The Best Of Stephen Jay Gould

Pubblicato il 17/07/2012Tempo di lettura: 10 mins

Per celebrare Stephen Jay Gould, grande paleontologo di Harvard, a dieci anni dalla sua morte (20 maggio 2002), presento qui i suoi cinque migliori saggi brevi, scelti tra quelli che scrisse per la sua rubrica “This View of Life” sulla rivista mensile dell’American Museum of Natural History, dove in oltre 25 anni di ininterrotta attività (1974-2002) pubblicò più di 300 articoli.
Molti, esperti e non, considerano queste Reflections on Natural History capolavori di divulgazione scientifica. I lettori italiani hanno accesso a questa ricchezza nei libri, periodiche raccolte tematiche dei saggi brevi di Gould, che diversi editori hanno tradotto. Non si tratta solo e tanto di riassumere contenuti – anche se in parte lo farò. Il presente scritto è piuttosto un invito alla lettura, attraverso un commento, una contestualizzazione, la sottolineatura di alcuni aspetti.

La “top five” è stata assemblata a partire da un sondaggio tra i lettori del portale Pikaia :

  1. Capezzoli maschili e glande clitorideo - raccolta Bravo Brontosauro (Acron. : CMGC91)
  2. Le uova del kiwi e la campana delle libertà - Bravo Brontosauro   (KIWI91)
  3. Essere un ornitorinco  - Risplendi grande lucciola (ORN)
  4. Omaggio di un biologo a topolino - Il pollice del panda  (TOPO81)
  5. La cospirazione di Piltdown - Quando i cavalli avevano le dita (PILT80)

Gould e la sua rubrica

Le Riflessioni di Storia Naturale raccontano l’evoluzione, con particolare attenzione alle stranezze della natura e ai modi cui cui le spieghiamo, agli “scherzi” della natura che sfidano i nostri modelli, ma narrano anche la storia e la storiografia della biologia, le figure e le vicende che hanno contribuito alla nascita, revisione ed estensione del grande programma di ricerca. Spesso operano accostamenti arditi tra la scienza e le più varie forme di cultura attinte dalla varietà degli interessi e dal grande spessore intellettuale di Gould.

Le domande di ognuno, le domande di tutti

Vi è un passaggio, in uno dei saggi vincitori, in cui Gould parla della propria corrispondenza con i lettori. Esaminarlo, credo, aiuta a farsi un’idea del modo in cui Gould viveva la propria rubrica, e inoltre evidenzia alcune idee di fondo che possono costituire un messaggio anche per noi.

Tenendo da molti anni questa rubrica di “riflessioni di storia naturale”, ricevo centinaia di lettere da lettori che non riescono a spiegarsi qualche apparente stranezza della natura. Grazie a un campione tanto vasto, ho potuto farmi un’idea abbastanza buona dei problemi e dei particolari dell’evoluzione che pongono rompicapi insolubili a lettori non scienziati di buona cultura (CMGC91, p. 127).

Nel vasto campione delle lettere dei lettori, i capezzoli maschili costituiscono l’enigma che compare più di frequente. Gould dice di essere rimasto affascinato e sorpreso da ciò, e cita direttamente l’ultima lettera ricevuta “da una bibliotecaria in grave imbarazzo”:

Ho una domanda alla quale non riesco a trovare una risposta da sola, e non so dove o come cercare la risposta. Perché gli uomini hanno i capezzoli? (…) Questa domanda mi tormenta ogni volta che vedo un uomo a torso nudo! (Ibidem)

Mi sembra che un presupposto centrale di tutte le riflessioni di Gould sia questa idea che tutte le persone, dalle bibliotecarie ai politici ai salumieri agli studenti ai grandi scienziati, siano portatrici di domande precise, di rompicapo, di dilemmi che li portano a cercare di applicare le spiegazioni scientifiche (o almeno, della versione di esse che giunge loro attraverso i più vari media) e a dubitarne. Lo scrivere di Gould è una pratica basata sull’idea le persone non sono contenitori vuoti. Al contrario, hanno problemi ben precisi che – vedremo qui – sono creati dai modi di pensare tanto quanto dalla realtà.

