newsletter finesettimana #6
Buon venerdì,
questa settimana leggiamo di superconduttori a temperatura ambiente,
di robot programmati per uccidere, di agricoltura hi-tech,
di cosa succederebbe se gli allevatori americani cambiassero
la dieta del loro bestiame, di open access e di immunità di gregge
alla COVID-19. Approfondiamo, poi, il caso dei sistemi di
intelligenza artificiale usati in campo medico per automatizzare
i processi di diagnosi, dai tumori al seno fino alla COVID-19.
Buona lettura e al prossimo venerdì (per segnalare questa newsletter
agli amici
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SEI PEZZI BELLI
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1 Superconduttività a temperatura ambiente (ma ad altissima pressione)
Un gruppo di ricercatori dell'università di Rochester ha
scoperto un materiale che conduce elettricità senza
resistenza a una temperatura di 15 gradi centigradi.
È la prima volta che si osserva un comportamento superconduttivo
a temperatura ambiente, ma il nuovo composto non potrà essere
utilizzato in linee elettriche senza perdite o treni a levitazione magnetica.
Questo perché il materiale superconduce a temperatura ambiente
solo mentre viene compresso tra una coppia di diamanti a pressioni
estreme, pari a circa il 75% di quelle che si trovano nel nucleo della Terra
[Quantamagazine]
2 Robot programmati per uccidere
Sistemi autonomi in grado di uccidere gli esseri umani
stanno diventando pervasivi nei conflitti moderni, nonostante
le preoccupazioni di natura etica.
Alcuni dei più grandi eserciti del mondo sembrano
procedere lentamente e silenziosamente verso lo sviluppo di tali armi,
perseguendo una logica di deterrenza: temono di essere schiacciati
dall'intelligenza artificiale dei rivali se non riescono
a tenere il passo.
La chiave per risolvere una simile corsa agli armamenti
potrebbe essere non tanto nei trattati internazionali ma
piuttosto in un ripensamento cauto di ciò per cui l'intelligenza
artificiale può essere utilizzata in campo militare
[The Guardian]
3 L'agricoltura diventa hi-tech per far fronte al cambiamento climatico
Nel villaggio francese di Lusignan in Francia, 25 chilometri a sudovest di Poitiers,
i ricercatori hanno costruito il Siclex, una serra in cui viene simulato il clima
nelle sue forme più estreme previste dagli scenari dell'IPCC. È una specie
di stanza delle torture botanica dove vengono testate, tra le altre,
le piante da foraggio per capire come renderle resistenti ai cambiamenti climatici
[Le Monde]
4 Cosa succederebbe se il bestiame allevato negli Stati Uniti cambiasse dieta?
Gli Stati Uniti hanno 95 milioni di capi di bestiame,
di cui 25 milioni vengono ingrassati ogni anno per andare al macello.
Nel processo di digestione producono metano e ossido di azoto, dei
gas serra molto potenti. I ricercatori stanno cercando nuovi tipi di
mangimi e nuove tecniche di smaltimento dello sterco per poterne ridurre
la produzione
[The New York Times]
5 Nature firma il primo contratto open access
Dopo aver annunciato ad aprile di essere disposta a offrire
degli accordi per pubblicare in open access in linea con i
requisiti del Plan S, la coalizione di agenzie della ricerca
e enti finanziatori europei che richiede ai propri ricercatori di
pubblicare la loro ricerca in open access a partire dal 2021,
Nature ha firmato il suo primo contratto con la Max Planck Society.
Per i prossimi quattro anni l'associazione, una delle maggiori società scientifiche tedesche,
pagherà 9 500 euro per ogni articolo pubblicato in open access
dai suoi ricercatori sulle riviste del gruppo Nature.
Questa somma gli garantirà accesso libero agli oltre
50 titoli della casa editrice. Secondo alcuni un prezzo troppo alto
[Nature]
6 Sull'immunità di comunità alla COVID-19 si mobilita la comunità scientifica
× Il 4 ottobre scorso la Great Barrington Declaration proponeva
di proteggere selettivamente le categorie più a rischio di sviluppare
le forme gravi di COVID-19 per limitare i danni sociali causati
da un lockdown generalizzato.
