati su attività diverse dai beni culturali. Non secondario è il discorso sulla sicurezza: finora i restauratori maneggiavano senza precauzione materiali e sostanze potenzialmente pericolosi, con grandi rischi. L’industria dei beni culturali non può non tener conto di questi avanzamenti, il rinnovo dei materiali, dei criteri di protezione e dell’approccio al restauro sono tutti probabili fonti di nuovi investimenti e nuove figure di lavoro.

2011, Anno Internazionale della Chimica: oltre agli sforzi fatti finora dagli enti, istituti e soggetti coinvolti, quali potrebbero essere ulteriori strategie di comunicazione, approfittando dei risultati dell’ “anno”?

In questo senso io stesso ho avanzato delle proposte, alcune in parte realizzate: bisogna avvicinare il mondo della chimica e dei beni culturali al cittadino medio, che spesso lo percepisce solo in termini di ‘turismo’, senza percepire lo sforzo in termini di ricerca che c’è dietro. Per l’Anno Internazionale si potrebbero realizzare degli spazi aperti, dove i cittadini possano vedere cosa c’è realmente dietro un restauro – cosa significa spendere 50milioni di euro per la conservazione del Colosseo, ad esempio. Naturalmente la responsabilità dei media è grande: non credo che si sia parlato molto dell’Anno, nelle televisioni o su atri mezzi. E questo va a danneggiare chi si è speso per l’organizzazione, oltre a non aiutare la realizzazione degli obiettivi dell’evento. I municipi, infine, potrebbero fare molto, creando dei sistemi attraverso i quali, con la chimica, si ‘adotta’ un monumento. Le occasioni potenzialmente sfruttabili sono molte. Vorrei ricordare, inoltre, che molte volte si parla di chimica come nemico, che inquina, che mette a repentaglio la salute o come scienza solo altamente tecnologica. In realtà è anche scienza fondamentale per la vita. E’ emblematico, infatti, che la proposta per realizzare l’Anno Internazionale sia arrivata dall’Etiopia, uno dei Paesi più poveri. Questo è sintomatico, perché l’Etiopia certamente non si affida alle alte tecnologie, ma sulle tecnologie necessarie a migliorare la qualità della vita. Se nel suo bilancio compare la voce ‘acqua virtuale’,  significa che la chimica viene considerata una scienza ‘per la vita’. Per la mia esperienza, è così che vorrei venisse percepita questa scienza di base.

Marco Milano

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