H5N1 è la sigla che definisce il virus dell'influenza aviaria, individuato per la prima volta a Hong Kong nel 1967. È difficile che questo virus si trasmetta agli esseri umani, diversamente di quanto accade con l'influenza di stagione, la trasmissione può avvenire infatti solo per contatto diretto con l'animale malato o con le sue secrezioni. Quando però avviene , il virus aviario H5N1 è letale in circa il 60% dei casi. Nel mese di dicembre, scienziati provenienti da due gruppi indipendenti, uno guidato da Ron Fouchier presso la Erasmus Medical Center in Olanda e l'altro da Yoshi Kawaoke presso l'Università del Wisconsin, hanno riferito di aver manipolato con successo il virus H5N1 per renderlo più virulento, potenzialmente in grado di trasmettersi da uomo a uomo. Fouchier e Kawaoke avevano in programma di pubblicare le loro ricerche sulle riviste Science e Nature, almeno fino a quando la National Science Advisory Board for Biosecurity (NSABB), ha chiesto ai ricercatori e agli editori delle riviste di astenersi dal pubblicare i dettagli sulla nuova versione del virus. Troppo rischioso, avevano detto i suoi esperti, divulgare i dettagli dello studio. Qualcuno potrebbe usarlo a scopi terroristici. A febbraio dopo un incontro di due giorni, tenutosi a Ginevra, al quale hanno preso parte 22 tra i massimi esperti in biosicurezza, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha deciso che i due controversi studi sul virus influenzale H5N1 saranno pubblicati integralmente.
Gli scienziati hanno concluso che la ricerca nella creazione di forme più trasmissibili di virus influenzali H5N1 è importante e deve continuare. I due lavori saranno quindi pubblicati, bisognerà solo aspettare ancora qualche mese. Il tempo necessario per organizzare nuovi incontri e consentire ulteriori discussioni sugli aspetti legati alla biosicurezza. Queste settimane sono state caratterizzate quindi da grandi discussioni e cambiamenti di scena dove è stato messa in discussione la libertà e l’indipendenza della ricerca scientifica. Nonostante l’impatto positivo di tali studi ed i benefici che essi posso apportare, la paura percepita che il virus possa sfuggire dai laboratori ha generato un intenso dibattito pubblico nei media sui benefici e sui potenziali danni di questo tipo di ricerca.
Vengono di seguito proposti una serie di articoli che analizzano questa vicenda sotto i suoi diversi aspetti non tralasciando l’aspetto bioetico e le dinamiche politiche e economiche che sono entrate in gioco.
Il caso del virus mutato H5N1 ha riaperto il dibattito sul pericolo che un agente biologico possa essere adoperato come arma di distruzione di massa. Se qualcuno però ritiene che il bioterrorismo sia solo una conseguenza dello sviluppo che le scienze biologiche e mediche hanno avuto nell'ultimo secolo e in particolare negli ultimi decenni, compie un grave errore. L’utilizzo di patogeni in attività belliche è documentato sin dall’età classica.
La
prima testimonianza dell’uso di agenti biologici nell’arte della guerra risale
al tempo dei greci. Erodoto, descrive l’impiego da parte degli arcieri sciti di frecce
avvelenate, presumibilmente con il batterio Clostridrium
botulinum che induce il tetano. Nel
1346 i Tartari, durante l’assedio della colonia genovese di Caffa, catapultarono
oltre le mura di cinta della città, cadaveri di soldati tartari morti per
peste. L’epidemia si diffuse all’interno della città. Trasportata poi dalle navi
dei genovesi in fuga, la Morte Nera
sbarcò in Europa dove sterminò in appena tre anni 20 milioni di persone.
Virus che percorron la storia dell'uomo e alcune volte la cambiano. La conquista del Nuovo Mondo da parte dei conquistadores europei è stata facilitata dalla diffusione di malattie come il vaiolo. Pizzarro offrì ai nativi sudamericani coperte usate da persone infettate dal vaiolo. Probabilmente il generale inglese Jeffrey Amherst, tenne a mente la vicenda di Pizzarro, facendo donare come “atto di amicizia” agli indiani fedeli ai francesi coperte e indumenti contaminati dal virus del vaiolo ottenuti da vittime della malattia. Per vendicarsi i francesi fecero la stessa cosa con gli indiani fedeli agli inglesi.
Gli episodi descritti sono tutte vicende dove la guerra biologica è colpo sinistro del destino, alla base non c'era nessuna conoscenza scientifica. Col passare dei decenni però il progresso e la ricerca hanno dato la possibilità a molti paesi di sviluppare progetti bellici basati sull’uso di questi tipi di agenti.
