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16 ottobre 2021
a cura di Chiara Sabelli
Buon sabato,
questa settimana raccontiamo del dibattito che si è aperto nella comunità scientifica sull'efficacia della psicoterapia associata a MDMA (anche conosciuta come ecstasy) nel trattamento del disturbo da stress post-traumatico, dopo la pubblicazione del primo studio clinico di fase 3 a maggio di quest'anno. Poi, una selezione di notizie dai giornali di tutto il mondo e gli ultimi aggiornamenti su Covid-19.
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L’ECSTASY PUÒ CURARE IL DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO? IL DIBATTITO È APERTO
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Immagine da Wikimedia Commons, elaborazione di Sergio Cima per Scienza in rete.

Secondo l’American Psychiatric Association, ogni anno circa il 3% della popolazione statunitense adulta è colpita dal disturbo da stress post-traumatico (PTSD, dall’inglese post-traumtatic stress disorder). Un’incidenza simile viene stimata anche in Europa, dove una recente rassegna indica che circa 8 milioni di adulti ogni anno sviluppano il disturbo. Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), curato dall’Amercian Psychiatric Association e giunto alla quinta edizione, una persona può ricevere una diagnosi di PTSD solo se è stata esposta, direttamente o indirettamente, a un evento traumatico o stressante durante la propria vita. Le persone che ne soffrono hanno flashback che li riportano a quell’evento, evitano luoghi o persone che possano ricordarglielo, sono irritabili, aggressive e in continuo stato di allerta e possono soffrire di attacchi di panico. Inizialmente il disturbo è stato studiato soprattutto nei veterani di guerra, ma si è capito che anche altri tipi di esperienze possono causarlo, come per esempio stupri o minacce di stupro.

I trattamenti sviluppati per questa condizione sono sia psicoterapici che farmacologici, ma una porzione importante delle persone che soffrono di PTSD non traggono giovamento da questi trattamenti. Per questo motivo la notizia, pubblicata a maggio, che il primo studio clinico di fase 3 di un trattamento psicoterapico associato all’assunzione di MDMA (conosciuta anche con il nome di ecstasy) abbia osservato un’efficacia elevata, ha ricevuto molta attenzione.

Lo studio, i cui primi risultati sono stati pubblicati su Nature Medicine, è stato condotto negli Stati Uniti e sponsorizzato dalla non profit Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies (MAPS) con sede nella città californiana di Santa Cruz. Il fondatore di MAPS, l’attivista e psicologo Rick Goblin, racconta della sua «visione sul potenziale terapeutico e spirituale delle sostanze psichedeliche per il futuro dell’umanità» che ha motivato la sua missione di riaccreditare la ricerca sull’utilizzo delle sostanza psichedeliche in psichiatria fin dall’età di 18 anni, si è scontrata con l’inclusione nel 1985 dell’MDMA nell’elenco delle sostanze vietate sia per uso ricreativo che terapeutico, la cosiddetta Schedule I, da parte del Governo federale USA durante la war on drugs, e che è culminata proprio con questo studio clinico di fase 3. Goblin viene intervistato anche nel documentario del 2018 Dead dog on the left - A story of War, Friendship and Healing diretto da Emanuel Sferios, che racconta la storia di due reduci della guerra in Iraq che hanno partecipato a studi su MDMA e PTSD.

Per effettuare lo studio con l’obiettivo finale di chiedere l’autorizzazione di utilizzo del trattamento nella pratica medica all’Agenzia del farmaco statunitense FDA, MAPS ha ottenuto la classificazione di breakthrough therapy, che garantisce un percorso accelerato nel processo di valutazione. Questa classificazione è arrivata per i risultati promettenti di sei studi di fase 1 e 2, uno fra tutti quello pubblicato nel 2010 sul Journal of Psychofarmacology che ha riguardato 20 pazienti.

Lo studio di fase 3 ha coinvolto 90 pazienti e li ha divisi casualmente in due gruppi. Ai componenti del primo gruppo è stata somministrata una dose tra 80 e 120 milligrammi di MDMA all’inizio di tre sessioni di psicoterapia individuale lunghe otto ore. Ai membri dell’altro gruppo, invece, è stata data una sostanza inattiva all’inizio delle stesse tre sessioni di psicoterapia. Le tre sessioni sono avvenute a 4 settimane l’una dall’altra e ciascuna è stata seguita da 90 minuti di psicoterapia cosiddetta “di integrazione”, svolta immediatamente dopo o a una settimana di distanza. All’inizio dello studio, tutti i partecipanti hanno fatto una seduta di psicoterapia preparatoria di 90 minuti. Ciascuna seduta è stata tenuta da due psicoterapeuti che hanno seguito il programma di training dell’associazione MAPS.

L’efficacia del trattamento nei due gruppi è stata valutata a due mesi dall’ultima sessione attraverso una serie di metriche, comunemente utilizzate per valutare la gravità dei disturbi mentali. Una di queste è la “perdita della diagnosi”. Nel gruppo trattato con MDMA e psicoterapia circa il 70% dei partecipanti non presentava più l’insieme di sintomi necessari per ricevere diagnosi di PTSD, contro il 30% nel gruppo trattato solo con psicoterapia.

Un’altra metrica considerata è quella della riduzione dei sintomi, che viene calcolata utilizzando un punteggio chiamato CAPS (Clinically Administered PTSD Scale). Secondo questa metrica, l’impatto della psicoterapia assistita con MDMA è notevolmente superiore a quello dei trattamenti farmacologici che vengono indicati dall’FDA come trattamenti di prima linea, sertralina e paroxetina.

Proprio il confronto con altre terapie esistenti ha acceso il dibattito all’interno della comunità scientifica. In un commento pubblicato questa settimana su Nature Medicine, un gruppo di psicologi e psichiatri, ha osservato che esistono tecniche di psicoterapia che hanno un’efficacia molto superiore a quella di sertralina e paroxetina, soprattutto la trauma-focused cognitive behavioral therapy. Continua a leggere su Scienza in rete


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