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Prevenire la guerra? Ci vorrebbe una scienza

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La guerra è spesso usata come metafora della malattia - la prevenzione della malattia, invece, non è usata come metafora per la prevenzione della guerra. Ma la guerra è una questione di salute planetaria e, come mostra Paolo Vineis, i modelli di prevenzione derivati dalle politiche di promozione della salute potrebbero essere utili per affrontare la guerra. nelle sue diverse fasi e prevenirla. 

Crediti immagine: José Pablo Domínguez/Unsplash

Tempo di lettura: 11 mins

La guerra è stata spesso usata come metafora della salute e della malattia, come quando si parla della "guerra al cancro". A mia conoscenza, invece, non è vero il contrario: le modalità di prevenzione della malattia non sono usate come fonte di metafore per prevenire la guerra. In questo breve articolo sostengo che i modelli di prevenzione derivati dalle politiche di promozione della salute possono essere utili per affrontare la guerra nelle sue diverse fasi, e per prevenirla. 

Voglio iniziare con un'affermazione forte, cioè che la guerra è intrinsecamente immorale e lo è diventata ancora di più se consideriamo i massicci investimenti in armi estremamente potenti. Tali armi hanno aumentato enormemente il numero di vittime tra i civili. Le armi dovrebbero essere trattate come entità tossiche, proprio come la chemioterapia, che è necessaria in certe circostanze ma è intrinsecamente tossica. Rifiutare la chemioterapia quando sarebbe benefica per un malato di cancro è irrazionale; allo stesso modo, ci sono circostanze in cui le armi diventano inevitabili, ma la tossicità intrinseca non dovrebbe mai essere dimenticata.  

Una questione di salute planetaria

La guerra è una questione di salute planetaria: mette in pericolo la salute umana e animale, ma anche le risorse del pianeta, per esempio rispedendoci indietro all'approvvigionamento di energia dai combustibili fossili.

La prevenzione delle malattie si suddivide in tre fasi: primaria, secondaria e terziaria. Recentemente è stata aggiunta un'altra fase, la cosiddetta prevenzione primordiale, volta a rimuovere le cause dell’esposizione a fattori di rischio.

Partiamo dalla prevenzione terziaria perché questa è la situazione che stiamo vivendo ora con l'Ucraina. I tentativi di prevenire la guerra non hanno avuto successo e il mondo si trova nella situazione di dover limitare i danni.

La prevenzione terziaria delle malattie consiste in tutti gli interventi che mirano a prevenire le sequele di una malattia già diagnosticata, comprese le ricadute, le metastasi nel caso del cancro, o la disabilità. La prevenzione terziaria include la cura e la riabilitazione e spesso interviene troppo tardi per essere veramente efficace. Ci sono molte ragioni per cui altre forme di prevenzione sono preferibili alla terziaria: 1) il trattamento può non essere efficace; 2) in generale, più la diagnosi è tardiva, meno i trattamenti sono efficaci; 3) quasi tutte le terapie hanno effetti collaterali di un tipo o di un altro; 4) il trattamento è molto specifico per la malattia (addirittura personalizzato), mentre altre forme di prevenzione hanno uno spettro più ampio. Anche nel caso della guerra la prevenzione terziaria è la meno efficace: si traduce nel prevenire il più possibile i danni ai civili e ha gravi effetti collaterali. Anche nei casi in cui la "cura" è personalizzata (si pensi all'uccisione dei terroristi) è comunque improbabile che non abbia effetti collaterali, per esempio le ritorsioni che si protraggono nel tempo.

E la prevenzione secondaria, che in sanità è la diagnosi precoce e lo screening delle malattie latenti o dei loro precursori? Il presupposto della prevenzione secondaria - non sempre rispettato - è che il trattamento è più efficace se usato nelle prime fasi della malattia. Ma ci sono degli svantaggi anche nella prevenzione secondaria, per esempio i tassi di falsi positivi e falsi negativi che sono intrinseci nei test di screening in uso. I falsi negativi significano false rassicurazioni, mentre i falsi positivi significano ansia e trattamenti inutili.