Ma vi è in Gould un’idea ancora più forte: quella di una continuità, o almeno una contiguità, tra tutti i tipi di soggetti esaminati più sopra, in particolare tra i grandi scienziati del presente e del passato da una parte, e persone comuni dall’altra. È un’idea che sovverte un po’ alcune gerarchie che potremmo avere in mente, ad esempio: lo scienziato è superiore agli altri, e lo scienziato del presente è superiore a quello del passato. Che poi questo abbia l’effetto di elevare chi prima era visto come inferiore, oppure quello di abbassare chi era posto su un piedistallo, poco importa, e diversi saggi di Gould appaiono impostati nell’uno o nell’altro modo. Tornando alla nostra bibliotecaria, ella è accostata nientemeno che a Erasmus Darwin, nonno di Charles e grandissimo scienziato. La continuità, la “parentela epistemologica” tra scienziati di tutti i tempi e tra essi e i non scienziati riguarda tanto le domande quanto le risposte. Per quanto riguarda la domanda, nella Zoonomia (1794) Erasmus, come la bibliotecaria, considerò i capezzoli maschili nientemeno che un’eccezione cosmica a un principio universale: quello della utilità universale, secondo il quale, per via della dinamica stessa del mondo organico, ogni carattere che esiste deve essere utile a qualcosa. Ma il parallelismo tra le risposte, tra le spiegazioni elaborate da Erasmus e dalla bibliotecaria per questo “carattere eccezionale”, affascina Gould ancora di più: laddove Erasmus ipotizza che alcuni maschi possano produrre latte e siano perciò in grado di aiutare nell’allattare i figli, la bibliotecaria interrogando un medico si sente rispondere che in società primitive gli uomini erano soliti allattare i bambini, trovando però assurda questa ipotesi; l’alternativa di Erasmus, che “l’uomo con tutti gli altri animali furono in origine ermafroditi durante l’infanzia del mondo, e nel corso del tempo si separarono in maschio e femmina”, è ciò che anche la bibliotecaria ha in mente quando chiede a Gould “Può dirmi se in passato ci fu solo un sesso?”.

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Collegialità e multicontestualità della scienza

Non soltanto domande e risposte, ma anche critiche accese fanno parte dell’interazione di Gould con i lettori. Uno dei saggi di cui qui parleremo (PILT80) è anche uno degli esempi più calzanti di ciò: quando Gould lo pubblicò su Natural History nell’agosto 1980…

…sapevo bene che cosa sarebbe accaduto. Non sono mai stato così sicuro della prontezza di una reazione da quel triplo glorioso con cui, in un pomeriggio di sole del 1950, segnai la vittoria della mia squadra in una partita di stickball (nel mio cortile adibito a campo di stickball, per fare un punto con una sola battuta si doveva raggiungere il palazzo di fronte, ma per fare un triplo si dovevano superare con la palla le finestre del terzo piano) (PILT83, p. 229).

Qui, tra parentesi, vediamo anche balenare l’enorme passione di Gould per baseball e sport affini, che però non avremo tempo di toccare. La cronologia complessiva del dibattito di cui stiamo parlando è questa:

- 1979: primo saggio di Gould sull’argomento (PILT79), seguito da una “valanga di lettere” (cf. PILT79, poscritto, p. 111);

- agosto 1980: saggio in questione (PILT80), poi, per alcuni mesi, prima ondata di critiche senza però l’aggiunta di informazioni nuove;

- giugno 1981: su Natural History vengono pubblicate le tre lettere giudicate più interessanti con una risposta di Gould (che però orgogliosamente sostiene di averle anticipate quasi completamente in PILT80);

- a seguire, seconda ondata di critiche con apporto di informazioni nuove;

- 1983: ristampa del saggio PILT80 volutamente non rivisto, soltanto con l’aggiunta di note correttive delle informazioni scorrette, in Hen’s Teeth and Horse’s Toes, insieme a un intero capitolo di “Risposta ai critici” (PILT83).

Nel rapporto con i suoi critici, Gould sembra sforzarsi di somigliare a Darwin che, insieme a Joe Di Maggio e al proprio padre, è il suo eroe, e che scrisse il famoso capitolo “Difficoltà della teoria” nella VI edizione dell’Origine (1872) per rispondere ai problemi posti dai critici.

Tanto nei racconti autobiografici quanto in quelli biografici, Stephen Jay Gould era tra quegli autori capaci di narrare la scienza come dinamica sociale, con un gusto misurato per il “backstage” e per la multicontestualità dell’attività scientifica. Le pubblicazioni scientifiche non coincidono con ciò che gli scienziati sanno. Gli scienziati sanno molto di più, e sanno molto di meno. Le convinzioni degli scienziati vanno al di là di quello che scrivono nei paper, e questo emerge nei corridoi, negli scambi informali, e nelle lettere (oggi le email?). Racconta Gould di aver chiesto notizie ai colleghi, nel corso di molti anni, sulla “frode di Piltdown” di cui parleremo:

…pochissimi credevano al racconto ufficiale […]. Notai, in particolare, che vari fra gli uomini che ammiro di più sospettavano di Teilhard [de Chardin], non tanto sulla base di prove solide […], quanto sulla base di un sentimento intuitivo su quest’uomo che essi conoscevano bene, che amavano e rispettavano, ma che sembrava nascondere, dietro una facciata di pietà, passione, mistero e buon umore (PILT79, p. 209).

