fbpx I test per gli anticorpi non sono pronti | Scienza in rete

AIE: I test per gli anticorpi non sono ancora affidabili

Primary tabs

Tempo di lettura: 5 mins

In questi giorni circolano petizioni in diverse parti d’Italia per chiedere una rapida distribuzione dei test sugli anticorpi di Covid. Se il test li trova vuol dire che la persona analizzata ha avuto l'infezione e che può avere la "patente di immunità". 

Questo test sarebbe davvero fondamentale per liberare persone che potrebbero tornare a lavorare. Ma questo tipo di test ancora non esiste, perché il significato degli anticorpi che vengono misurati è ancora da chiarire.

È questo in sintesi il messaggio diffuso dell'Associazione Italiana di Epidemiologia (AIE), inviato con una lettera alle autorità sanitarie centrali il 10 aprile. Riportiamo qui una sintesi che ci sembra sufficientemente chiara:

Dichiarazione dell’Associazione Italiana di Epidemiologia 

I test per gli anticorpi per Covid-19 non sono ancora affidabili  per capire se si è protetti  dalla malattia

Sono emerse negli ultimi giorni proposte che riguardano l’uso di test immunologici con diverse finalità. In particolare è stata proposta la misurazione degli anticorpi anti-Sars-CoV-2 al fine di identificare persone “protette” e che pertanto potrebbero essere reimmesse in una normale vita sociale e lavorativa. Ci sembra opportuno fare qualche considerazione per frenare eccessivi entusiasmi, che hanno addirittura portato al lancio di petizioni on-line di singoli cittadini che chiedono di potere eseguire i test sierologici, nella speranza di sentirsi “indenni” dal rischio malattia perché già infettati in modo silente. 

In realtà quanto richiesto non sembra ancora possibile in base alle attuali conoscenze. In particolare, AIE ricorda che:

  • Non esiste al momento alcuna certezza nell’usare i test sierologici (tantomeno quelli commerciali già esistenti) a fini diagnostici individuali o per “certificati di immunità”, dato che non c’è consenso circa il tipo di anticorpi che vengono identificati dai diversi test, né sulla loro capacità di svolgere un ruolo protettivo dall’infezione virale. 
  • Nella casistica italiana, come altrove,  molti pazienti continuano ad eliminare virus ben oltre i 14 giorni, identificati inizialmente come il tempo di durata della malattia.  Questo indica che la risposta immunitaria, che pure si osserva dopo una settimana, non sempre è in grado di bloccare l’infezione in un tempo chiaramente definito.
  • L’osservazione, non rara, che una quota di pazienti dichiarati guariti sia ritornata ad essere infettiva, indica che anche nel corso naturale della malattia il sistema immunitario non è sempre in grado di montare una risposta efficace anche a distanza di tempo.

Con queste premesse è chiaro che allo stato attuale l’esecuzione di un prelievo di sangue non fornisce indicazioni chiare sul grado di protezione anticorpale, e bisogna lasciare ancora tempo alla ricerca scientifica per mettere a punto un test veramente affidabile. 

È impossibile prevedere quanto tempo ci vorrà ancora. È necessario infatti caratterizzare meglio le risposte anticorpali all’infezione e definirne  la durata.

Una volta  che strumenti affidabili saranno a disposizione  sarà importante testare subito categorie come gli operatori sanitari e di altri servizi essenziali a contatto con il pubblico - e a seguire effettuare studi sul  resto della popolazione. 

Sintesi del documento della Associazione Italiana di Epidemiologia (elaborato dal gruppo di lavoro composto da Salvatore Scondotto, Lucia Bisceglia, Giuseppe Costa, Francesco Forastiere, Stefania Salmaso, Rodolfo Saracci,  Paolo Vineis) e trasmesso alle autorità nazionali il 10 Aprile 2020

Sui test si era già espressa su questo giornale Maria Capobianchi, direttrice del Laboratorio di virologia dell'Istituto Spallanzani di Roma. Il primo punto è che la presenza degli anticorpi non segnala che il virus non c'è più.

Le esperienze raccolte finora su questo virus dicono che gli anticorpi compaiono da 5 a 7 giorni dopo l’inizio dei sintomi e si mantengono per un periodo non sappiamo ancora quanto lungo. Poiché però il virus viene rilasciato per molto tempo, anche 30-40 giorni, c’è un momento in cui nell’organismo sono presenti sia gli anticorpi sia il virus che continua ad essere rilasciato.

Il secondo punto sollevato da Capobianchi è che, non essendo SARS-CoV2 l'unico coronavirus con il quale possiamo essere entrati in contatto, i test attuali potrebbero confondere le vecchie e innocue infezioni con la nuova di Covid. Ecco la sua spegazione:

A differenza di altre infezioni in cui le IgM (immunoglubuline M) compaiono prima per questo virus non si è osservata questa sequenza paradigmatica. L’impressione anzi è che compaiano prima le IgG (immunoglobuline G), o perlomeno si misurino prima le IgG. Il che potrebbe significare che ci troviamo di fronte a [...] un precedente incontro con altri coronavirus che sono tanti e diffusi. In sostanza, guardando IgG e IgM al momento non siamo in grado di dire se ci troviamo di fronte a un’infezione recente o vecchia. Quindi questo test, da solo,  non è sufficiente per poter permettere alle persone di rientrare nelle normali attività produttive.

Se i test sierologici che cercano gli anticorpi - come affermato anche dalla Associazione dei microbiologi italiani - non sono ancora affidabili, non vuol dire che non lo saranno mai. Serve ancora tempo per prove e ricerche, che peraltro dovranno anche confermare che una volta guariti e liberi dal virus non ci si possa reinfettare.

Le petizioni online a favore dei test sono comprensibili, ma sarebbero più utili se insistessero sull'accelerare il più possibile la ricerca e lo scioglimento di questi dubbi. Finora abbiamo dimostrato nel complesso di rispettare le regole di distanziamento sociale. I primi risultati positivi si vedono, anche se non così rapidamente come ci saremmo aspettati.

Ma l'unico test che ha senso fare adesso è quello sulla nostra pazienza e resistenza.

Leggi anche: https://www.scienzainrete.it/articolo/maria-capobianchi-test-gli-anticorpi-non-%C3%A8-ancora-affidabile/cristiana-pulcinelli/2020-04

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Il nemico nel piatto: cosa sapere dei cibi ultraprocessati

Il termine "cibi ultraprocessati" (UPF) nasce nella metà degli anni '90: noti per essere associati a obesità e malattie metaboliche, negli ultimi anni si sono anche posti al centro di un dibattito sulla loro possibile capacità di causare dipendenza, in modo simile a quanto avviene per le sostanze d'abuso.

Gli anni dal 2016 al 2025 sono stati designati dall'ONU come Decennio della Nutrizione, contro le minacce multiple a sistemi, forniture e sicurezza alimentari e, quindi, alla salute umana e alla biosfera; può rientrare nell'iniziativa cercare di capire quali alimenti contribuiscano alla salute e al benessere e quali siano malsani. Fin dalla preistoria, gli esseri umani hanno elaborato il cibo per renderlo sicuro, gradevole al palato e conservabile a lungo; questa propensione ha toccato il culmine, nel mezzo secolo trascorso, con l'avvento dei cibi ultraprocessati (UPF).