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Regolamentazione del deep sea mining: siamo ancora in alto mare

noduli di manganese

Con deep sea mining si indica l’estrazione di minerali dai fondali oceanici. I primi studi per sfruttare le riserve minerarie sottomarine sono iniziati alla fine degli anni ’60. Il culmine è stato tra il 1978 e il 1979, poi si è registrata una perdita d’interesse per il tema a metà degli anni ’80. L'attenzione verso l'idea di estrarre minerali dalle profondità marine torna ciclicamente ogniqualvolta si alzano venti di crisi che minacciano la catena di approvvigionamento. Nonostante vari negoziati, la comunità internazionale non ha mai trovato un accordo per regolamentare questa attività. Quando nel 2021 l’isola di Nauru ha comunicato l'intenzione di voler cominciare a estrarre minerali dai fondali oceanici entro i prossimi due anni, si è riacceso il dibattito sul tema, dovuto anche ai timori per l’impatto ambientale che potrebbe avere.

Foto di NOAA Office of Ocean Exploration and Research, 2019 Southeastern U.S. Deep-sea Exploration

Tempo di lettura: 12 mins

Recentemente si è riacceso il dibattito sul tema dell’estrazione di minerali dai fondali oceanici, in inglese deep sea mining. Le ragioni sono diverse: da una parte la crescente domanda di materie prime critiche per la transizione energetica, di cui avevamo parlato già in questo articolo, dall’altra il recente rinvio da parte dell’International Seabed Authority (ISA), del dibattito sulla regolamentazione del deep sea mining.

Un tuffo nella storia

I primi noduli di manganese sui fondali oceanici furono scoperti durante le spedizioni scientifiche della nave HMS Challenger nel periodo tra il 1872 e il 1876, ma nei decenni successivi furono considerati solo come una curiosità mineralogica proveniente dagli abissi.

I noduli di manganese sono concrezioni minerali con un diametro compreso tra 1 e 12 centimetri e si trovano ampiamente diffuse sulla superficie delle pianure abissali coperte di sedimenti a una profondità tra i 3.000 e i 6.000 metri. Sebbene siano presenti in tutti gli oceani, i depositi più estesi sono stati trovati nell'Oceano Pacifico nord-equatoriale all'incirca tra le Hawaii e il Messico, in particolare nella Zona di frattura di Clipperton, in inglese nota come Clarion-Clipperton Zone (CCZ). Altri estesi campi nodulari si trovano nel Bacino del Perù, vicino le Isole Cook e nel bacino dell'Oceano Indiano centrale.

Gli ossidi di manganese e di ferro sono i componenti principali dei noduli, ma gli interessi commerciali, dagli anni ’60 del ‘900 a oggi, si sono concentrati soprattutto sul contenuto di nichel, rame e cobalto. Ci sono anche tracce di altri metalli come gli elementi delle terre rare e il litio. Per questo motivo, il termine “noduli di manganese” può essere fuorviante, per cui a volte viene utilizzato il termine “noduli polimetallici”.

L'idea di utilizzare i noduli di manganese come una risorsa di minerali grezzi è nata solo dopo la Seconda guerra mondiale. Nel 1965, l’ingegnere minerario americano John L. Mero pubblicò il libro The Mineral Resources of the Sea in cui tracciò il quadro di una risorsa facile da raccogliere e virtualmente illimitata, poiché immaginava che i noduli si formassero più velocemente di quanto potessero essere sfruttati.

A partire dalla metà degli anni '60, molte aziende statunitensi, giapponesi, canadesi, della Germania occidentale e di altri paesi industrializzati iniziarono a interessarsi ai noduli di manganese. A causa degli elevati rischi di capitale, le società hanno formato diversi consorzi, per lo più multinazionali, che hanno beneficiato anche di un sostegno da parte dei rispettivi governi.

