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Delitti, genetica e neuroscienze

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L’introduzione nel processo penale di nuovi metodi di accertamento scientifico del vizio di mente degli imputati è terreno di dibattito sempre acceso all’interno della comunit à giuridica internazionale. Terreno diventato ardente in seguito a due recenti casi italiani, in cui il giudice ha accolto le conclusioni delle perizie della difesa che si erano avvalse di indagini non solo psichiatriche, ma anche neuroscientifiche e di genetica comportamentale.

Il primo è stato il “caso Bayout”, deciso dalla Corte d’Appello di Trieste del 2009. In sede di appello, il giudice riduceva infatti la pena iniziale di 10 mesi, facendo diretto riferimento alla perizia della difesa secondo cui, a causa della presenza della variante genetica MAOA (monoamine oxidase A), l’imputato sarebbe stato predisposto alla violenza.

Pochi giorni fa, sono state depositate le motivazioni della decisione di un’altra corte italiana (Tribunale di Como) che accoglie le conclusioni della perizia di parte elaborata dagli stessi esperti del precedente caso Giuseppe Sartori (Università di Padova) e Pietro Pietrini (Università di Pisa) e basata su indagini non solo psichiatriche, ma anche genetiche e neuroscientifiche. L’imputata è una giovane donna che ha brutalmente ucciso la sorella nonché sequestrato e tentato di uccidere la madre. Provati senza ombra di dubbio i reati contestati, il giudice per le indagini preliminari la dichiara parzialmente capace di intendere e di volere, riducendo la pena da 30 a 20 anni di carcere, di cui almeno 3 da trascorrere presso un istituto di ricovero e cura.

Sulla base dell’evidente incoerenza del comportamento criminale della donna, una perizia di parte e una consulenza tecnica di ufficio vengono inizialmente disposte, con risultati tuttavia contrastanti. Nella seconda perizia disposta poi dalla difesa, e tenuta in considerazione dal giudice, le novità sono molteplici e rilevanti.

Gli esperti sostengono il parziale vizio di mente dell’imputata, dovuto alla presenza di “pseudologia fantastica, disturbo dissociativo della personalità e grave deficit di intelligenza sociale”. I metodi di accertamento per giungere a questa conclusione sono svariati, tra cui test psichiatrici e neuropsicologici (Iowa Gambling Test, test di Hayling, test di Rorschac) e test della memoria, in particolare lo IAT – Implicit Association Test e il TARA - Time Antagonistic Response Alethiometer.

Per valutare la capacità dell’imputata di controllare gli impulsi, i periti la sottopongono anche ad analisi neuroscientifiche, in particolare a elettroencefalogramma (EEG), risonanza magnetica (MRI) e morfometria basata sui voxel (VBM-VoxelBasedMorphometry). Proprio da quest’ultima emergerebbe un difetto di integrità e funzionalità del cingolato anteriore e dell’insula, parti del cervello le cui alterazioni, secondo la letteratura citata in perizia, sono collegate a disturbi ossessivi-compulsivi e aggressività, mancando nel soggetto la piena capacità di sostituire un comportamento automatico con uno differente e adeguato.

Dal punto di vista genetico, inoltre, l’imputata presenterebbe tre “alleli sfavorevoli” che avrebbero favorito l’insorgenza di comportamenti aggressivi. Trattasi, come già era accaduto nel caso Bayout, della variante a bassa efficienza del gene che codifica per l’enzima MAOA, portato a conoscenza al grande pubblico dai media come “warrior gene”, ovvero gene dell’aggressività. Le conclusioni dei periti si basano sugli esperimenti condotti dai ricercatori Avshalom Caspi e Terri Moffit che, nel 2002, pubblicavano i risultati dell’osservazione di un gruppo di uomini neozelandesi nei cui geni era presente la variante MAOA. I soggetti, tutti maschi e cresciuti in ambiente violento, nei primi 26 anni di vita avevano sviluppato una aggressività superiore alla media.

Leggendo la sentenza, colpisce l’attenzione del giudice per l’innovativo approccio della perizia di parte, che pare essere risolutivo rispetto alle “crescenti difficoltà” della psichiatria odierna di distinguere con sicurezza e precisione tra sanità e infermità mentale”. Premesso che non è ancora in atto una “rivoluzione copernicana” in tema di accertamento e diagnosi della malattia mentale, il giudice sottolinea comunque come nel caso di specie la difesa si sia avvalsa di procedure maggiormente obiettive rispetto alle altre perizie, in quanto corroborate da risultanze di imaging cerebrale e genetica molecolare.

Senza che sia in discussione l’effettiva presenza di disturbo mentale nell’imputata (osservabile su base comportamentale), e che quindi la riduzione di pena sia condivisibile, proprio sulla reale obiettività delle risultanze neuroscientifiche e genetiche della perizia si interrogano ora la comunità giuridica e scientifica.

Riguardo un possibile stabile utilizzo di queste tecniche nel processo penale, vi sono ancora molti dubbi da risolvere, a partire dai criteri utilizzati per la formazione dei gruppi di controllo nei test neuroscientifici, fino al fondamentale ruolo dell’elemento ambientale nell’indagine genetica, che nel presente caso non è stato dimostrato essere violento o antisociale. Sotto un profilo giuridico, ci si chiede perché il giudice non abbia considerato anche la consulenza tecnica d’ufficio, e sulla effettiva utilità e affidabilità in tribunale di nuove tecniche la cui precisione è ancora in via di definizione.

Attualmente, i membri della European Association for Neuroscience and the Law, giuristi e scienziati provenienti da più di 10 paesi diversi, sono al lavoro per pubblicare una presa di posizione sul caso qui brevemente descritto. Il dibattito sul futuro della psichiatria per definire il vizio di mente in tribunale, che oggi pare quanto mai nero di fronte alla concorrenza di neuroscienze e genetica, è aperto e quanto mai esteso oltre i confini nazionali.


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