fbpx Stereotipi di genere nei bambini, un effetto della socializzazione primaria | Scienza in rete

Stereotipi di genere nei bambini, un effetto della socializzazione primaria

Gli stereotipi di genere sono ancora fortemente riprodotti nel corso della socializzazione primaria, cioè in famiglia: è quanto dimostra una recente indagine condotta in Italia.

Crediti immagine: Tim Mossholder/Unsplash

Tempo di lettura: 7 mins

Una recente ricerca su un campione di bambini e bambine di scuole primarie ha dimostrato che gli stereotipi di genere sono ancora fortemente riprodotti nel corso della socializzazione primaria, ovvero in famiglia; in assenza di interventi specifici, continueranno a generare un impatto negativo a lungo termine su aspirazioni, opportunità e benessere psicosociale, in particolare femminile.

La ricerca ha dimostrato l’esistenza e gli effetti a tutt’oggi di una socializzazione di genere, che implicitamente ed esplicitamente induce a ritenere reale l’esistenza di ruoli sociali maschili di comando e di ruoli sociali femminili di subalternità.

Stereotipi, una scorciatoia cognitiva

Fin dalla nascita veniamo socializzati all’idea dell’esistenza di una realtà ordinata del mondo intersoggettivo, e questo avviene in particolare nel corso della socializzazione primaria, ossia in ambiente familiare. Qui interiorizziamo quello che Mead definì l’«altro generalizzato», attraverso la cui comprensione gli individui iniziano ad assumere atteggiamenti e ad adottare comportamenti che appaiono appropriati nei confronti degli altri, della diversità sociale, dei differenti ambienti di interazione. Nel corso della socializzazione primaria assumiamo in altre parole stereotipi, che sono immagini rigide della diversità e dei ruoli sociali.

Gli stereotipi, una volta assunti, appaiono utili. Ciò perché il nostro sistema cognitivo tende a semplificare la realtà categorizzandola e codificando aspettative verso se stessi, persone e gruppi sociali. In tal modo si strutturano le tipizzazioni, che da una parte ci aiutano a orientarci nella complessità sociale e dall’altra ad attribuirci ruoli sociali. Gli stereotipi sono dunque una scorciatoia cognitiva, che distorce la realtà soggettiva, e la garanzia della loro continua riproduzione concorre al mantenimento del sistema (sociale) che li ha generati, e quindi a preservare lo status quo (struttura del potere e del controllo). Tra questi, i più famosi sono quelli di genere, dai quali si scaturisce l’idea dell’esistenza di ruoli sociali maschili e ruoli sociali femminili. I primi assegnano all’uomo i compiti di comando, potere e produzione di reddito (preminenza sociale), e i secondi alla donna gli oneri relativi alla cura e all’assistenza in particolare domestica (subalternità sociale).

Ruoli di genere, l'indagine tra bambini e bambine

Misurare la diffusione dei ruoli di genere fin dall’infanzia è dunque estremamente importante. È infatti questo il momento di vita in cui si interiorizzano questi condizionamenti sociali, ma è anche questa la fase della crescita in cui i più giovani sono ancora dotati di una plasticità cognitiva sulla quale si può agire per rimuovere ogni falsa certezza. Identificare i fattori individuali e ambientali che contribuiscono al rafforzamento dell’idea dell’esistenza di ruoli di genere è infatti necessario per offrire ai bambini una possibilità di autodeterminazione, che consentirebbe, attraverso specifici interventi atti a contrastare il dilagare di stereotipi, pregiudizi e violenze, l'evoluzione culturale della nostra società.

Entrando nel vivo delle tendenze attuali, i risultati di un’indagine campionaria condotta su 412 bambini di età compresa tra gli 8 e gli 11 anni frequentanti scuole primarie appartenenti a due municipi romani tra loro molto diversi sotto il profilo socio-economico, hanno fornito un quadro decisamente allarmante in termini di adesione giovanile ai ruoli di genere. L’indagine è stata condotta dal gruppo di ricerca Mutamenti sociali, Valutazione e Metodi (MUSA) dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche nell’ambito delle attività dell’Osservatorio sulle Tendenze Giovanili (OTG), finanziato dal CNR e dal Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Attraverso la somministrazione assistita di un questionario da parte degli stessi ricercatori e con l’ausilio di innovativi indicatori, tra gli alunni e le alunne delle scuole primarie coinvolte nello studio è stata riscontrata un’adesione medio-alta al ruolo stereotipato maschile pari al 58,6% (60,3 maschi; 56,7 femmine) e un’adesione medio-alta al ruolo stereotipato femminile pari al 52,9% (50,5 maschi; 55,5 femmine). Da essa deriva la convinzione che gli uomini siano più portati per certi ruoli, come per esempio fare il poliziotto, il presidente, lo scienziato e comunque per comandare a lavoro, e che le donne siano deputate a pulire casa, fare la spesa, cucinare e accudire i bambini.

A fronte del fatto che la percentuale di bambini «liberi» da questi condizionamenti sociali è pari solo al 14% in riferimento ai ruoli stereotipati maschili e al 18% per i ruoli stereotipati femminili, l’adesione ai ruoli di genere è più alta tra gli alunni per i ruoli maschili e tra le alunne per i ruoli femminili, e decresce solo leggermente al crescere dell’età degli intervistati, a riprova del fatto che l’esposizione ad ambienti di socializzazione secondaria, in primis la scuola, è benefica in termini di contrasto a questa patologia sociale che gerarchizza il contesto sociale.