Il Giappone, a partire dal 1932 diede inizio a un ambizioso programma di guerra biologica, allestendo una base in Manciuria denominata “Unità 731” guidata dal medico militare Shiro Ishii. In questa basi vennero condotti esperimenti su prigionieri di guerra. Il principale metodo sperimentale era rappresentato dall'infezione. Fra i principali patogeni saggiati in tal modo sono da includere Bacillus anthracis, Neisseria meningitidis, Vibrio cholerae. Si stima che siano morte almeno 3000 persone tra prigionieri cinesi. Dopo numerosi test i Giapponesi sparsero con gli aerei in Manciuria quantità enormi di grano insieme a pulci veicolanti il germe della peste. L’intento, in parte riuscito, era quello di attirare con il grano i ratti fuori dalla tane per facilitare il loro contatto con questi insetti. I roditori si trasformarono così in serbatoi di malattia e amplificarono il processo di diffusione dell’epidemia tra la popolazione civile.
Un programma simile a quello giapponese fu adottato dagli Stati Uniti, a partire dal 1941 iniziarono la produzione in scala di numerosi patogeni. Ma nel 1969 dopo la pubblicazione da parte dell’ OMS di un rapporto in cui veniva segnalata l'imprevedibilità delle armi biologiche e i rischi per la loro incontrollabilità, il presidente Nixon si impegnò pubblicamente alla rinuncia allo sviluppo e all'uso di armi biologiche.
Rinuncia agli armanti che arrivò finalmente con un trattato siglato nel 1972, dove 143 Paesi tra cui tutti gli stati dell'Unione Europea, gli Stati Uniti, l'Australia ed il Giappone, ma non Israele si impegnavano a fermare la sperimentazione, la produzione, l'acquisizione e lo stoccaggio di armi biologiche. Al trattato aderirà anche l’Unione Sovietica ma ciò non impedirà il lancio del Biopreparat, il più grande programma di ricerca militare che la storia ricordi, con circa 60.000 persone impiegate. Viene prodotto un arsenale di agenti eziologici imbarazzante, sviluppate tecniche per la coltivazione, la selezione di ceppi più virulenti e la loro essiccazione per consentire la conservazione a temperatura ambiente. Fortunatamente nei primi anni Novanta, dopo l’avvento di Gorbačëv, la struttura viene ufficialmente smantellata e l’Occidente ne verrà a conoscenza solo quando un alto dirigente del Biopreparat scapperà nel Regno Unito.
Al tempo della Prima Guerra del Golfo i servizi segreti occidentali sospettavano che il governo di Saddam Hussein avesse in corso un consistente programma di guerra biologica. Fortunatamente le armi biologiche sviluppate da Saddam non furono usate durante il conflitto ma determinarono comunque uno stato di incertezza e di paura nelle truppe presenti al fronte. La paura di una guerra biologica è sempre dietro l’angolo, c’è un grande vantaggio nella produzione di armi biologiche: il costo. Secondo un rapporto dell’ONU infatti si stima che un’operazione su larga scala contro la popolazione civile di un Paese costerebbe 2000 dollari per km2 con armi convenzionali, 800 con il nucleare, 600 con i gas nervini, ma solo un dollaro con agenti biologici. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 l’emergenza antrace, innescata da una serie di lettere inviate a uffici federali, televisioni e giornali, sembra dar corpo a questo scenario. Ma forse il nuovo pericolo non è rappresentato dai cosiddetti stati “canaglia”, ma dalla disinvoltura con la quale in molti laboratori si “gioca” con agenti biologici, un incidente in uno di questi potrebbe scatenare una pandemia.
Un esempio è dato dal un lavoro del 2002, pubblicato su PNAS, in cui viene comparata la risposta immunitaria nei confronti di Variola major, il virus responsabile del vaiolo eradicato ormai da decenni, e Vaccinia, un virus attenuato che è stato utilizzato per immunizzare la popolazione umana nei confronti di questa malattia. Non avendo a disposizione il virus selvatico, per confrontare i geni che codificano un inibitore chiave della risposta immunitaria i ricercatori ne ricostruiscono il gene utilizzando tecniche di sintesi. In sostanza, per ricostruire il gene di Variola sostituiscono nel corrispondente di Vaccinia 13 oligonucleotidi. Per alcuni il risultato ottenuto in questo studio è di grande importanza perché se il vaiolo ricomparisse nella popolazione umana si potrebbe tentare di ridurre la risposta del gene in questione, ma per altri esiste il pericolo che ingegnerizzando il Vaccinia con lo stesso gene si potrebbe aumentarne la virulenza e quindi riportare in vita il virus del vaiolo. Lo stesso tipo di dibattito avvenuto nel 2002 , avviene oggi all’indomani delle ricerche di Kawaoka e Fouchier.