La Ocean Management Incorporated (OMI) era uno di questi consorzi internazionali formato da aziende della Germania occidentale, Stati Uniti, Giappone e Canada. All'inizio del 1978, OMI condusse con successo il primo test pilota di estrazione mineraria, quando la sua nave mineraria, la SEDCO 445, pompò circa 800 tonnellate di noduli di manganese dal fondale dell'Oceano Pacifico.

A spingere la corsa verso i fondali marini erano state le crescenti tensioni tra i paesi industrializzati, importatori di metalli, e i paesi produttori. Questi ultimi, ispirandosi a quanto fatto dai paesi produttori di petrolio organizzatisi nell’OPEC, avevano costituito alcuni cartelli per negoziare la produzione dei metalli. I paesi industrializzati, temendo di un’impennata dei prezzi e il blocco delle forniture, decisero di diversificare i loro approvvigionamenti. Le riserve minerarie oceaniche erano la soluzione ideale, infatti, i noduli di manganese, trovandosi sui fondali marini in alto mare, sono prevalentemente al di fuori della giurisdizione degli stati. Questo, nel contesto giuridico degli anni ‘60, significava che, a differenza delle miniere sulla terraferma, i noduli di manganese erano materie prime libere da royalty; dunque, i noduli erano alla portata di tutti coloro che disponevano di capitali e tecnologie necessari per recuperarli, il che significava essenzialmente solo i paesi industrializzati.

Tuttavia, con l’abbassarsi del prezzo delle materie prime, l’aumento della produzione di metalli come nichel, cobalto e rame da miniere terrestri, e dato che i cartelli dei produttori minerari si mostrarono meno efficaci dell’OPEC nell’imporsi sul mercato, i timori gradualmente svanirono e, a metà degli anni '80, le società tagliarono drasticamente i loro investimenti, fino ad azzerarli.

Primi tentativi di regolamentazione del deep sea mining

A causa della crescente domanda di risorse, gli stati costieri iniziarono a rivendicare sempre più aree di mare adiacenti alle loro coste con l’obiettivo di sfruttare petrolio, gas e riserve ittiche. Questo portò negli anni ’70 al riconoscimento delle Zone economiche esclusive che, di fatto, estendevano la giurisdizione sul mare degli stati che le rivendicavano, dalle tradizionali 12 miglia nautiche sino a 200 miglia nautiche dalla costa.

Nel dicembre 1970 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione che ha definito il fondale marino al di fuori della giurisdizione nazionale di qualsiasi paese come "l'Area". Inoltre, le sue risorse sono state dichiarate “patrimonio comune dell'umanità” da gestire a beneficio di tutti.

Se in prima battuta questa impostazione andava bene a tutti, perché evitava che pochi stati con molti chilometri di costa potessero avvantaggiarsi reclamando la propria giurisdizione su vaste aree di mare, l’applicazione del concetto di “patrimonio comune dell'umanità” si è scontrato con gli interessi divergenti tra i paesi in via di sviluppo e le economie avanzate.

I primi erano favorevoli a un regime legale restrittivo per lo sfruttamento dei fondali oceanici in cui la comunità internazionale, di cui costituivano la maggioranza, avrebbe deciso il livello di produzione e distribuzione delle entrate. Per raggiungere questo obiettivo, i paesi in via di sviluppo hanno proposto l’istituzione di un’Autorità internazionale dei fondali marini (ISA) con un braccio operativo, denominato Enterprise, che avrebbe effettuato l’estrazione mineraria per conto della comunità globale.

Gli stati industrializzati occidentali, invece, che avevano come obiettivo espandere e diversificare l’offerta di risorse a basso costo, erano interessati soprattutto ad avere accesso senza restrizioni ai noduli di manganese. Dunque, l’ISA avrebbe dovuto essere solo una sorta di ufficio di registrazione per evitare conflitti tra le attività minerarie.

Dopo nove anni di trattative, iniziate nel 1973, la Third United Nations Conference on the Law of the Sea adotta nel 1982 la Law Of The Sea Convention (LOSC), la Convenzione delle nazioni unite sul diritto del mare. La convenzione fu adottata con voto a maggioranza, ma con la totalità dei paesi avanzati, sia occidentali sia del blocco comunista, che votarono contro o si astennero.

