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Ma quante culture ci sono?

E noi che credevamo di essere ostaggio di Croce e Gentile! Che credevamo, dopo aver letto “Le due culture” di Charles Snow e “La terza cultura” di John Brockman, che il mondo anglosassone avesse superato quella divisione di stampo idealistico di cui ci sentivamo ancora prigionieri. Certo, ci erano venuti dei dubbi leggendo “Not for profit. Why Democracy needs the Humanities” di Martha Nussbaum. Ma nutrivamo la fondata speranza che il muro tra i due “campi” fosse stato abbattuto, che ormai si parlasse di collaborazione tra saperi, di un continuum tra attività umane. Invece ancora si discute tra due culture (quella scientifica e quella umanistica), due campi d'indagine (la realtà esterna e l'uomo), due finalità (scoprire fatti empirici ed elaborare enunciati normativi in sede morale, politica o artistica), due metodi (uno “difficile” che lavora sui fatti, condivisibile e uno “facile” che lavora sul soggettivo, sull'intimo, socializzabile se non per qualche forma di empatia).

E io che credevo di essere epistemologicamente uptodate a spiegare ai miei studenti che non ha senso dire “Sono portato per le materie umanistiche e non per quelle scientifiche”, che il rigore logico e critico si applica ugualmente a tutte le attività umane che non trascolorino nell'esoterico, che la dimostrazione del teorema di Goedel e la critica al principio di causalità di Hume richiedono lo stesso approccio rigoroso e la stessa “fatica del concetto”, come dirà Hegel.

Invece oggi leggo che il famoso linguista, psicologo e scienziato cognitivo Steven Pinker sta litigando su questo tema con lo scrittore, critico e giornalista dal mordace humour yiddish Leon Wieseltier. Un vero incontro di pugilato, arrivato ora al terzo round, come intitola il magazine New Republic sulle cui pagine si sta svolgendo l'ardita sfida. Quindi ho chiesto ai miei studenti di abbandonare per un attimo le preoccupazioni relative alla crisi di governo, allo spread, alla sconfitta dell'Inter e di concentrarsi su questi assillanti problemi.

Pinker accusa le istituzioni culturali di “un'indifferenza filistea verso la scienza”. L'umanesimo, sottolinea, non può che essere scientista perché solo la scienza ha liberato l'uomo dalla paura e dalla superstizione. E cita con riprovazione l'Università di Harvard che, nei suoi general education requirements riscritti nel 2007, così parla dell'insegnamento della scienza “Science and technology directly affect our students in many ways, both positive and negative: they have led to life-saving medecine the internet, more efficient energy storage, and digital entertainment; they also have shepherded nuclear weapons, biological warfare agents, electronic eavesdropping, and damage to the environment.”. Perché – si chiede Pinker – questa ambivalenza tra l'utile e il malvagio non viene applicata anche a prodotti dell'umano ingegno come la musica, ricordando per esempio il ruolo di Wagner nell'immaginario hitleriano? La lunga ed articolata difesa della scienza di Pinker, trova una dura reazione da parte di Wieseltier, che la intitola “Crimes against Humanities”. Il suo timore è che la filosofia, dopo essersi affrancata dal ruolo di ancilla theologiae diventi ora un'ancilla scientiae. Wieseltier critica il tentativo pinkeriano di assimilare tutto il ragionamento non-scientifico a quello scientifico, impoverendolo. Questo sarebbe un errore diffuso tra gli scientisti e qui lo scrittore cita con orrore l'utilizzo che Jared Diamond, in “Armi, acciaio, malattie” fa del “principio Anna Karenina” per comprendere l'addomesticamento degli animali, arrivando poi a parafrasare Tolstoj “tutti gli animali addomesticabili sono uguali, ogni animale non addomesticabile non lo è a modo suo”. Lo scontro tra i due si avvita tra problemi tecnici e problemi di senso, talvolta un po' bizantini.

Ma come la pensano i miei studenti? Mi sembra che mostrino molto buon senso. Trovano che sia evidente che ci sono differenze di metodo tra lo scrivere un romanzo, studiare una lingua antica, classificare reperti archeologi da un lato e guardare dentro una cellula, verificare la teoria del Big Bang, studiare una reazione di ossidoriduzione dall'altro. Da soli sottolineano il ruolo del contesto storico, che per qualcuno è più determinante per gli studi umanistici, anche se c'è chi ricorda di aver studiato la storia dell'atomo o della cosmologia. Sanno che anche le verità scientifiche sono figlie del loro tempo e possono essere falsificate (abbiamo discusso Popper). Nessuno pensa che imparare gli aoristi in greco o tradurre Lucrezio sia più facile dell'imparare i principi dell'elettrodinamica. Tutti sono convinti che si debba esercitare il pensiero critico sia facendo filosofia sia facendo scienza (abbiamo letto insieme Kuhn e Russell!). E alla fine uno studente mi dice che, per quello che ne sa, le superstringhe sono un fatto tanto quanto le monadi di Leibniz.

E se, per una volta, fossimo più avanti noi?

http://www.newrepublic.com/article/114754/steven-pinker-leon-wieseltier-debate-science-vs-humanities