Il World Health Organization ha preso la sua decisione, i lavori sul virus mutato H5N1 saranno pubblicati. Ma è veramente una decisione giusta? Non era meglio aspettare, capire, evitare che tali informazioni finiscano nelle mani sbagliate e generino una pandemia mortale e diffusissima? Uno dei problemi è rappresentato proprio dal tipo di ricerca, perché infatti giocare con la natura e se il virus “fuggisse” dal laboratorio?
Non è un ipotesi remota, già nel 1994 l’Università di Yale è stata al centro di una vicenda che sembra uscita dal copione di un thriller fantascientifico. Un giovane ricercatore venne infettato da un raro e letale virus esotico, in seguito alla rottura di una centrifuga per esperimenti pur indossando guanti, maschera e camice protettivi come d' obbligo quando si trattano agenti ad elevato rischio. Tuttavia, lascia il laboratorio ad alto isolamento dove lavora e continua la sua vita di sempre entrando in contatto con almeno ottanta persone diverse. La vittima, dopo dodici giorni ormai in preda ai primi sintomi della malattia (febbre alta, debolezza), grazie a una forte dose di un farmaco antivirale sperimentale si è salvato ed è stata scongiurata una pandemia. I dati per creare il virus mutato, una volta pubblici potrebbero essere utilizzati per fini terroristici o per fini politici, ipotesi che si innesta bene nel nuovo scenario di contrasti tra l'occidente e il mondo arabo o più probabilmente tra l'occidente e la Cina. Nazione quest'ultima che ha una capacità scientifica e di ricerca molto sviluppata e una enorme voglia e interesse di diventare stato dominante del pianeta.
L’impiego di alcune armi “non convenzionali”, come le armi biologiche, risale fin dalla più remota antichità, sono silenziose e invisibili, ma pericolose al pari di quelle nucleari. A differenza delle tecnologie nucleari, l'ingegneria genetica può essere prodotta e sviluppata a basso costo. Per oltre 25 anni gli Stati Uniti, l'ex Unione Sovietica e varie altre nazioni si sono date da fare per sviluppare armi biologiche. Nel 1972, però, le nazioni stipularono un accordo per bandire queste armi. Nonostante questo, alcuni paesi, però continuarono a studiarle e svilupparle segretamente. Un esempio è l'antrace, di facile diffusione (per via aerea), utilizzato più volte dopo l'11 settembre 2001 per attacchi terroristici. Lettere con tracce di antrace furono recapitate a senatori del partito democratico USA e alle redazioni di alcuni giornali del nuovo continente, con esiti infausti: morirono cinque persone e se ne ammalarono 17.
Un ulteriore uso improprio dei recenti studi sull'H5N1, potrebbe provenire dalle case farmaceutiche al fine di creare allarmismo e successivamente spingere i governi a investire sull'acquisto di nuovi vaccini, che le stesse case farmaceutiche sarebbero in grado di offrire molto rapidamente, grazie alle informazioni in possesso e creare immediati profitti. Ricordiamo nel 2009 il caso dell'H1N1, noto anche come influenza suina, dove lo Stato Italiano, con i soldi dei contribuenti, ha acquistato 48 milioni di dosi di vaccino con una spesa superiore a 400 milioni di euro. Tuttavia, delle 48 milioni di dosi acquistate, ne sono state impiegate poco più di 5 milioni e, malgrado ciò, l’influenza superò la fase di picco, senza traccia di pandemia, con conseguenze minori rispetto alle normali influenze stagionali. Allo stesso tempo, però, è necessario che i dati non pubblicati, relativi alle mutazioni dell'H5N1, vengano condivisi, al fine di non minare l'effettiva efficacia di questi studi. Infatti, si ha bisogno del contributo di altri scienziati per studiare sistemi di monitoraggio e prevenzione di eventuali epidemie. Il governo, quindi, dovrebbe fornire un piano, attraverso il quale si possano trasmettere le informazioni mancanti a organizzazioni e laboratori di ricerca accuratamente selezionati. A tale scopo, sarebbe opportuno nominare un ente super partes che eserciti un controllo e garantisca i fini eticamente e moralmente ineccepibili.