E sono molte le consultazioni tra colleghi raccontate da Gould, compresi i consigli saggi di colleghi più anziani, le anticipazioni incredibili, le parole che fanno riflettere e vengono rivalutate a lungo termine:

Ricordo bene una cosa che mi disse Francis Crick [!] molti anni fa, quando avevo una forte tendenza funzionalistica [!]. Egli osservò, in risposta a una storia che avevo alacremente inventato per spiegare il significato del DNA ripetitivo: “Perché voi evoluzionisti cercate sempre di accertare il valore di qualche cosa prima ancora di sapere come è fatta?” […] Oggi però sono convinto che […] dobbiamo prima di tutto studiare il “come” per poter sapere se dobbiamo o no chiederci anche il “perché” (CMGC91, p. 138).

Investigando in questo mondo della scienza come attività di uomini e donne (ora che ci penso: poche in realtà!), Gould cerca di raccontare l’umanità della scienza, emozionando ed emozionandosi:

Io mi rallegro sempre quando scopro – e la cosa non è così rara come immaginano molte persone – che un grande pensatore è anche un essere umano esemplare (PILT80, p. 210).

Scrive ciò di un suo collega di Oxford, Kenneth Oakley, che si era recato a visitare per esaminare lettere originali di Teilhard de Chardin. Ne parleremo tra breve.

Riflessioni sulla natura umana

A Gould piaceva accostare personaggi in maniera inedita. Il collegamento non ha sempre la profondità di quello tra Erasmus Darwin e la bibliotecaria: sovente l’associazione di idee appare arbitraria (perché proprio questi due?), e non è rara una carica enfatica come quando, per coincidenza di nome con Erasmus Darwin, Gould cita un certo Desiderio Erasmo, “il più grande fra tutti gli studiosi del Rinascimento”, dal quale (1508) trae un paio di proverbi per chiudere il saggio. Uno che ricordo sempre è “la volpe ne sa tante, una il riccio, importante” (CMGC91, p. 139).

La natura umana è un altro grande protagonista delle Riflessioni di storia naturale.
Gould riflette su di essa continuamente, in modo introspettivo o osservativo, accompagnando queste sue riflessioni all’arte, altra sua grande passione. Soprattutto poesia e architettura, ma anche narrativa, pittura, scultura. Nei cinque saggi “migliori” abbiamo ad esempio il tema della maldicenza, intesa come tendenza ad attribuire la colpe a singoli individui, e anche viceversa quello della passione per le cospirazioni, il tutto condito con Il barbiere di Siviglia di Rossini (PILT80, pp. 203-4). “Nulla è più affascinante di un antico mistero” (PILT79, p. 99). Abbiamo anche il tema della verità, affrontato in modi originali:

Il pregio principale della verità, a prescindere dal suo valore etico (che io ritengo considerevole) consiste nel fatto che essa rappresenta una guida infallibile per poter raccontare una storia che regga [si noti la doppia lettura possibile, riguardante l’attività scientifica come ricerca della verità e come attività narrativa]. Il problema quando si mente è che, man mano che la storia si fa complessa o i ricordi confusi, diventa molto difficile ricordare tutti i particolari del racconto che si è inventato. […] Sir Walter Scott disse una cosa sacrosanta quando scrisse il famoso distico: Oh, what a tangled web we weave, / When we first practice to deceive!

E perché non dedicare un inno alla concisione (ORN91, p. 31), citando Shakespeare, il telegrafo, un capitano britannico alla conquista dell’India, per arrivare al famoso telegramma di W. H. Caldwell sull’ornitorinco “Monotremes oviparous, ovum meroblastic” (1884)?

Altrove, in un libro come Intelligenza e pregiudizio, Gould riflette sulla natura umana come oggetto di studio scientifico – o meglio come oggetto costruito dalla scienza, e come idea che dà forma alla scienza stessa, in un circolo parziamente aperto di influenza reciproca. Invece la riflessione sulla natura umana che Gould semina nelle Riflessioni è come l’arte stessa: non organica, probabilmente contradittoria in se stessa (ci piace trovare un singolo colpevole oppure ci piacciono le congiure?, cf. PILT80), evocativa, suggestiva.