La convenzione comprende, tra l'altro, il principio dell’alto mare come patrimonio comune, il trasferimento di tecnologia alle imprese e agli stati in via di sviluppo, l'istituzione dell'ISA e dell’Enterprise, il controllo della quantità della produzione. Non considerando soddisfacente l’accordo raggiunto, tutti i paesi sviluppati decisero di non ratificare la convenzione e alcuni iniziarono a promulgare una propria legislazione in materia.

La frammentazione della regolamentazione e le scarse garanzie legali sugli investimenti di lungo termine che questa offriva alle compagnie minerarie, insieme ad altri fattori economici e politici, ha disincentivato le società minerarie a investire in progetti deep sea mining contribuendo al declino di questa tecnica negli anni ‘80.

Proprio la perdita di interesse verso il deep sea mining ha permesso un cambio del clima politico che ha portato nel 1994 all’adozione da parte delle Nazioni Unite dell’Implementation Agreement, che, pur non sostituendo il LOSC, lo ha reso più vantaggioso per gli investitori. Così lo stesso anno tutti i paesi sviluppati, eccetto gli Stati Uniti, lo hanno ratificato e a novembre è stata ufficialmente istituita l’ISA.

Nel frattempo, l’interesse che inizialmente era rivolto solo ai noduli di manganese, si è esteso anche ai depositi di solfuri polimetallici e alle croste di ferromanganese ricche di cobalto. Inoltre, la crescente domanda di litio per la produzione di auto elettriche ha riportato in auge i noduli di manganese come possibile fonte di litio.

Dal 2000 al 2013, l’ISA ha sviluppato regolamenti sulla prospezione e l’esplorazione dei minerali nelle acque profonde. Ad oggi l'ISA ha stipulato contratti della durata di 15 anni con 21 contraenti per l'esplorazione di noduli polimetallici, solfuri polimetallici e croste di ferromanganese. Le aree esplorate si trovano nella Zona di frattura di Clipperton, nell'Oceano Indiano, nella Dorsale Medio Atlantica e nell'Oceano Pacifico.

Figura 1 Le cinque aree in cui sono stati concessi i contratti di esplorazione. Fonte ISA

Sebbene nel 2011 siano iniziati i lavori per la regolamentazione anche dello sfruttamento di tali risorse, a oggi il settore rimane non regolamentato.

Il dibattito oggi

L'interesse per estrarre minerali dalle profondità marine torna ciclicamente ogniqualvolta si alzano venti di crisi che minacciano la catena di approvvigionamento. Nei primi anni 2000, la Commissione Europea ha espresso preoccupazione per gli stati produttori che ostacolano il libero scambio delle risorse, o che sono economicamente o politicamente instabili. La Commissione ha considerato questi fattori come una grave minaccia alla competitività, alla crescita e all’occupazione nell’Unione e ha incluso il sostegno a progetti per l’estrazione di minerali in acque profonde nell’elenco delle contromisure proposte. Anche nel 2010, quando Pechino ha temporaneamente ridotto le esportazioni di terre rare, e in Occidente gli osservatori erano preoccupati che la Cina potesse sfruttare le interruzioni dell’offerta per scopi politici, ancora una volta, i minerali delle profondità marine vennero visti come una soluzione per espandere l’offerta di queste materie prime e ridurre i rischi di approvvigionamento.

Nel 2021, a riportare all’attenzione mediatica il tema è stato il presidente di Nauru, Lionel Aingimea, quando il 25 giugno ha invocato la cosiddetta “regola dei due anni” notificando all'ISA l'intenzione della Nauru Ocean Resources Inc (NORI), una filiale di una società canadese chiamata DeepGreen Metals (oggi diventata The Metals Company), di richiedere l'approvazione per iniziare l'attività mineraria entro due anni nella Zona di frattura di Clipperton. Secondo regola dei due anni, che si trova nell’Implementation Agreement del 1994, l’ISA aveva due anni, quindi entro giugno 2023, per finalizzare le normative che governano il settore dell’attività mineraria in alto mare. Se non fosse stata in grado di farlo, l’ISA era tenuta a consentire alle società minerarie di iniziare a lavorare secondo le normative in vigore in quel momento.