Il virus dell’influenza aviaria è un virus influenzale di tipo A altamente infettivo negli uccelli selvatici e domestici con alta mortalità. Il virus si trasmette attraverso le feci, le secrezioni oro-nasali e congiuntivali. Esso è stato identificato per la prima volta nel secolo scorso, ma è continuamente presente nella popolazione avaria mondiale con ricadute più o meno frequenti. L'epidemia da virus H5N1 iniziata alla fine del 2003 nel sudest asiatico è tutt’ora in atto con gravi conseguenze sull’economia di alcuni paesi, e ha portato alla morte di 150 milioni di volatili. A colpire maggiormente l’interesse della Organizzazione Mondiale della Sanità è la possibilità che il virus si trasmetta tra specie ed in particolare sia in grado di passare all’uomo. Questo si è in effetti verificato in modo evidente nel 1997 quando 18 persone mostrarono infezioni respiratorie acute dovute al virus H5N1 ad Hong Kong e di questi sei morirono per l’infezione. L’allarme è salito nuovamente nel febbraio 2003, quando un’epidemia di influenza da virus H5N1 a Hong Kong causò 2 casi di malattia e 1 morto. Altri due virus dell’influenza aviaria hanno recentemente causato malattie negli esseri umani. La causa più recente di allarme si è verificata nel gennaio 2004, quando i test di laboratorio hanno confermato la presenza del virus aviario H5N1 nei casi di malattie respiratorie acute nella regione nord del Vietnam. La preoccupazione che il virus passi dagli uccelli all’uomo è quindi fondata, tuttavia è stato dimostrato che il virus nell’uomo non è per il momento altamente infettivo, ad oggi le persone infettate sono state circa 600 e tutte venute a stretto contatto con animali infetti. Di queste 600, circa la metà è morta a causa dell’infezione. Il rischio di una pandemia però rimane, i virus infatti sono in grado di modificarsi in fretta adattandosi all’ospite. Per questo motivo l’OMS sta da anni lavorando a scongiurare questa possibilità sia limitando l’infezione nei volatili, che aumentando le misure di sicurezza dei lavoratori che sono in contatto con uccelli domestici, che attraverso lo studio di nuovi vaccini.
Proprio nell’ottica dello sviluppo di nuovi vaccini si collocano gli studi di due gruppi di ricerca indipendenti, uno condotto da Ron Fouchier dell’Erasmus Medical Centre di Rotterdam e l’altro condotto da Yoshihiro Kawaoka dell’Università del Wisconsin a Madison, Stati Uniti. Entrambi i gruppi hanno lungamente studiato il virus H5N1 per conoscerlo in modo approfondito, conoscenza necessaria per poter sviluppare un vaccino efficace. Le due ricerche, sottomesse alle due riviste scientifiche più prestigiose, Science e Nature, dimostrano che è possibile modificare il virus H5N1 per renderlo pandemico. In particolare sono state introdotte nel virus 5 mutazioni in due differenti geni generando un super virus in grado di trasmettersi con facilità e alta mortalità nei furetti, mammiferi che rispondono ai virus in modo simile all’uomo. La scoperta ha generato una serie di reazioni discordanti nella comunità scientifica. Sebbene le conoscenze sviluppate siano fondamentali per la creazione di un super vaccino, in grado quindi di fermare la pandemia nel caso il virus mutasse naturalmente, tuttavia esse pongono le basi per la creazione in laboratorio di virus mortali che potrebbero essere utilizzati come armi biologiche
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha deciso che i due controversi studi sul virus influenzale H5N1 saranno pubblicati integralmente. La decisione arriva dopo un incontro di due giorni, tenutosi a Ginevra al quale hanno preso parte 22 esperti di biosicurezza provenienti da tutto il mondo. "Secondo il gruppo di esperti, spiega Antony Fauci, rischi terroristici sono inferiori ai vantaggi che possono derivare dalle ricerche in termini di vaccini preventivi, test diagnostici e farmaci anti-virali".
Ma è davvero giusta la pubblicazione dei lavori? Lo studio deve essere rendere pubblico, innanzitutto perché l'intento degli esperimenti non è stato quello di creare il virus del ”terrore”, ma per rispondere alle domande sul perché il virus H5N1 trasmette anche tra gli uccelli, ma non gli esseri umani. Fouchier e Kawaoke hanno finora solo dimostrato che il virus da loro modificato è in grado di passare tra furetti, modello sì ottimale per l’influenza, ma non tutti i ceppi di virus influenzali hanno la stessa virulenza negli esseri umani e furetti. "Ad oggi in effetti ancora non sappiamo neanche se l'influenza da noi creata abbia la capacità di essere trasmessa da uomo a uomo, spiega Fouchier, proprio perché nessuno è mai stato infettato”.