And the winners are

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I due saggi primi classificati sono entrambi dedicati ad alcune delle tematiche più care a Gould: le stranezze della natura e il principio dell’utilità a ogni costo. Un altro tema comune ai due saggi è quello dei “vincoli strutturali”, un termine un po’ tecnico e freddo, che Gould non utilizza molto nei suoi saggi. Lo utilizza invece nelle sue pubblicazioni più tecniche, dove dà ad esso anche un significato piuttosto innovativo: un’accezione positiva e non soltanto negativa, laddove i vincoli possono facilitare l’evoluzione, canalizzarla, essere “punti di appoggio” che se da una parte limitano in maniera piuttosto irreversibile i percorsi evolutivi, dall’altra aprono nuove possibilità e campi di esplorazione. Una delle modalità di esplorazione a partire da vincoli strutturali è l’exaptation (Gould & Vrba 1982), che Gould illustra e spiega in maniera eccezionalmente chiara nel saggio sul kiwi.

Figura 1 – La campana della libertà. Sono visibili le due iscrizioni sulla cui diversa origine si sofferma Gould. In basso “Pass and Stow”. In alto “…Proclaim Liberty… By Order Of The Assembly…”.

La campana della libertà

La campana della libertà non mi sembra tra le più riuscite metafore architetturali di Gould, ma, visto che compare nel “best of”, è quella che mi tocca usare! La Liberty Bell si trova a Filadelfia e ha un grande significato storico per gli americani: è forse il simbolo più comunemente associato alla Rivoluzione americana, dato che l’8 luglio 1776 il suo suono radunò i cittadini di Filadelfia per la lettura della Dichiarazione d'indipendenza. Precedentemente, aveva anche suonato per annunciare l’apertura del primo congresso continentale nel 1774, nonché dopo la battaglia di Lexington e Concord nel 1775.

L’attenzione di Gould si focalizza sulla diversa origine delle due iscrizioni (Fig. 1). Gould racconta di aver cercato in tutti i modi di capire che cosa volesse significare “Pass and stow” su questo monumento storico. Dopotutto, la frase impressa nella parte superiore recita: “Proclamerete l’affrancamento nel paese per tutti i suoi abitanti”. Siamo davanti una versione un po’ meno elegante del celebre esempio dei “pennacchi di San Marco” (Gould & Lewontin 1979): in un artefatto, come in una architettura o in un essere vivente, vi sono parti che hanno un’origine funzionale, e altre in cui è molto più preminente la traccia della storia. Per quanto ci sforziamo di trovare un significato, una funzione, “Pass and stow” è soltanto il nome della fonderia che ha prodotto la campana. In altri casi, sono elementi che svolgono una funzione a portare ancora forti i vincoli della storia: è il caso dei pennacchi di San Marco, utilizzati per ospitare i meravigliosi mosaici dei quattro evangelisti ma originatisi per tutt’altre ragioni, strutturali, come sottoprodotti.

L’uovo del kiwi

Il kiwi (pronuncia: kivi) di cui Gould parla nel saggio “L’uovo del kiwi e la campana della libertà” è un uccello con le ali atrofizzate, grande quanto una gallina, diffuso soltanto in Nuova Zelanda. Come da copione gouldiano, la descrizione vivida e accurata del kiwi è seguita da una domanda, una di “quelle” famose domande. La maggiore stranezza del kiwi sta nell’uovo, in particolare nella sua enormità rispetto al corpo: esso può raggiungere il 25% del peso corporeo della femmina, e al massimo stadio di sviluppo si estende dalla parte più alta del petto fino alla cloaca! Per fare un paragone improprio, pensiamo a una donna di 40 kg con un feto pesante 10 kg… La femmina kiwi – che depone due o tre uova per ogni covata, a distanza di circa 33 giorni – deve ancheggiare, con le gambe divaricate, per vari giorni prima della deposizione, esponendosi ai pericoli e nutrendosi con difficoltà.

Ciò che è più interessante per Gould sono le strategie che utilizziamo quando cerchiamo di spiegare la dimensione, evidentemente sproporzionata, di questo uovo. A me è capitato diverse volte, proprio su ispirazione di questo saggio, di sfidare gruppi di persone a trovare una spiegazione (cf. Serrelli 2008). Proprio come previsto da Gould, la strategia più diffusa punta sui vantaggi che un uovo così grande può portare, non tanto alla madre, quanto al nascituro: la quantità di nutrimento, la possibilità di svilupparsi maggiormente prima della schiusa. Ma alcune persone sono più creative, e immaginano uno scenario in cui la dimensione dell’uovo impedisca ad esso di cadere nelle crepe di un ipotetico terreno roccioso in cui i kiwi vivrebbero.