Nel caso della guerra tutte le nazioni e le entità sovranazionali (come la Nato) hanno le loro ampie e potenti reti di intelligence per cogliere i primi segni di un potenziale conflitto. L'invasione dell'Ucraina, per esempio, è stata preceduta da avvertimenti precoci e ripetuti, nonostante le rassicurazioni di Putin che si trattasse solo di esercitazioni. Tuttavia, è estremamente delicato stabilire se un segnale precoce debba essere considerato un vero positivo o un falso positivo: le conseguenze, in quest'ultimo caso, possono essere immense. Si pensi, per esempio, a un falso allarme nucleare.

La prevenzione secondaria è probabilmente migliore di quella terziaria, ma ha dei limiti e la sua efficacia deve essere dimostrata caso per caso. Uno dei rischi è quello che in medicina chiamiamo "medicalizzazione", cioè la moltiplicazione dei test e degli esami, molti dei quali hanno i loro falsi positivi. Nel caso della prevenzione della guerra, questo può portare a un controllo esteso della società, per esempio attraverso i social media (pericolo che si è evocato riguardo alla lotta al terrorismo).

La prevenzione primaria opera ad ampio spettro

Inutile dire a questo punto che prevenire è meglio che curare. Questo è letteralmente vero sia per le malattie che per la guerra, ma il parallelo va oltre questa ovvia affermazione. Per esempio, lo screening ha successo per il cancro alla cervice uterina, al seno o al colon-retto, ma è un disastro per il cancro alla tiroide, portando a un gran numero di diagnosi di condizioni benigne che non progredirebbero in patologie maligne clinicamente evidenti.

Perché la prevenzione primaria è migliore di quella secondaria e terziaria? Non solo per la banale ragione che una terapia può non esistere o non essere efficace, o perché la diagnosi precoce non è fattibile. Ci sono altre ottime ragioni. In primo luogo, la prevenzione primaria delle malattie ha un ampio spettro: i fattori di rischio per il cancro sono in gran parte in comune con le malattie cardiovascolari, il diabete o le malattie neurologiche: con singole iniziative preventive come le campagne antifumo o l’attività fisica si prevengono numerose malattie. In secondo luogo, gli effetti della prevenzione durano nel tempo: mentre le terapie devono essere rinnovate a ogni nuova generazione di pazienti (con i relativi costi ed effetti collaterali), contrastare il fumo o le cattive abitudini alimentari e migliorare l’ambiente hanno un effetto duraturo. Il lato negativo di questo impatto ampio e duraturo della prevenzione sta nel fatto che non è immediatamente visibile, proprio perché impedisce l'insorgere delle malattie. Per questo motivo la prevenzione primaria non è molto attraente per i politici: un ospedale è più facilmente visibile di una malattia che non si è verificata. Ma con la guerra può essere diverso: la gente ama sicuramente la pace, e un politico che assicura una pace duratura senza militarizzare la società può avere successo, tanto più se questo implica la riduzione del budget per le armi, che può essere reinvestito in attività più produttive.

Sradicare le cause del rischio

Ma come si previene principalmente la guerra? Questo è il campo della diplomazia, che non affronto non essendo un esperto. Tuttavia, la diplomazia può probabilmente imparare dalla prevenzione primaria delle malattie: come per avviare quest'ultima si raccolgono prove scientifiche, in particolare sull'efficacia dei diversi approcci (educazione sanitaria, tassazione, incentivi, promozione dei comportamenti virtuosi, ecc.), anche la diplomazia può essere più sistematica nell'indagare i modi più efficaci di prevenire la guerra, con studi sul campo e forse piccoli esperimenti.

Tuttavia, la prevenzione primaria basata sull'educazione sanitaria e sulla politica dei cosiddetti “nudges”, “i gentili suggerimenti”, è largamente inefficace in un mondo in cui le persone sono esposte a forti pressioni per consumare, con comportamenti differenziati a seconda della classe sociale: nel caso del cibo, per esempio, c'è una chiara relazione tra basso costo di quello che si mangia, bassa qualità, bassa classe sociale e propensione all'obesità. La prevenzione primaria è inefficace senza lo sradicamento delle condizioni che portano all'esposizione ai fattori di rischio, tra cui la povertà, le disuguaglianze sociali e la pressione dei mercati (le "cause delle cause"). Nel caso della guerra, il vero enigma è se e in che misura siamo in grado di fermare la proliferazione delle armi. Come ci ha ricordato più volte Papa Francesco, il livello di questa proliferazione è insopportabile e crea una situazione di pericolo costante.  La questione è se l’umanità e i suoi leader sono abbastanza saggi da percepire che limitare sostanzialmente (“totalmente” è utopia?) lo stock di armi sarebbe una scelta win-win: meno pericolo per tutti, minore necessità di prevenzione secondaria, più fondi disponibili per investimenti migliori e più produttivi.

