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23 ottobre 2021
a cura di Chiara Sabelli
Buon sabato,
questa settimana facciamo il punto su quello che sappiamo riguardo alla durata dei vaccini contro Covid-19, partendo dai dati epidemiologici raccolti sul campo e confrontandoli con quello che gli immunologi osservano analizzando il sangue dei vaccinati. Le domande aperte sono ancora molte, ma di certo mettere troppe uova nel paniere dei vaccini sembra imprudente, come dimostra la situazione del Regno Unito. Poi, una selezione di notizie dai giornali di tutto il mondo.
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QUANTO DURA LA PROTEZIONE OFFERTA DAI VACCINI CONTRO COVID-19?
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Immagine di Sergio Cima per Scienza in rete.

Un elemento determinante per cercare di capire in quale direzione stia procedendo l’epidemia di Covid-19, soprattutto nei paesi occidentali che hanno vaccinato percentuali elevate della popolazione, è la durata dell'immunità conferita dai vaccini. La domanda è ancora aperta dal punto di vista scientifico e i ricercatori stanno provando a rispondere sulla base dei dati epidemiologici raccolti sul campo da una parte e di quelli immunologici raccolti in laboratorio dall’altra.

Il primo a suonare un campanello di allarme è stato Israele, che all’inizio di agosto ha stimato che l’efficacia del vaccino Pfizer-BioNTech nell’evitare le forme gravi della malattia nei cittadini sopra i 65 anni che avevano ricevuto la seconda dose a gennaio e febbraio era passata dal 95% al 60% circa. Questo significa che se all’inizio i vaccinati avevano un rischio di infettarsi e sviluppare una forma grave della malattia circa 25 volte inferiore a quello dei non vaccinati, a sei mesi il rischio era ridotto “solo” di 2,5 volte. Sulla scorta di questi dati, il governo israeliano ha avviato la campagna per la somministrazione del richiamo a tutta la popolazione, partendo dagli anziani.

A metà settembre l’Agenzia di salute pubblica britannica ha stimato che tra gli over 65 l’efficacia del vaccino Pfizer-BioNTech nell’evitare il ricovero è del 98% da 2 a 9 settimane dopo la seconda dose e scende al 91% dopo 20 settimane. Più accentuato è il declino per AstraZeneca, che passa dal 92% al 77%. «Nonostante questa sia una diminuzione apparentemente contenuta, a livello di popolazione è probabile che si traduca in un numero significativo di persone che avranno bisogno di cure ospedaliere per Covid», ha dichiarato al Financial Times Penny Ward, farmacologa del King’s College di Londra.

Pfizer ha poi finanziato uno studio retrospettivo sui clienti di un grosso fornitore di servizi sanitari in California che ha riguardato quasi 3,5 milioni di persone e i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista The Lancet all’inizio di ottobre. L’efficacia verso infezione, sintomatica e asintomatica, passa da 88% a 47% dopo cinque mesi, ma quella verso il ricovero rimane stabile intorno all’88%. Lo studio ha anche provato a separare le infezioni con la variante Delta da quelle dovute ad altre varianti, per capire se la diminuzione osservata potesse essere spiegata da una parziale capacità di Delta di eludere la risposta immunitaria sollecitata dai vaccini. Dopo 4 mesi, l’efficacia verso tutti i tipi di infezione è passata da 93% a 53% per Delta e da 97% a 67% per le altre varianti, ma con ampi margini di incertezza che non permettono di concludere se esista una differenza significativa tra i due gruppi.

Sempre all’inizio di ottobre, i ricercatori della Weill Cornell Medicine in Qatar hanno pubblicato su The New England Journal of Medicine uno studio relativo alle oltre 900000 persone vaccinate con Pfizer-BioNTech nel paese. Hanno osservato una diminuzione dell’efficacia nell’evitare tutti i tipi di infezione da 78% a 20% tra uno e sei mesi dalla seconda dose, ma una sostanziale stabilità della protezione verso la malattia grave e la morte, che si è attestata intorno al 96%. Continua a leggere su Scienza in rete


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