Tale strategia sarebbe basata sull'idea che si possa raggiungere
una certa immunità di popolazione lasciando
correre il virus liberamente.
Il 15 ottobre il John Snow Memorandum, pubblicato dalla rivista
The Lancet e firmato da oltre 3 600 medici e ricercatori, ha giudicato la proposta una "dangerous fallacy unsupported by scientific evidence"
[Nature]
× Il 19 ottobre anche la rivista
JAMA si è unita al coro degli scienziati preoccupati affermando
che un'immunità di popolazione può essere raggiunta solo in seguito
a massicce campagne vaccinali
[JAMA]
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DIAGNOSI AUTOMATIZZATE: DALLA COVID-19 AI TUMORI AL SENO
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Due settimane fa un gruppo di ricercatori cinesi
ha pubblicato
sulla rivista Nature Communications uno studio in cui mostra
le performance di un sistema di intelligenza artificiale nel
diagnosticare la COVID-19 a partire dalle immagini di tomografia
computerizzata dei polmoni, distinguendola da altre tre patologie:
le polmoniti causate dall'influenza stagionale, le polmoniti non virali
e altri tipi di lesioni diverse dalle polmoniti. Si tratta solo
dell'ultimo di una serie di sistemi di intelligenza artificiale
messi a punto negli ultimi mesi per diagnosticare la COVID-19,
che potrebbero diventare utili se i sistemi sanitari sottoposti
a pressione esagerata non fossero più in grado di effettuare
tempestivamente i test molecolari (quelli che cercano tracce dell'RNA
virale nei campioni prelevati tramite tampone naso-faringeo).
Questi sistemi di lettura automatizzata
potrebbero poi essere modificati per funzionare anche su
radiografie polmonari,
un metodo diagnostico facilmente disponibile anche nei Paesi meno
sviluppati.
Non solo.
Potrebbero servire anche
a individuare con un po' di anticipo i pazienti che andranno incontro
a un decorso più severo e che necessiteranno di essere intubati,
permettendo così agli ospedali di gestire meglio le loro risorse.
A fine settembre uno di questi sistemi, sviluppato dalla società
Dascena di San Francisco,
ha ottenuto l'approvazione
per uso in caso di emergenza da parte della Food and Drug Administration,
l'agenzia del farmaco statunitense.
I sistemi di intelligenza artificiale
per la diagnosi e il triage dei casi di COVID-19
sono solo gli ultimi esempi di una serie di algoritmi di machine learning che hanno trovato
numerose applicazioni nelle attività di diagnostica per immagini,
a cominciare dalla diagnosi dei tumori.
Analizzare immagini mammografiche o biopsie di diversi tipi di tessuto
alla ricerca di formazioni cellulari anomale o veri e propri tumori
si è dimostrato un compito particolarmente facile per questo tipo di algoritmi,
che spesso hanno superato in bravura radiologi e patologi con
anni di esperienza.
Il caso più studiato è sicuramente quello del tumore al seno, ma
sono stati ottenuti risultati importanti anche per i tumori del polmone
e della pelle.
L'obiettivo è classificare l'immagine diagnostica in
un numero finito di categorie. Nei casi semplici sarà sufficiente
discriminare fra solo due gruppi,
sano o malato, in quelli più complessi bisognerà considerare
diversi tipi di anomalie, da quelle benigne a quelle più aggressive.
Il successo dell'intelligenza artificiale
è arrivato proprio con lo sviluppo di algoritmi particolarmente
capaci in questa attività di classificazione delle immagini.
Le reti neurali profonde.
Si tratta delle cosiddette
convolutional neural network,
un particolare tipo di reti neurali profonde,
che hanno letteralmente rivoluzionato il campo
della visione artificiale.
La pietra miliare del settore è AlexNet, l'algoritmo sviluppato da
George Hinton, premio Turing 2018, e due sue studenti nel 2012, che vinse di misura
nella competizione sul riconoscimento delle immagini
chiamata ImageNet Large Scale Visual Recognition Challenge.
L'articolo che descriveva il funzionamento e le performance di AlexNet
venne presentato per la prima volta nel 2012 durante la più importante conferenza annuale
sull'intelligenza artificiale, la Conference on Neural Information Processing Systems,
ed è considerato uno dei lavori più influenti nell'area. A oggi è stato
citato più di 72 mila volte secondo
secondo Google Scholar.