Una spiegazione completamente differente, e molto più affascinante per Gould, è quella trovata da William Alexander Calder III (1934-2002): una spiegazione basata sulle regole strutturali dello sviluppo, non sul valore adattativo di un carattere. Innanzitutto, bisogna collegare i kiwi con la loro origine evolutiva (filogenetica) e con i “parenti” da cui discesero: i kiwi sarebbero “nani filogenetici”, si sarebbero cioè evoluti con un rimpicciolimento da un gruppo uccelli molto più grossi, assimilabili ai moa. In tale diminuzione di dimensione sarebbe stata conservata, immodificata, una regola strutturale: il rapporto che regola la proporzione tra peso dell’individuo e peso dell’uovo. Un vincolo strutturale.
Ogni carattere nell’organismo è correlato a molti altri. In generale, negli esseri viventi si osserva che una minore dimensione del corpo non si accompagna a un rimpicciolimento altrettanto veloce di molti caratteri particolari. Le “curve allometriche” (Fig. 2) sono descrizioni matematiche di questo fenomeno: potremmo dire che esprimono il mutamento di proporzioni al diminuire del peso corporeo. In ogni specie di uccelli esiste una curva allometrica che associa a differenti pesi del corpo un corrispondente peso dell’uovo. Una regola come questa (intraspecifica) ha senso e diventa evidente se si mettono in ordine di peso i membri della stessa popolazione, ed essa descrive il peso delle loro uova. A diverse specie corrispondono diverse curve allometriche. La curva allometrica INTERspecifica mostra in armonica disposizione tutte le diverse specie, dal colibrì al moa passando per le galline, ognuna con uno specifico rapporto (medio) tra corpo e uovo. Per ogni punto della curva interspecifica passa quella intraspecifica della specie corrispondente. Insomma, normalmente ogni specie di uccelli ha una curva allometrica intraspecifica adeguata al peso medio del corpo dei suoi membri.

Figura 2 – Una curva allometrica descrive le proporzioni di un tratto al variare della dimensione complessiva dell’organismo. In nero: curva allometrica interspecifica (dal colibrì al moa) che descrive il peso medio dell’uovo di ogni specie. In rosso tratteggiato: curva allometrica intraspecifica dei moa. La curva intraspecifica è meno pendente di quella interspecifica. La sproporzione dell’uovo del kiwi si deve alla conservazione di una regola strutturale attraverso il nanismo.

Ci si aspetterebbe che il kiwi avesse una curva allometrica – e quindi un uovo – simile a quella delle galline domestiche. Invece il suo uovo è sei volte più grande. L’ipotesi di Calder ripresa da Gould è che l’uovo dei kiwi, mentre essi diminuivano di dimensione nell’adattarsi alla vita insulare, sia “sceso” lungo la curva allometrica intraspecifica dei moa (da un adulto moa grande, a un adulto moa piccolo) che è molto meno pendente di quella interspecifica: che in questo processo, sotto pressioni selettive effettivamente molto lievi, non sia avvenuta la modificazione di questa regola strutturale. La grandezza dell’uovo sarebbe quindi nient’altro che un effetto collaterale della diminuzione di dimensione che sottosta ai vincoli strutturali dell’organismo.

E l’utilità? È verosimile che un uovo di grandi dimensioni consenta all’embrione che in esso si sviluppa di disporre di maggiore nutrimento e di nascere più preparato alla vita. Ma, come sottolinea Gould, una spiegazione biologica dovrebbe prima di tutto comprendere i processi strutturali attraverso i quali emerge un carattere, non i motivi (adattativi) per cui esso si conserva! La selezione naturale spiega semmai la conservazione dei caratteri strutturali emersi: la scomodità di un uovo così grande non ha portato all’estinzione del kiwi perché nell’ambiente non vi sono molti predatori – la pressione selettiva è molto debole. La selezione naturale funziona sulla variazione tra gli individui, la quale prende forma attraverso vincoli strutturali che sono difficilmente modificabili: vengono ereditati e sono il punto di partenza per la produzione di ulteriori novità.