Nel 2009 infatti, il virus H1N1 che causava gravi infezioni in esperimenti condotti sui furetti, era però relativamente mite negli esseri umani. Un virus per poter causare una pandemia non solo deve avere la capacità di trasmettersi tra esseri umani ma anche quella di mantenere la virulenza. Non ci sono ancora prove che nel furetto, dopo diversi passaggi, il virus H5N1 mantenga questa proprietà. Uno dei maggiori motivi di preoccupazione relativi a questo studio è dato dal possibile uso improprio e il rilascio accidentale del virus.
Ma il virus H5N1 già è in circolazione in natura costituendo una minaccia, essendo soggetto a continue mutazione che possono causare pandemie. Così come è successo per l’influenza spagnola, non è stata la mano dell’uomo a creare un virus che ha ucciso circa 50 milioni di persone. Dato che le mutazioni che conferiscono all’ H5N1 trasmissibilità nei mammiferi possono emergere in natura, la diffusione dei dati è di fondamentale importanza perché attirerà ricercatori a studiare i meccanismi di base. Si potrà dare la possibilità di testare i vaccini contro ceppi mutati di H5N1. Naturalmente c'è il pericolo che queste informazioni possano anche essere sfruttate dai terroristi.
Ma la pubblicazione dei dettagli della ricerca non è tuttavia essenziale per un bioterrorista, dal momento che qualsiasi criminale con abbastanza denaro potrebbe condurre un esperimento simile conoscendo addirittura solo le informazioni parziali già trapelate. Inoltre perché usare una versione modificata del ceppo H5N1 quando la sequenza del virus influenzale del 1918, questo sì noto per essere un virus letale e trasmissibile nell’ uomo, è facilmente reperibile? Nel 2006, infatti le sequenze genetiche sono state pubblicate sia da Science che da Nature, vengono riportate le mutazioni specifiche che consentono l'emoagglutinina H5 virale di legare i recettori umani. Un virus influenzale come arma biologica, appare una scelta “abbastanza discutibile”, perché, una volta liberato, sarebbe praticamente impossibile da contenere la sua diffusione in tutto il mondo. L'influenza non ha alcun rispetto per i confini. Inoltre, se qualche gruppo terroristico ha le capacità di diffondere un virus come arma, presumibilmente è anche in possesso delle conoscenze sufficienti per poterlo sviluppare in maniera indipendente. Infine la censura di questi lavori è un rischio enorme per tutta la scienza, limitare la diffusione serve solo a impedire il progresso.
Come fa notare Giovanni Boniolio: “Celare la parte metodologica significa snaturare la scienza stessa. Una delle sue caratteristiche fondamentali è data proprio dalla ripetibilità dei risultati e delle metodiche, le quali devono essere rese pubbliche per poter, appunto, essere sottoposte a potenziale controllo intersoggettivo”. Gli scienziati sarebbero scoraggiati a perseguire linee di ricerca temendo lo spettro della censura e lo stop ai finanziamenti. Questo è un eventualità che l’uomo non si può permettere, solo non limitando la ricerca potremo essere pronti quando la natura si farà viva.
Il dibattito, tra chi vorrebbe la pubblicazione totale delle ricerche sul virus H5N1 e chi invece ritiene sia necessario censurare almeno i “dati sensibili” delle ricerche, rimane acceso. Da alcune settimane, infatti, continua a scaldare le pagine di Nature e di Science, senza giungere ad alcun esito soddisfacente per entrambi le parti in gioco. Da un lato il fronte della ricerca, costituito in prima linea dai due diversi gruppi che hanno effettuato la ricerca, sul lato opposto gli organismi istituiti per la sicurezza della ricerca, primo fra tutti la National Science Advisory Board for Biosecurity (SAAB), organismo che si occupa di biosicurezza per conto dei National Institutes of Health (NIH). NIH è il finanziatore della ricerca statunitense guidata da Yoshihiro Kawaoka, e nonostante ciò la direttrice dello stesso istituto, Amy Patterson, a dicembre ha chiesto agli editori delle riviste Nature e Science di omettere almeno parte dei dati forniti dai due gruppi di ricerca: la motivazione ultima di tale richiesta, vista l’estrema contagiosità del virus dell'influenza aviaria H5N1, è quella di evitare che tali risultati finiscano nelle mani sbagliate, potendo così trasformarsi in arma biologica.
