In questi giorni si discute molto della situazione delle scuole in Italia durante la quarta ondata della pandemia guidata dalla variante Omicron.
I primi dati sembrano descrivere una situazione migliore di quella temuta visto l’enorme numero di contagi registrati all’inizio di gennaio.
Mercoledì, il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha comunicato alla Commissione Cultura della Camera i risultati di un’indagine svolta dal suo Ministero, a cui hanno aderito 308 mila classi, circa l’82% del totale. Sarebbero circa il 6,5% le classi chiuse o in DAD in questo momento nel paese. I dati pubblicati lo stesso giorno dalla Direzione Generale Welfare della Regione Lombardia, sembrano confermare questa stima, almeno in media. Le classi della scuola primaria chiuse in Lombardia sarebbero il 9% circa, quelle secondarie di I e II grado tra il 6 e il 7%. Per le scuole dell’infanzia è difficile dare una stima perché Regione Lomabardia le aggrega con gli asili nido.
Sempre in Lombardia, nella prima settimana di riapertura dopo le vacanze di Natale, l’incidenza settimanale ogni 100’000 abitanti è cresciuta in tutte le fasce di età della popolazione scolastica (+27% nidi, + 77% per l’infanzia, +43% per la primaria e +7% per le medie), tranne che per quella 14-18 anni, dove si è registrata una flessione del 20% rispetto alla settimana precedente. Vale però la pena osservare che nelle settimane di chiusura delle scuole, l’incidenza era anche raddoppiata da una settimana all’altra.
Spaventati dalla situazione epidemiologica, alcuni presidi alla vigilia delle riaperture hanno cercato di mettere in campo nuovi strumenti per ridurre il rischio di contagio nelle aule. L’attenzione di alcuni è andata verso gli apparecchi per la purificazione dell’aria negli ambienti chiusi. Sappiamo infatti che il SARS-CoV-2 si trasmette anche, e probabilmente soprattutto, attraverso l’aerosol, le goccioline che emettiamo nell’atto di respirare o parlare e che sono sufficientemente piccole (possiamo immaginarle come sfere di diametro inferiore ai 100 micrometri, cioè un decimo di millimetro) e quindi leggere da galleggiare nell’aria della stanza e percorrere anche diversi metri. L’apertura di porte e finestre, la ventilazione meccanica, cioè lo scambio tramite pompe dell’aria interna con quella esterna, oppure la purificazione tramite raggi UV o filtri HEPA sono dunque stati indicati come strumenti di contrasto dell’epidemia, non soltanto nelle scuole ma in tutti i luoghi chiusi.
Ma con quale criterio sono stati fatti questi acquisti? «Il nostro timore», dice Carla Ancona del Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale del Lazio e vicepresidente dell’Associazione Italiana di Epidemiologia, «è che si ripeta un’esperienza simile a quella dei banchi a rotelle. Si tratta di denaro pubblico e ci auspichiamo che vengano valutati correttamente costi e benefici di questi interventi». Finora le scuole hanno sfruttato il fondo dedicato all’emergenza Covid, ma sono in arrivo i fondi del PNRR e l’Istituto Nazionale di Malattie Infettive Spallanzani ha invocato questa settimana un “Piano Marshall” per l’edilizia scolastica che parta proprio dagli impianti di ventilazione e condizionamento dell’aria.
«AIE vorrebbe dare il proprio contributo nel disegnare degli studi che permettano di valutare l’efficacia di questi sistemi di ventilazione o purificazione e magari confrontarli con altri interventi», spiega Ancona. «Stiamo conducendo una revisione della letteratura scientifica sull’argomento e anche delle politiche di altri paesi» e aggiunge «per esempio si è visto che poter aprire le finestre nella parte alta della parete massimizza l’impatto della ventilazione naturale oltre a minimizzare l’abbassamento della temperatura nelle aule. Allora potrebbe essere legittimo chiedersi se non sia meglio investire in nuove finestre piuttosto che in sistemi di ventilazione meccanica».
Se l’approccio epidemiologico è quello di progettare uno studio sul campo che verifichi l’efficacia di questo tipo di interventi, considerando tutti i fattori confondenti, gli ingegneri ambientali che si occupano di qualità dell’aria hanno proposto già all’inizio della pandemia diversi modelli per valutare il rischio di infezione in ambienti chiusi in funzione di una serie di parametri, tra cui la velocità con cui viene cambiata o purificata l’aria della stanza.
Il gruppo dei trentasei
In particolare, c’è un gruppo di 36 scienziati che dai primi mesi della pandemia cerca di portare all’attenzione pubblica e delle istituzioni sanitarie l’importanza dell’aerosol nella trasmissione del virus. A settembre del 2020 questi 36 scienziati firmavano una lettera pubblicata sulla rivista Environment International intitolata “How can airborne transmission of COVID-19 indoors be minimised?”