Mi fa piacere che i kiwi se la cavino molto bene con le loro grandi uova. Ma possiamo concludere che queste uova smisurate siano state create dalla selezione naturale in vista di questi benefici? Questo assunto – che passa con la più grande facilità dalla funzione corrente di un carattere alla ragione per la sua origine – è, secondo me, l’errore più grave e diffuso presente nella mia professione, giacché questa falsa inferenza è alla base di centinaia di racconti convenzionali sulle vie seguite dall’evoluzione. Vorrei identificare questo errore di ragionamento con una frase che potrebbe essere un motto: L’utilità attuale non può essere messa sullo stesso piano con l’origine storica, ovvero, quando si mostra che qualcosa funziona bene, non si è ancora risolto il problema di come, quando o perché quella tal cosa abbia avuto origine. Io propongo una ragione semplice per etichettare come erronea un’inferenza automatica dall’utilità attuale all’origine storica: una buona funzione può sempre avere un’interpretazione alternativa. Una struttura oggi utile può essere stata costruita dalla selezione naturale per la sua funzione attuale (non nego che spesso l’inferenza regga), ma potrebbe essere stata sviluppata anche per un’altra ragione (o per nessuna ragione funzionale particolare) ed essere stata poi cooptata per il suo uso presente (KIWI91, p. 114).

I casi del secondo e terzo tipo sono “catturati” dal famoso termine, exaptation, introdotto da Gould e Vrba nel 1982 proprio per sopperire a quello che vedevano un “punto cieco” della teoria dell’evoluzione. Nonostante la sua probabile utilità odierna, il grande uovo del kiwi è come “Pass and Stow” sulla Campana: un prodotto dell’inerzia della storia, pronto perché ad esso, se non viene eliminato, si inventi un nuovo uso.

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Capezzoli maschili e glande clitorideo

…il pregiudizio dell’utilità ha suscitato inutili sofferenze e ansie a milioni di persone (CMGC91, p. 129).

È ciò che si legge nel saggio vincitore, il famoso Tits and clits, tradotto in “Capezzoli maschili e glande clitorideo”. Qui il discorso sui vincoli strutturali è applicato a noi stessi, uomini e donne, e si unisce alla pregnanza sociale della scienza. “Voglio dire, dopo tutto: perché la gente dovrebbe preoccuparsi tanto di idee speculative, anche se sbagliate, che però non procurano danni tangibili alla vita delle persone? […] tutto questo non è rigorosamente entre nous?” (Ivi, p. 134). Domanda retorica da parte di Gould, dato che il suo saggio si occupa proprio delle potenziali ripercussioni delle idee, scientifiche e non, sulle vite delle persone. Il pregiudizio dell’utilità è stato applicato a un carattere, l’orgasmo femminile, determinando ancora una volta un’aspettativa: quella della sua localizzazione anatomica vaginale. Nella teoria dell’evoluzione, il funzionalismo si esprime nei termini di:

…una lotta fra organismi per un successo riproduttivo differenziale. Il piacere sessuale, in sintesi, dovette evolversi come stimolo per la riproduzione. Questa formulazione funziona per il maschio giacché il picco dell’eccitazione sessuale coincide con l’eiaculazione: un concomitante diretto e primario del coito. Per gli uomini il massimo piacere è associato alla massima probabilità di produrre prole. In questa prospettiva, anche il piacere sessuale delle donne dovrebbe essere incentrato sull’atto che causa la fecondazione: ossia sulla copula stessa (Ivi, p. 131).

Ecco che la teoria diviene normativa, e l’orgasmo clitorideo è ridotto a un’anomalia, a una disfunzionalità. Questo è ciò che si ritrova, analizza Gould, nella teoria di Sigmund Freud della transizione dall’orgasmo clitorideo all’orgasmo vaginale, essenza della maturità sessuale femminile:

Questo dogma del passaggio dall’orgasmo clitorideo a quello vaginale divenne luogo comune della cultura popolare […], plasmò le attese di milioni di donne istruite e “illuminate”, le quali si sentirono ripetere da una schiera di psicoanalisti e da centinaia di articoli […] che dovevano compiere questa transizione biologicamente impossibile per raggiungere la maturità sessuale (Ivi, pp. 134-5).

La frigidità e la nevrosi sarebbero state legate alla mancanza o alla difficoltà di questa transizione. Il legame tra orgasmo e copula si ritrova in Freud non per l’influenza diretta di un modello biologico sbagliato (la teoria di Freud è abiologica), bensì per un modo di pensare, quello funzionalistico, più fondamentale. Un modo di pensare così forte da resistere alle evidenze contrarie, ai fatti:

Come le donne sanno fin dall’alba dei tempi, la localizzazione primaria per la stimolazione dell’orgasmo femminile è incentrata sulla clitoride. La rivoluzione scatenata dal rapporto Kinsey del 1953 [seguito da molti altri studi] ha reso oggi disponibile anche a quegli uomini che, per qualsiasi ragione, non ci fossero arrivati da soli […] (Ivi, p. 129).