L'emergenza Covid-19 ha portato molti a capire l'importanza della prevenzione. Considerato che ci sono migliaia di virus in agguato, che non possiamo semplicemente contrastare con i mezzi di diagnosi e terapia, mettere in atto la prevenzione primordiale significa fermare la deforestazione e l'allevamento estensivo di animali che creano grandi serbatoi di patogeni e aumentano il contatto con la specie umana.

È pensabile che l'invasione dell'Ucraina ci apra gli occhi sulla necessità di avviare rapidamente non solo la risposta abituale in termini di prevenzione terziaria e secondaria, ma anche quella primaria e la primordiale? Il motto romano Si vis pacem para bellum ("se vuoi la pace prepara la guerra") è stato estremamente fuorviante per secoli, corrispondendo a una soluzione lose-lose, in cui tutti perdono.  La prevenzione primordiale dovrebbe essere attuata in tempo di pace. In tempo di guerra le scelte diventano drammatiche, e non restano molte alternative, come ha sottolineato Jeffrey Sachs in una recente intervista, ricordando: «all'indomani della prima guerra mondiale, invece di imporre al popolo tedesco il pagamento di dure riparazioni, Europa e Stati Uniti avrebbero dovuto impegnarsi nella cooperazione per una ripresa di tutta l'Europa, che avrebbe contribuito a prevenire l'ascesa del nazismo». Ma arrivati a un certo punto - cioè in assenza della prevenzione - per combattere il nazismo non restava che la guerra, compresa quella partigiana.

Infine, la prevenzione primordiale e primaria comprendono l'educazione. Non si fa abbastanza nelle scuole per contrastare la cultura della violenza, che è endemica in certe zone del mondo. L'odio contro le minoranze e le nazioni adiacenti dovrebbe essere fortemente contrastato con programmi educativi efficaci.  Il risorgere del nazionalismo e del pregiudizio etnico sono particolarmente preoccupanti in aree calde come l'ex Jugoslavia. Questa non è solo la responsabilità delle singole nazioni ma della comunità internazionale.

La traduzione inglese di questo articolo è in corso di pubblicazione in Frontiers Policy Labs.

Per chi vuole commentare l'articolo può sottoporre un testo alla mail [email protected]

 

