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L'innovazione viaggia a motore spento

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Ultimamente l'innovazione sembra suscitare un rinnovato interesse nella discussione pubblica. Ritengo, tuttavia, che se vogliamo segnare un reale cambiamento e compiere un'operazione verità dobbiamo aggredire il cuore del problema. Nel rapporto con gli altri paesi industrializzati al nostro sistema formativo manca forse una vera cultura dell'innovazione?

In inverno, nelle giornate in cui il vento tira più forte obbligando l’aereo che da Milano porta a Boston ad una virata più ampia fino al fiume Charles, si può avere per alcuni secondi una panoramica dell’area del Massachusetts Institute of Technology (MIT), e del dedalo di edifici più o meno grandi che si espandono a raggiera a partire dalla cupola dell’edificio centrale. Quei pochi secondi sono l’istantanea di un processo inesorabile che ha trasformato l’economia di una Regione, il Massachusetts, rendendola un polo di attrazione mondiale per la formazione, la ricerca, e gli investimenti in nuove tecnologie. Lo chiamano ‘growing campus’, il campus in continua espansione.

Ma in quel campus accanto ad aule, biblioteche, laboratori e infrastrutture che garantiscono un’alta qualità della vita dello studente del ricercatore e del docente c’è una presenza particolare che testimonia plasticamente quanto il tempo e le energie spese in studio e  ricerca possano generare ricchezza: ci sono le imprese.

Da embrionali Spin Off da ricerca, fino ai quartier generali delle principali multinazionali del pianeta che investono in R&S, passando per piccole e medie imprese che nel breve volgere di qualche anno si trasformano in medio grandi e in alcuni casi vengono quotate in borsa.

Il ragazzo, che dallo Utah, dall’Ohio o anche da altre parti del mondo attraversa il campus per andare a seguire il suo primo giorno di lezione, impara presto che un’impresa di successo sta potenzialmente muovendo i suoi primi passi insieme a lui. Tutto dipenderà dalle sue motivazioni e dalla sua determinazione. Impara presto che un’impresa muove i suoi primi passi non necessariamente dall’investimento di un adulto ricco di famiglia e con agganci importanti, ma anche da un giovane ricco di entusiasmo e con idee brillanti, e soprattutto dall’investimento nello studio, nella ricerca e nell’innovazione, unici driver di successo nel mondo al terzo millennio.

Non gli peserà allora il mutuo in banca che, insieme ad oltre il 90% dei suoi giovani colleghi, ha dovuto aprire per pagarsi gli studi, perché per lui è naturale percepirlo come il primo investimento nell’impresa della sua vita. Quel ragazzo ‘sente’ che il Paese è dalla sua parte, aspetto decisivo per la propria scelta. Quando è entrato in banca lo hanno accolto con entusiasmo, gli hanno fatto i complimenti per la lettera di ammissione al college e quando firmava il contratto sedeva alla stessa comoda poltrona del top manager che aveva appena negoziato un investimento multimilionario. A casa lo hanno incoraggiato e soprattutto gli amici, i ragazzi della palestra o della discoteca poco più giovani di lui gli hanno detto in bocca al lupo con lo stesso slancio tributato all’altro amico, appena entrato nella squadra di football o nel cast del prossimo film di successo.

Per quale motivo questo accade? Qual è il motore di quello slancio e la forza di quella motivazione? E’ semplice, è davanti ai loro occhi: è l’esistenza di un modello. Gli eroi di quei ragazzi e di quella società non sono solo i campioni dello sport, i divi del cinema o i personaggi della televisione. Ci sono anche i fondatori di Google, di Genzyme o di tante altre storie di successo e perché no, di ricchezza e benessere che partono proprio dall’investimento in ricerca e innovazione.

Esattamente questo è il punto di debolezza del nostro “Sistema Paese”, se messo a confronto gli altri. E non ci aiutano le ragioni  solitamente richiamate per giustificare tali lacune.

Due cose, infatti, sono ben chiare: da un lato i nostri ragazzi sono una delle più preziose risorse al mondo in termini di capacità di concentrazione, attitudine allo studio, fantasia nell’innovare. Ne è testimonianza il fatto che sono molto richiesti dai principali centri di ricerca stranieri; al MIT, tanto per richiamare l’esempio sopra citato, son talmente tanti che hanno formato una comunità chiamata Mitaly. Dall’altro bisogna sfatare il luogo comune che il motivo dell’insuccesso sono gli scarsi investimenti in ricerca e innovazione, perché questo ne è piuttosto la conseguenza. Una conseguenza destinata, purtroppo, a degenerare ulteriormente nei prossimi anni se non si  interviene sulla risposta vera alla domanda che ho posto in premessa al mio ragionamento: manca la cultura dell’innovazione.

La cultura che sostiene ed incoraggia il giovane di Napoli, di Roma o di Milano ad investire nella sua formazione; la cultura che invoglia le banche a sostenere quest’investimento; la cultura che spinge gli altri giovani suoi coetanei ad incoraggiarlo in quella scelta; la cultura che rilanci il concetto di ‘rischio’ imprenditoriale; la cultura che chiarisca ai professori e agli scienziati che non esiste solo un processo di trasformazione del danaro in ricerca, ma anche quello inverso della ricerca in danaro, e chi lo fa non è un traditore di un tacito voto di fedeltà incondizionata alla ricerca di base, ma solo l’attore di un altro imprescindibile stadio del processo della ricerca; la cultura che chiarisca ai giovani ricercatori che un brevetto è importante almeno quanto una pubblicazione scientifica. Dunque una cultura che generi modelli di successo alternativi a quelli tradizionali dello sportivo o dell’uomo o della donna di spettacolo, ai quali i giovani possano ispirarsi.

Alcuni giorni fa, in occasione della raccolta fondi Telethon, nel corso di un programma televisivo è stata trasmessa una ‘intervista parallela’ a due giovani, un ricercatore ed un personaggio minore dello spettacolo.  Ai due ragazzi venivano poste le stesse domande, ma il ricercatore dopo anni di duro studio e lavoro guadagnava uno stipendio minimo, mentre il personaggio televisivo era pagato il sestuplo del suo coetaneo.

L’esempio era efficace per rafforzarci nella convinzione che ai nostri giovani manca un modello di riferimento costruttivo, o meglio i loro modelli non sono allineati con le esigenze di sviluppo del Paese. Sarebbe anche inopportuno attribuire colpe specifiche. Non ha colpa il personaggio televisivo che svolge il proprio lavoro di uomo di spettacolo; non hanno troppa colpa i giovani, se in percentuale purtroppo ampia cedono alle loro pulsioni entusiasmandosi per ciò che la società propone come il giocattolo più luccicante.

E’ colpevole, invece, continuare a tenere il serbatoio pieno ed il motore spento. In Italia esistono competenze di eccellenza e importanti risultati della ricerca non valorizzati. In Italia esiste proprietà intellettuale non adeguatamente protetta. In Italia ci sono tanti giovani con competenze elevate ed entusiasmo ancora non sopito.

Nonostante la crisi, nonostante ciò che si dica o si pensi, in Italia e nel mondo ci sono più soldi che buone idee. Chiunque abbia responsabilità in Italia, e non solo chi governa, deve avere il coraggio di smettere, ad ogni bivio, di tenere il motore spento e scegliere la strada in discesa, ma avere il coraggio di accendere il motore ed imboccare la salita, unica via d’uscita da una situazione di involuzione che, sinceramente, preoccupa.

(questo articolo è stato pubblicato anche sull'edizione di Napoli del Corriere della Sera)


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