Si tratta di indagini quantitative sulla sessualità delle donne americane. Il qui citato Alfred Kinsey è un mito per Gould, a lui è dedicato un saggio in Il sorriso del fenicottero.

Nonostante le evidenze contrarie, per molti anni grandi biologi evoluzionisti (Morris 1969, Eibl-Eibesfeldt 1975) hanno dato addirittura per scontato che l’orgasmo femminile sia vaginale, costruendo poi le loro ipotesi di adattamento alla riproduzione e alla monogamia. Inoltre, anche essere avversari dell’associazione tra orgasmo e riproduzione non significa fare a meno del principio di utilità, di adattamento funzionale. Anzi. È il caso di Sarah Hrdy, antropologa e primatologa ora emerita alla UC Davis, citata da Gould come scienziata che sosteneva che…

la dissociazione tra orgasmo e copula è un adattamento che favorisce il comportamento promiscuo; ciò permetterebbe alla femmina di assicurarsi il sostegno di vari maschi, mettendosi così in condizione di impedire a qualcuno di loro di arrecare danno ai suoi piccoli (Ivi, p. 133, corsivo mio).

Insomma, si dimostra facilmente che spiegazioni funzionali speculative ad hoc si possono trovare per ogni tratto e anche per il suo contrario.

Eppure l’ovvia alternativa non adattiva, quella strutturale, è chiara di fronte a noi come il fatto più elementare della sessualità umana: l’omologia fra il pene e la clitoride (Ivi, p. 137).

La clitoride – spiegava Kinsey e riportava Gould – è altrettanto riccamente dotata di terminazioni nervose del pene, ed è perciò capace di eccitazione. Le pareti della vagina, d’altra parte, sono “prive di organi terminali del tatto e sono del tutto insensibili” e “per la maggior parte delle donne l’insensibilità è estesa a ogni parte della vagina”. Vediamo che questa volta l’omologia esplicativa non è – come nel caso del kiwi – tra parenti, bensì tra i sessi di una specie (Fig. 3). E il medesimo principio che spiega i capezzoli maschili, con i quali concludiamo degnamente la trattazione di questo meritevole primo classificato:

I rapporti Kinsey sono due libri sul comportamento sessuale dell’essere umano: Sexual Behaviour in the Human Male (1948) e Sexual Behaviour in the Human Female (1953), scritti dal biologo Alfred Kinsey e colleghi. I risultati di questi lavori ebbero un’enorme risonanza presso la gente comune e furono immediatamente considerati controversi e sensazionalistici: si occupavano di argomenti che in precedenza erano considerati tabù e sfidavano le conoscenze convenzionali sulla sessualità (ad esempio, la credenza che l’eterosessualità e l’astinenza fossero la norma, sia statisticamente che eticamente).

Supponiamo di prendere l’avvio da un punto di vista diverso, concentrandoci sulle regole di accrescimento e di sviluppo. Le differenze esterne fra maschio e femmina si sviluppano gradualmente da un embrione così generalizzato che in esso non è affatto facile determinare il sesso. La clitoride e il pene sono uno stesso organo, identico nei due sessi agli inizi della vita embrionale, che in seguito si ingrossa nei feti maschili in conseguenza dell’effetto del testosterone. Similmente, le grandi labbra nella donna e i sacchi dello scroto nell’uomo sono la stessa struttura, indistinguibile negli embrioni più giovani, ma che in seguito si ingrandiscono, si ripiegano e si saldano lungo la linea mediana nei feti maschili.

Non ho dubbi sul fatto che la grandezza e la sensibilità delle mammelle femminili debba essere considerata un adattamento nei mammiferi, ma la versione più piccola del maschio non ha bisogno di alcuna spiegazione adattiva. Maschi e femmine non sono entità separate, formate indipendentemente dalla selezione naturale. I due sessi sono variazioni su un singolo piano fondamentale, che si differenziano nella parte posteriore dello sviluppo embrionale. I mammiferi maschi hanno i capezzoli perché le femmine ne hanno bisogno… (CMGC91, p. 128).

 

Figura 3 – Omologia tra organi sessuali maschili e femminili, che libera l’orgasmo femminile dalla necessità di una stretta associazione con la fitness riproduttiva, e quindi da determinate aspettative sulla sua collocazione strutturale (che possono, a loro volta, ripercuotersi in termini di criteri di “normalità”).
Fonte: ML Gustafson, PK Donahoe (1994) Male sex determination: Current Concepts of Male Sexual Differentiation, Annual Review of Medicine 45:505-524.