Un commento di Pirous Fateh-Moghadam
Paolo Vineis fa precedere la sua riflessione da una importante premessa affermando che secondo lui “la guerra è intrinsecamente immorale”. Nel ragionamento che segue non mi sembra, però, che tragga le conclusioni logiche da questa affermazione impegnativa. Propone invece una serie di metafore e paragoni sanitari che a mio parere rischiano di essere fuorvianti e in contraddizione con la sua affermazione iniziale. La chemioterapia, che menziona in analogia alla guerra, è un trattamento farmacologico con elevata tossicità, ma non ha nulla di “intrinsecamente immorale”. Altri potevano essere paragoni più appropriati: le sperimentazioni cliniche su persone senza il loro consenso, per fare un solo esempio. Si pensi al Tuskegee Study, nell’ambito del quale negli USA fino al 1972 uomini di colore affetti da sifilide non furono curati per studiare l’evoluzione naturale della malattia. Questo, non la chemioterapia, rappresenta un esempio di intervento medico “intrinsecamente immorale” e quindi inammissibile. Utilizzando paragoni medici appropriati diventa chiaro che se si considera la guerra "intrinsecamente immorale", sul piano logico non c'è altra scelta che aderire ad una posizione di rifiuto categorico e quindi di pacifismo assoluto. 
Il concetto si chiarisce ulteriormente provando a sostituire nel testo di Vineis la parola "guerra" con altre pratiche senza dubbio da considerare "intrinsecamente immorali", per esempio la schiavitù oppure la tortura. Insomma, risulta evidente che si rischia di assumere una posizione di cinismo puro e semplice definendo una pratica "intrinsecamente immorale" e dichiarare subito dopo che all'occorrenza se ne ammette l'uso. 
Solo partendo dal presupposto che la guerra non sia intrinsecamente immorale diventa lecito ragionare su come fare per valutare se possa essere considerata una scelta non solo legittima ma anche quella migliore nel contesto dato. Si tratta quindi di individuare dei criteri di valutazione e di applicarli alla realtà dei fatti. Ho cercato di fare un tentativo in questa direzione, pubblicato sulla rivista Epidemiologia & Prevenzione, dal quale risulta che i due approcci, quello pacifista assoluto e quello pragmatico “possibilista”, portano al medesimo risultato di rifiuto della guerra (almeno nella sua forma istituzionalizzata con ricorso a moderni eserciti). 
Conviene inoltre tenere presente il ragionamento sui mezzi e fini che Hannah Arendt fa nel suo saggio Sulla violenza. “Dato che il fine dell’azione umana (…) non può mai essere previsto in modo attendibile, i mezzi usati per raggiungere degli obiettivi politici il più delle volte risultano più importanti, per il mondo futuro, degli obiettivi perseguiti”.
Un ulteriore elemento critico nell’articolo di Vineis è l’affermazione che l’Ucraina rappresenti un caso in cui ormai si possa fare solo della prevenzione terziaria, vale a dire cercare di gestire al meglio le conseguenze della guerra. Una guerra che a questo punto deve essere accettata come un fatto compiuto e non più modificabile. La necessità della prevenzione di un’ulteriore escalation del conflitto e il compito di fermare una guerra in atto scompaiono quindi completamente dalle considerazioni di Vineis. Mentre a mio avviso fermare un conflitto ed evitare l’escalation, non sono solo dei compiti importanti, ma vanno anche inquadrati come una forma di prevenzione primaria o almeno in un’area molto più vicina alla prevenzione primaria che alle altre forme di prevenzione .
Sulla prevenzione primordiale (eliminare i fattori determinanti delle guerre, gli armamenti ecc) Vineis fa delle considerazioni ottime e largamente condivisibili, ma poi sottolinea che questi tipo di prevenzione può essere realizzato solo in tempo di pace. Insomma, al primo colpo di cannone il pacifismo dovrebbe capire che la sua esistenza non ha più molto senso. In ultima analisi si tratta quindi di un invito alla rassegnazione, al silenzio, al pensiero TINA  (there is no alternative) e quindi alla delega a quello che Papa Francesco  ha chiamato il “potere economico-tecnocratico-militare”. Un invito a posticipare l’impegno antimilitarista a favore del disarmo a tempi migliori (che di questo passo non arrivano mai), mantenendolo però a parole. Un invito già accolto con favore da molti.
Ultima considerazione per proporre un’area di possibile convergenza. Possiamo avere opinioni diverse su molti aspetti ma credo che su un punto possiamo tutti concordare: siamo ancora in tempo per mettere in atto la prevenzione primaria di una guerra nucleare che sarebbe devastante per l’intera umanità. Per raggiungere questo obiettivo la comunità internazionale ha a disposizione uno strumento formidabile: il Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW). Come gruppo di lavoro di promozione della pace dell’Associazione Italiana di Epidemiologia (AIE), insieme al Consiglio direttivo dell’AIE, abbiamo scritto una lettera aperta  nella quale esortiamo il Governo italiano a garantire la propria presenza alla prima riunione internazionale sul TPNW, che si svolgerà a Vienna dal 21 al 23 giugno 2022, con il fine ultimo di firmare e ratificare il trattato . Scienza in rete ha pubblicato un podcast che illustra nel dettaglio le ragioni e gli obiettivi dell’iniziativa. Confido sul fatto che questa lettera aperta incontri l’interesse, l’approvazione e il sostegno attivo anche di Paolo Vineis e di chi non trova convincenti le mie argomentazioni sugli altri punti affrontati in questo commento. 

 


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