Una rete neurale è costituita da una serie di strati
ciascuno contenente un certo numero di nodi. I nodi sono ispirati
ai neuroni del nostro cervello che ricevono informazione dai neuroni
adiacenti tramite le sinapsi, le elaborano e le trasmettono a loro volta.
I nodi, come neuroni artificiali riprodotti a computer,
ricevono informazione dai nodi dello strato precedente
e la trasmettono a quelli dello strato successivo. Ma le connessioni
tra i nodi della rete non sono tutte uguali, la loro intensità cambia,
ed è proprio l'insieme di queste intensità che viene regolata durante
la fase di allenamento affinché
la rete sia in grado di classificare nel modo più corretto possibile.
Immaginiamo di dare in pasto alla rete neurale nel suo primo strato,
quello di input, la fotografia di un cane. Per farlo tradurremo l'immagine
in un insieme di valori numerici, i valori dei pixel che la compongono.
L'informazione si propagherà attraverso la rete neurale secondo le
intensità delle diverse connessioni e arriverà
nello strato finale, o di output, che ci darà
una risposta binaria 'cane' o 'non cane'. Faremo lo stesso con tutte
le immagini contenute nel nostro campione di allenamento
e conteremo quante volte la rete dà la risposta esatta e quante volte quella sbagliata.
All'inizio la rete sarà poco efficiente e sbaglierà spesso. Per
cercare di migliorare dovremo intervenire sull'intensità delle connessioni
tra i nodi dei vari strati della rete. Ma come? Si tratta di un numero
enorme di parametri, soprattutto per architetture profonde (deep)
che hanno molti strati nascosti. Capire come variare questi parametri per diminuire l'errore
è un problema numericamente assai complicato. Viene in soccorso
un metodo matematico chiamato back-propagation, che sfrutta proprio la struttura a
strati della rete neurale ripercorrendola a ritroso dall'output all'input
individuando il modo giusto in cui girare le manopole delle connessioni
per migliorare la performance della rete. Una volta terminata la fase di allenamento,
la nostra rete avrà imparato come riconoscere 'cani'
da 'non cani' e potrà essere usata su nuove immagini.
Questo tipo di sistemi è estremamente flessibile perché
non utilizza alcuna forma di ragionamento astratto sulle caratteristiche
di un cane. Non cerca cioè le orecchie, non conta le zampe,
ma impara dalle immagini che gli forniamo durante l'allenamento.
Per questo motivo trova applicazione in diversi contesti, tra cui quello medico.
Influenza o COVID-19?
È una rete neurale profonda, in particolare una convolutional neural network
come quella di AlexNet, anche il sistema messo a punto
dai ricercatori cinesi per diagnosticare COVID-19 e in particolare
differenziarlo da altri tipi di lesioni polmonari.
Lo studio ha utilizzato le TAC polmonari di oltre 9 mila pazienti
raccolte da tre centri clinici a Wuhan e cinque diversi database.
Ciascuno di questi database è stato diviso in due campioni
contenenti circa 2500 soggetti ciascuno,
uno per l'allenamento e uno per il test con uguale distribuzione
delle quattro possibili patologie (COVID-19, influenza, polmonite non virale e altre lesioni)
e sono state effettuate diverse
misure di performance. L'algoritmo ha mostrato
buone capacità di discriminazione per tutte e quattro
le patologie, con un valore del parametro chiamato Area Under the Curve (o AUC,
una misura di accuratezza usata per valutare la bontà degli
algoritmi di classificazione) pari al 98%.
L'algoritmo è stato poi sfidato da cinque radiologi esperti,
sull'analisi di 50 immagini di TAC
contenenti 30 casi di COVID-19 e 20 casi di influenza. In questa
sfida l'algoritmo ha identificato correttamente il 95% dei casi di
influenza (il cosiddetto true positive rate) e ha invece diagnosticato
erroneamente come influenza
il 17% dei casi di COVID-19 (false positive rate).
A confronto il migliore dei 5 radiologi ha
ottenuto risultati peggiori, diagnosticando correttamente
l'85% dei casi di influenza ed erroneamente
il 25% dei casi di COVID-19.