L’indagine non ha invece riscontrato una relazione positiva tra tale adesione, il livello di istruzione dei genitori e la specifica appartenenza territoriale degli intervistati, che per ipotesi potevano costituire variabili invece significative. A riguardo è però utile ricordare che lo studio è stato svolto nel 2021, e come premesso la diffusione di Covid-19 ha esacerbato l’influenza sui comportamenti umani degli stereotipi di genere, che in una situazione di insicurezza e incertezza sono stati scambiati come un modello di rifugio, che è riemerso in tutta la sua forza proprio perché interiorizzato fin dai primissimi anni di vita e poi mai concretamente contrastato. Inoltre, i lockdown hanno generato un'inedita sovraesposizione dei più giovani all’ambiente familiare, che è il principale luogo di riproduzione delle disuguaglianze sociali, spesso indipendentemente dallo status culturale genitoriale.

Il ruolo di videogiochi, media, Covid e altri fattori

Ciò che invece incide sull’adesione ai ruoli di genere in questa fascia d’età è il tempo trascorso sui videogiochi. Questa scoperta non è in realtà sorprendente, poiché nei videogiochi maschi e femmine sono spesso mostrati in modo molto stereotipato, attraverso uomini raffigurati come eroi, o comunque forti, e donne attraenti e sexy. Precedenti studi hanno infatti evidenziato la connessione tra esposizione ai videogiochi e approvazione di atteggiamenti sessisti anche tra gli adolescenti. È quindi facilmente immaginabile quanto videogiochi con queste caratteristiche, che sempre per effetto della pandemia sono stati altamente popolati, possano oggi maggiormente persuadere le più plastiche ma anche più deboli menti dei bambini veicolando distorti modelli di riferimento sull’esteriorità maschile e femminile. Un discorso analogo va fatto in riferimento al ruolo che i media hanno nell'influenzare le opinioni e i comportamenti dei bambini, e ancor più per i social media e le applicazioni, che sono ormai centrali anche nella quotidianità dei più piccoli, e avranno un ruolo sempre più importante nel confermare o smentire convinzioni interiorizzate durante il processo di socializzazione.

A livello internazionale sono rari gli studi statisticamente rappresentativi che analizzano l’interiorizzazione degli stereotipi tra i più piccoli, e non permettono tuttavia comparazioni attendibili a causa dell’eterogeneità delle misure adottate per la raccolta dei dati. Ciò che è comune a queste ricerche è che bambini e bambine interiorizzino maggiormente stereotipi e ruoli associati al proprio gruppo di appartenenza, in modo da poter soddisfare le aspettative sociali nello sviluppo dell’identità di genere. Per esempio, uno studio condotto recentemente in Spagna ha evidenziato in questa fascia di età condizionamenti circa i ruoli professionali di uomini e donne. I risultati di uno studio condotto in Germania mostrano invece come sia la carriera dei genitori sia la divisione dei compiti in casa svolgano un ruolo fondamentale nel modo in cui i bambini immaginano il loro lavoro futuro e i ruoli familiari. Come premesso, l'idea che ci siano ruoli e attività adatti solo a maschi o femmine è dunque acquisita proprio dai primi anni di vita, e a questo concorre non solo la famiglia, ma anche l’ambiente sociale, la dicotomica associazione per sesso al rosa e al blu, la diffusa idea che esistano sport di genere, e analogamente narrazioni, giochi, videogiochi e ideali.

Peraltro, la diffusione di Covid-19 non ha aiutato l’emancipazione di genere. Sono infatti numerosi gli studi che già dopo i primi mesi di pandemia, soprattutto per effetto delle conseguenti misure di distanziamento fisico, hanno rilevato un'intensificazione delle disparità di genere sul lavoro e nella distribuzione degli oneri domestici. E questo, in Italia, a fronte di una situazione di partenza che la posizionava come ultimo paese dell'Europa occidentale in riferimento alla partecipazione economica delle donne. La pandemia ha così esacerbato un divario di genere già esistente nel mercato del lavoro italiano per effetto di una rinforzata adesione ai tradizionali ruoli di genere, in particolare quelli relativi alla sfera domestica di cura e assistenza.

Il problema non è certo solo italiano: basti pensare che, secondo il World Economic Forum, dovremo attendere 135,6 anni affinché nel mondo si raggiunga realmente la parità di genere, anche a fronte di un divario tra donne e uomini aumentato proprio a causa della crisi Covid-19. Tuttavia, in Italia, come visto, le tendenze non sono certo delle più confortanti. Misurare, smascherare e decostruire i condizionamenti sociali stereotipati attraverso azioni mirate che devono essere poste in atto fin dai primi anni di vita è dunque quanto mai necessario in questo momento storico, anche ricordando che l’eliminazione della disuguaglianza di genere non è solo un fatto di democrazia e di giustizia sociale, ma anche economico, perché gli stereotipi sviliscono capitale umano e intelligenze lasciando spazio alla crescita di false aspirazioni che deprimono il benessere soggettivo e sociale.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Il nemico nel piatto: cosa sapere dei cibi ultraprocessati

Il termine "cibi ultraprocessati" (UPF) nasce nella metà degli anni '90: noti per essere associati a obesità e malattie metaboliche, negli ultimi anni si sono anche posti al centro di un dibattito sulla loro possibile capacità di causare dipendenza, in modo simile a quanto avviene per le sostanze d'abuso.

Gli anni dal 2016 al 2025 sono stati designati dall'ONU come Decennio della Nutrizione, contro le minacce multiple a sistemi, forniture e sicurezza alimentari e, quindi, alla salute umana e alla biosfera; può rientrare nell'iniziativa cercare di capire quali alimenti contribuiscano alla salute e al benessere e quali siano malsani. Fin dalla preistoria, gli esseri umani hanno elaborato il cibo per renderlo sicuro, gradevole al palato e conservabile a lungo; questa propensione ha toccato il culmine, nel mezzo secolo trascorso, con l'avvento dei cibi ultraprocessati (UPF).