I ricercatori che al contrario sostengono la necessità del pubblicare completamente la ricerca, motivano tale posizione con la tesi secondo la quale l’accessibilità totale dei risultati ai ricercatori di tutto il mondo aiuterebbe la comunità scientifica a prepararsi a un’ipotetica pandemia di H5N1. Proprio lo scambio di conoscenze sarebbe la chiave fondamentale per prevederne la reale gravità e agire così con tempestività. Secondo i ricercatori, infatti, l’accessibilità dei dati non rappresenterebbe un vantaggio per i bioterroristi, i quali possono arrivare a produrre virus di quel tipo anche senza l’aiuto dei due studi, alla semplice condizione che posseggano di bravi tecnici. È sostenuto, anzi, che nessuno produrrebbe un virus letale per scopi terroristici se è a conoscenza che contro di esso esista già un vaccino efficace. Per queste diverse motivazioni, la migliore difesa contro H5N1 rimane preparare vaccini adeguati, fattore che dipende dalla divulgazione di tutti i risultati raggiunti. La situazione è controversa, ed è difficile prendere una posizione netta senza prestare attenzione alle argomentazioni del fronte opposto, percependone la legittimità. In tale contesto, il virologo Ron Fouchier e i suoi colleghi di Rotterdam hanno di nuovo utilizzato Nature per rassicurare l’opinione pubblica e avanzare una proposta: dopo aver precisato che l’esperimento è stato portato avanti con «appropriata supervisione, in strutture di contenimento sicuro, da personale altamente qualificato e responsabile, per ridurre al minimo qualsiasi rischio di rilascio accidentale del virus», esprimono il «bisogno di spiegare con chiarezza i benefici di questa importante ricerca e le misure adottate per ridurre al minimo i rischi possibili».
La proposta concreta è allora quella di istituire un forum internazionale in cui la comunità scientifica possa riunirsi e discutere il tema con maggior calma. Inoltre viene comunicato che è stata concordata una pausa di due mesi per «ogni lavoro che possa portare alla sintesi di virus H5N1 altamente patogeni». Sembrerebbe che i ricercatori abbiano l’intenzione di porre maggiore luce e chiarezza almeno sulla paura percepita riguardo alla possibilità che avvenga una fuga del virus dal laboratorio, viste anche le considerazioni fatte da Lynn Klotz e Ed Sylvester, della Arizona State University: “Abbiamo calcolato che se 42 laboratori studiano un agente patogeno per un anno c’è una probabilità del 34% che ci sia una fuga del virus, se consideriamo un periodo di studio di 4 anni la percentuale sale all’80%”. La discussione all’interno del forum dovrà necessariamente sciogliere il nodo sulla possibile divulgazione dei risultati ma in modo limitato: prima di tutto bisognerà ragionare se un’ipotesi plausibile possa essere quello di limitare i contenuti accessibili o, al contrario, divulgarli nella loro totalità ma a un bacino ristretto di destinatari. Essenzialmente solo a una parte della comunità scientifica. Ron Fouchier si domanda, però, chi possa prendere questo tipo di decisioni. “Il virus dell’influenza è un problema globale, ma a oggi sembra vogliano essere i soli Stati Uniti e i loro organi governativi a decidere quale ricerca va pubblicata e quale no. E la domanda allora sorge spontanea: se parte dei risultati saranno pubblici e altri invece disponibili ad accesso limitato, chi sarà a decidere chi potrà accedere a tutti i file? Sempre il NSABB? E a che titolo?”. Mentre John Steinburner, dell’Università del Maryland, sempre dalle pagine di Nature ha commentato: “Chi è che decide a chi bisogna fornire tutti i dati della ricerca? E chi è che monitora che non finiscano nelle mani sbagliate?”. Yoshihiro Kawaoka invece sottolinea che «il meccanismo che «il governo americano propone per il rilascio dei dati sarebbe ingombrante», e implicherebbe comunque una perdita di tempo inutile, visto che «anche se un processo efficiente può essere stabilito, sarebbe difficile far rispettare la riservatezza continuata nella comunità scientifica». Rimanendo pronti a porci nuove domande sulla questione, attendiamo di vedere come si pone il NSABB e la sua risposta alla proposta del forum di discussione.
Giuseppe Nucera