Il sistema che abbiamo appena descritto potrebbe dunque rivelarsi
utile nel momento in cui si verificasse una cosiddetta twindemic,
l'aggravarsi simultaneo dell'epidemia di SARS-CoV-2 e del virus dell'influenza stagionale
e i centri clinici non fossero più in grado di ricorrere ai test molecolari
per discriminare tra le due patologie.
Tumori al seno.
Nel 2015 un gruppo di ricercatori statunitensi
ha provato a misurare il grado di accordo all'interno di un gruppo di
patologi nell'interpretazione delle immagini di tessuti prelevati
durante biopsie mammarie. I tessuti appartenevano a 240 donne, affette da diverse
forme di anomalia cellulare: da quelle benigne, a quelle atipiche,
al carcinoma duttale in situ (considerato pre-canceroso) fino alle forme
invasive (quelle in cui le cellule tumorali superano le pareti dei dotti
e invadono il tessuto circostante). Un comitato di tre patologi esperti
analizzò le immagini e stabilì una diagnosi
considerata consensuale di riferimento. Le immagini vennero quindi mostrate a
115 patologi che si trovarono d'accordo con la diagnosi consensuale solo
nel 75,3% dei casi. Il grado di accordo però non risultò uniforme per
tutte le categorie tumorali. Per le forme invasive l'accordo raggiunse
il 96%, al contrario per le forme atipiche solo il 48%.
Come scrive Hannah Fry
nel suo libro 'Hello World':
"Una probabilità del genere
equivale a lanciare una moneta per formulare la diagnosi.
Testa e potresti praticare una mastectomia non necessaria.
Croce e potresti perdere l'occasione di trattare il cancro
nella sua fase iniziale. Insomma, l'impatto può essere devastante.
Quando la posta in gioco è così alta, la precisione è ciò che conta di più.
E se un algoritmo potesse fare meglio?"
Anche nei programmi di screening mammografico, il passo
diagnostico precedente alla biopsia, il tasso di errore non è trascurabile.
La American Cancer Society
stima
che il test ha il 20% di falsi negativi, tumori che non vengono diagnosticati. Per quanto
riguarda i falsi positivi, formazioni benigne scambiate per tumori,
sempre la American Cancer Society stima che
il 50% delle donne che si sottopongono annualmente a una mammografia
avrà un falso positivo nell'arco di 10 anni di indagini.
È stato quindi accolto con favore
lo studio
pubblicato da Google all'inizio di quest'anno sulla rivista Nature
dal titolo 'International evaluation for an AI system for breast cancer screening'.
L'articolo presenta le performance di un algoritmo per l'analisi delle
immagini mammografiche. Per farlo i ricercatori hanno utilizzato un campione di immagini
ottenute da 76 mila donne nel Regno Unito e 15 mila
donne negli Stati Uniti per cui sono noti sia la diagnosi
pronunciata dal radiologo che ha valutato per primo la mammografia
sia il decorso di salute o malattia. Dopo aver allenato
l'algoritmo su un sottoinsieme delle immagini, lo hanno testato
sull'insieme restante, confrontando i risultati con la prima
diagnosi del radiologo e con la 'vera' diagnosi dedotta dai
decorsi di salute o malattia.
Da questo confronto è emerso che: per il campione statunitense
l'intelligenza artificiale riduce del 9,4% la percentuale di falsi negativi
e del 5,4% quella di falsi positivi, mentre per il campione
britannico la riduzione è del 2,7% e dell'1,2% rispettivamente.
I ricercatori hanno poi effettuato una sfida tra l'algoritmo
e sei radiologi esperti a cui sono state sottoposte 500 mammografie,
insieme ad alcune informazioni che sono normalmente disponibili come
l'età della paziente e altri screening precedenti. Anche in questo
confronto il sistema si comporta meglio dei radiologi, anche se
esistono dei casi di tumore diagnosticati solo dai radiologi e non
dall'intelligenza artificiale e viceversa.
Il pericolo della sovradiagnosi. Lo studio ha attirato anche delle
critiche
da parte di coloro che temono che il problema della sovradiagnosi
possa essere esacerbato dall'utilizzo di questi strumenti.