A quella data, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma anche i Centers for Disease Control and Prevention statunitensi, non annoveravano ancora l’aerosol tra le vie di trasmissione del virus, citando nelle loro pagine ufficiali solo i droplet, le goccioline più grandi (sopra 100 micrometri) che invece di galleggiare seguono un percorso balistico e cadono a terra entro due metri di distanza dalla persona che li ha emessi. I motivi di questa resistenza sono soprattutto culturali e vengono ben raccontati in un preprint pubblicato a settembre del 2021 dal titolo eloquente: “Echoes Through Time: The Historical Origins of the Droplet Dogma and its Role in the Misidentification of Airborne Respiratory Infection Transmission” (avevamo già raccontato a maggio dello scorso anno una parte di questa storia).
L’ammissione del ruolo dell’aerosol non è una questione solo accademica o scientifica. Ha infatti importanti risvolti pratici. Se trascurassimo questa via di trasmissione saremmo portati a pensare che mantenere una distanza minima dagli altri sia sufficiente a proteggerci, ma non è così. Diversi eventi di contagio in cui una singola persona ha trasmesso il virus a molte altre si possono spiegare non tanto invocando caratteristiche fuori dall’ordinario del soggetto infetto, come cariche virali fenomenali, ma piuttosto con le condizioni in cui è avvenuto il contagio. Spesso luoghi chiusi e poco ventilati. Le mascherine che filtrano l’aria che emettiamo parlando e respirando sono un aiuto, ma solo se hanno un alto potere filtrante e non servono solo a deviarne il flusso, come accade con quelle chirurgiche che difficilmente riescono ad aderire al viso. Le mascherine FFP2 hanno invece un buon potere filtrante e riescono a ridurre la quantità di carica virale che un soggetto infetto immette nell’ambiente.
Ad aprile del 2021 l’OMS ha finalmente riconosciuto l’aerosol come via di trasmissione importante del SARS-CoV-2 e lo stesso hanno fatto i CDC un mese dopo, dando finalmente un senso alla raccomandazione di ventilare gli ambienti chiusi che andavano ripetendo dall’inizio della pandemia.
Da quel momento, l’OMS si sta impegnando molto su questo fronte. Oltre ad aver pubblicato una roadmap sulle azioni da intraprendere per migliorare la ventilazione degli ambienti chiusi in modo da ridurre il rischio di contagio da Covid-19, sta mettendo a punto un software che permetta di calcolare il rischio di infezione al chiuso e l’impatto dei diversi interventi. Alla base di questo progetto ci sono due modelli, quello messo a punto dal CERN e quello sviluppato da Giorgio Buonanno, ingegnere ambientale all’Università di Cassino, insieme a Luca Stabile, anche lui all’Università di Cassino, e Lidia Morawska, direttrice dell’International Laboratory for Air Quality and Health alla Queensland University of Technology di Brisbane in Australia.
Meglio un microfono
Buonanno e collaboratori, con l’aiuto di Alexander Mikszewski, ricercatore alla Queensland University of Technology, hanno messo a disposizione di tutti un software che implementa il loro modello e permette di calcolare il rischio di infezione al chiuso in diverse circostanze.
Usando questo strumento si può valutare, per esempio, il caso di una classe in cui l’insegnante è infetto e chiedersi quale sia il rischio individuale di ciascuno studente di infettarsi se è suscettibile e di quanto si riduca aumentando la ventilazione (o purificazione) dell’aria dell’aula.
Per essere più concreti, consideriamo il caso della scuola primaria Japigia 1- Verga di Bari dove, stando al video pubblicato da Repubblica, la preside ha dotato ciascuna classe del purificatore d’aria Intellipure Compact che viene attivato durante le lezioni a velocità “alta”. Consultando la documentazione dell’apparecchio, si scopre che a questa velocità viene purificato un volume d’aria pari a 134 metri cubi ogni ora. Assumendo che in media ci siano 19 alunni per classe e che la superficie media dell’aula sia di 40 metri quadrati2 e dunque il volume di circa 120 metri cubi, concluderemmo che gli apparecchi acquistati purificano il volume d’aria dell’aula una volta ogni 55 minuti circa. Se usati alla velocità massima possibile, che la preside dichiara essere utilizzata solo durante il cambio dell’ora perché troppo rumorosa, il tasso di ricambio dell’aria sarebbe di 255 metri cubi ora e l’aria dell’aula verrebbe purificata in circa 30 minuti. È sufficiente? Continua a leggere su Scienza in rete