Il 21 luglio 2023, dopo dieci giorni di confronto serrato si sono conclusi i negoziati ISA senza un accordo sulla regolamentazione del deep sea mining; dunque, le trattative sono rinviate al 2024. A determinare il rinvio ha contribuito l’ostruzionismo cinese alla mozione presentata da Cile, Francia e Costa Rica e sostenuta da una dozzina di paesi in cui si proponeva di discutere una pausa precauzionale dell'attività mineraria in acque profonde per garantire la protezione dell'ambiente marino.

Le posizioni dei paesi sono piuttosto variegate. Tra i 21 paesi contrari al deep sea mining, indicati dalla Deep Sea Conservation Coalition, si registrano posizioni che vanno da un divieto, proposto dalla sola Francia, alla moratoria, alla pausa precauzionale. Per quanto riguarda la Comunità Europea, in una risoluzione del 3 maggio 2022, richiede la moratoria internazionale.

Figura 2. I 21 paesi contrari al deep sea mining in ordine cronologico. Fonte Deep Sea Conservation Coalition

Va tuttavia segnalato che tra i paesi contrari, alcuni risultano essere anche tra gli stati sponsor di alcuni dei 31 contratti esplorativi concessi dalla ISA negli anni passati.

Cina, Norvegia, Nauru, Messico e Regno Unito sono a favore della concessione di licenze per l’estrazione mineraria in acque profonde.

L’impatto ambientale

Tra gli anni ’60 e le fine degli anni ’70 il deep sea mining non aveva destato particolare preoccupazione per l’impatto ambientale, né tra gli scienziati coinvolti nel progetto né tra l’opinione pubblica anche perché, quando il tema divenne noto a un pubblico più ampio, questa tecnica era già in declino.

Il primo studio relativo agli effetti ambientali fu condotto dalla Germania occidentale proprio quando le compagnie minerarie persero interesse per questa tecnica. Nel 1989, gli scienziati della Germania occidentale avviarono l’esperimento DISCOL, Disturbance and Re/Colonization. L'esperimento ha simulato un'operazione mineraria sul fondale marino in un’area ricca di noduli del bacino del Perù a sud delle Isole Galapagos. Dal 1989 al 2015 sono seguite numerose osservazioni che hanno esaminato se e in che misura la fauna ha ricolonizzato l’area oggetto dell’esperimento. A 26 anni di distanza, l’ecosistema interessato da questo esperimento non si è ancora del tutto risanato.

Nel dibattito attuale, ampia parte della comunità scientifica ha manifestato grande preoccupazione per l’impatto ambientale che l’attività estrattiva mineraria potrebbe avere sugli ecosistemi oceanici. Più di 700 scienziati da 44 paesi hanno chiesto una sospensione dell’attività mineraria sui fondali oceanici.

Per una corretta valutazione e gestione dell’impatto ambientale di questa tecnica è necessaria una conoscenza adeguata degli ecosistemi oceanici e della loro biodiversità; tuttavia, ad oggi le conoscenze sono molto limitate. Per esempio, la Zona di frattura di Clipperton, che con i suoi 17 contratti di esplorazione è una delle più interessate da progetti di prospezione, solo nell’ultimo decennio è stata ampiamente studiata, permettendo solo di recente una prima sintesi completa della biodiversità dei metazoi bentonici presenti. Secondo lo studio si stima che circa l'88% –92% delle specie nella regione non siano state ancora descritte.