Il fatto è che non sappiamo quali tipi di forme iniziali di tumore
al seno
evolveranno in tumori invasivi capaci di minacciare la vita di una persona.
I dati accumulati in decenni di screening contro i tumori della mammella
hanno infatti mostrato che esistono certi tipi di tumori indolenti
che l'organismo terrà a bada e non si trasformeranno mai in un rischio
per la nostra salute. Ma, purtroppo, al momento della mammografia
i medici non sono in grado di capire quale tumore hanno di fronte
e tendono a trattarli tutti come potenziali minacce. È per questo
che l'efficacia degli screening mammografici nel salvare vite umane
è una faccenda molto controversa.
E la capacità di un sistema automatizzato
di analizzare grandi quantità di immagini e individuare anche le più piccole
lesioni senza però poterle classificare più accuratamente potrebbe
portare il problema della sovradiagnosi su una scala ancora più grande.
Medici assistiti dagli algoritmi. Per ovviare al rischio che abbiamo
appena descritto, molti addetti ai lavori suggeriscono un'alleanza tra
sistemi di intelligenza artificiale e patologi o radiologi. Gli algoritmi
potrebbero essere utilizzati per scremare le immagini
e sottoporre agli umani solo quelle su cui sono più incerti. Questa
strategia si è dimostrata vincente nella competizione
CAMELYON16,
in cui patologi e algoritmi si sono confrontati nel classificare
le immagini di tessuto linfonodale prelevato da donne con
diagnosi di tumore al seno. Le possibili diagnosi erano due:
tessuto sano o cancro invasivo della mammella.
I patologi senza limiti al tempo di osservazione sono
stati in grado di diagnosticare correttamente il 96% delle immagini
senza nessun falso positivo. Considerando però il sottoinsieme dei
tumori piccoli la loro performance è stata peggiore: ne hanno
individuato solo il 73%. Al contrario,
la migliore rete neurale
della competizione ha identificato il 92,4% dei tumori piccoli,
ma con un tasso impressionante di falsi positivi: per ogni
immagine 8 gruppi di cellule assolutamente normali sono stati
classificati come cancerosi.
La sorpresa è arrivata però quando la combinazione di un
algoritmo di deep learning
con le valutazioni dei patologi ha portato l'accuratezza
della diagnosi di questi ultimi dal 96% al 99.5%, mantenendo
un tasso nullo di falsi positivi.
Proprio questo tipo di alleanza tra medici e algoritmi potrebbe
portare beneficio a entrambi i settori. Come si legge in
un editoriale
pubblicato sulla rivista Nature un paio di anni fa,
c'è bisogno che questi strumenti vengano testati
in contesti reali e validati da studi clinici rigorosi.
Molti degli studi che abbiamo citato sono realizzati in
condizioni molto particolari e diverse da quelle della reale
pratica clinica. Ad esempio, in alcuni casi ai radiologi viene
concesso pochissimo tempo per analizzare le biopsie. In altri
vengono considerate solo immagini prodotte da un certo strumento
diagnostico su un certo campione di pazienti e questo
potrebbe portare distorsioni quando l'algoritmo viene
utilizzato per classificare immagini raccolte da altri dispositivi.
Bisogna evitare, continua l'editoriale, di creare dei precedenti
negativi che porterebbero la comunità medica a maturare scetticismo
verso questi sistemi e allo stesso tempo potrebbero danneggiare
i pazienti.
In
una intervista al New York Times,
la dottoressa Constance Lehman, direttrice della divisione di breast imaging al Massachusetts
General Hospital, racconta una storia che potrebbe servire da ammonimento
per il futuro. Alla fine degli anni '90 divenne di uso comune negli Stati Uniti
la tecnologia CAD, computer-aided detection, un sistema approvato
dalla FDA per aiutare i radiologi nella lettura delle mammografie.
Alcuni direttori di ospedale esercitarono pressione sui loro
dipendenti perché lo utilizzassero il più possibile anche se
non lo ritenevano utile, solo perché così potevano vendere prestazioni
più costose ai loro pazienti. Studi successivi hanno dimostrato
che il CAD non solo non aumentava l'accuratezza della diagnosi
ma in alcuni casi la aveva addirittura peggiorata.
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