Un altro studio ha esaminato gli effetti ambientali dell'estrazione di croste ricche di cobalto. Nel 2020, un’operazione finanziata dal governo giapponese ha condotto un test che aveva lo scopo di estrarre dal fondo dell'oceano croste ricche di cobalto, scavando una striscia lunga circa 120 metri nell’Oceano Pacifico nordoccidentale. Lo studio ha dimostrato che, nell'anno successivo allo scavo, la densità di animali nuotatori attivi, come pesci e gamberetti, è diminuita del 43% nelle aree direttamente interessate dai sedimenti sollevati dall'attività mineraria, e del 56% nelle zone adiacenti. Altri studi puntano l’attenzione sull’inquinamento acustico prodotto dal deep sea mining, che potrebbe influire sul comportamento dei mammiferi marini.

Lo scenario si fa ancora più complesso quando si considera l’effetto combinato del cambiamento climatico unito alle attività minerarie. Un recente studio stima che, a causa dei cambiamenti climatici, vi sarà nel prossimo decennio una maggiore migrazione di tonni nella Zona di frattura di Clipperton. Lo studio mette in evidenza i possibili rischi economici e ambientali derivanti dalla sovrapposizione tra l’attività mineraria e la pesca, in un contesto in cui si stanno verificando anche cambiamenti climatici.

Oltre alla pesca anche il turismo potrebbe essere danneggiato dall’attività mineraria, per effetto della degradazione dell’ambiente marino. Questo aspetto ha sollevato molte preoccupazioni tra quei paesi che vivono prevalentemente di queste attività.

Infine, la ricerca indica che l’attività mineraria sui fondali marini potrebbe generare sedimenti i cui effetti potrebbero estendersi da una profondità approssimativa di 200 metri a 5 chilometri. Gli ecosistemi delle acque comprese tra il fondale e la superficie rappresentano oltre il 90% della biosfera, contengono una biomassa ittica 100 volte superiore alla pesca annuale globale e svolgono un ruolo chiave nell'assorbimento del carbonio. Questi servizi ecosistemici potrebbero essere influenzati negativamente dall’attività mineraria.

Tuttavia, alcuni scienziati minimizzano i potenziali effetti negativi, perché solo poche aree ristrette sarebbero adatte all’attività mineraria, pertanto non ci sarebbe alcun rischio per la biodiversità, poiché è probabile che anche le specie più rare abitino aree molto più vaste rispetto al sito in cui si concentra l’attività estrattiva. In generale i sostenitori del deep sea mining ritengono che l’estrazione dai fondali oceanici abbia un’impronta ambientale inferiore rispetto a quella terrestre, poiché la biomassa sui fondali oceanici è inferiore rispetto a quelle delle foreste pluviali indonesiane, per esempio, in cui viene estratto il nichel. Altro argomento che portano a sostegno è la presunta maggior concentrazione dei metalli di interesse nel minerale grezzo, caratteristica che, a loro dire, dovrebbe rendere energeticamente meno costosa la raffinazione.

Sul fronte ambientalista sono nate diverse iniziative per bloccare lo sfruttamento minerario degli oceani. Il WWF nel 2021 ha chiesto una moratoria su tutte le attività minerarie sui fondali marini, sostenendo che esistono soluzioni alternative e che una combinazione di innovazione, riciclaggio e riparazione dei dispositivi, può soddisfare il bisogno di materie prime delle industrie senza bisogno di ricorrere allo sfruttamento del fondale marino. La moratoria proposta dal WWF è stata firmata anche da BMW Group, Samsung, Google e Volvo Group, a cui poi si sono aggiunte altre aziende. I firmatari si impegnano a non utilizzare minerali provenienti dalle profondità marine nelle loro catene di approvvigionamento e a non finanziare attività minerarie in acque profonde.

Un’iniziativa analoga è stata presa anche da tre importanti banche britanniche: NatWest, Lloyds e Standard Chartered hanno deciso di non fare affari con società che praticano il deep sea mining.

Greenpeace ha lanciato una petizione che ha quasi raccolto 1 milione di firme per fermare questa pratica.

Nonostante il moltiplicarsi di iniziative di questo tipo, il settore dell’estrazione mineraria dai fondali oceanici rimane nell’incertezza normativa, in attesa del 2024.

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