Essere un ornitorinco

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“Essere un ornitorinco” parla di aspettative e pregiudizi su un animale che appare ai nostri occhi un mosaico, un “collage” di caratteristiche tipiche dei rettili, dei mammiferi e degli uccelli. L’omologia del becco con quello degli uccelli, come vedremo, non è in realtà confermata: il becco dell’ornitorinco non è un “atavismo”, cioè la ricomparsa di un carattere degli uccelli; non una omologia bensì una analogia, di cui Gould si occupa alla fine del saggio.

L’ornitorinco era così strano da far sospettare, al suo primo ritrovamento da parte di scienziati occidentali (1799), ad una frode da parte di fantomatici “imbalsamatori cinesi” (ORN91, p. 33). Quali sono i pregiudizi, le false attese che vengono proiettati su questo essere dalla natura di “collage”? Gould ne individua due, uno tipico della visione predarwiniana, e un altro di quella evoluzionista.

Pregiudizi predarwiniani

Iniziamo dalla fase predarwiniana. Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, l’ornitorinco fu studiato dagli anatomisti europei e americani. Le tessere di quel mosaico cominiciavano ad accumularsi, e sembravano proprio provenire da classi differenti del sistema di classificazione linneano. Mancavano tuttavia alcuni tasselli. Ad esempio, per molti anni non furono trovate ghiandole mammarie; nemmeno le uova erano state trovate in natura, e gli esemplari morti non consentivano di trarre conclusioni su di esse. È qui infatti che Gould descrive un vero e proprio campo di battaglia tra scienziati: la fazione della viviparità, rappresentata dal tedesco Meckel e dal francese Blainville; quella della oviparità che comprendeva Lamarck e Geoffroy Saint-Hilaire; quella della ovoviviparità comprendente gli inglesi Everard Home e Richard Owen, per i quali le uova si dissolvevano nel corpo della femmina (ORN 91, p. 35). Le armi delle fazioni erano predizioni e dati che confermassero la propria ipotesi di fondo. Nel 1824 Meckel scoprì le ghiandole mammarie, punto a favore della sua ipotesi della viviparità. Ma esse erano sproporzionatamente grandi. La battaglia intellettuale infuriava:

Geoffroy, impegnato a sostenere l’oviparità e riluttante ad ammettere qualcosa di simile a cure parentali mammaliane, contrattaccò. Le ghiandole di Meckel, sostenne, non erano organi mammaliani, ma omologhi delle ghiandole odorifere dei toporagni, che secernono sostanze per attrarre partner sessuali. Quando poi Meckel estrasse una sostanza lattea dalla ghiandola mammaria, Geoffroy ammise che la secrezione doveva essere una sorta di cibo, ma non latte. Le ghiandole, sostenne Geoffroy, non sono ghiandole mammarie, ma sono un carattere speciale dei monotremi, e vengono usate per secernere sottili filamenti di muco che si coagulano nell’acqua per fornire cibo ai piccoli usciti dalle uova non ancora scoperte. Owen allora contrattaccò a sostegno di Meckel [prove dal ciclo di vita, dalla comparazione con l’echidna, e da un esperimento in sospensione]. Geoffroy tenne duro, sia in rapporto all’oviparità (punto su cui aveva ragione) sia in relazione allo status speciale delle ghiandole della nutrizione (su cui aveva torto, giacché si tratta effettivamente di ghiandole mammarie) (Ivi, 35-36).

Nel 1884 fu William Hay Caldwell, neolaureato di Cambridge poi caduto nell’oblio scientifico, a trovare per primo le uova dell’ornitorinco. Egli inviò il celebre telegramma “Monotremes oviparous, ovum meroblatic” a Montreal, per una pubblica lettura al Convegno Annuale della British Association. Ebbene? Dove va collocato l’ornitorinco?

Caldwell – nota Gould – risolse un mistero specifico che aveva afflitto la zoologia per quasi un secolo [riempie il vuoto di conoscenza, aggiunge la tessera mancante al mosaico], ma non fece altro che rendere più acuto il problema generale. Egli aveva dimostrato in modo inconfutabile che l’ornitorinco è un miscuglio, e che non può essere incluso in modo chiaro in nessuno dei due gruppi principali dei vertebrati (Ivi, p. 37).

Qual è dunque l’aspettativa che ingabbia l’ornitorinco, condivisa da tutti i partecipanti alla battaglia intellettuale che si concentra su organi e modalità riproduttive, e anzi motivo profondo della battaglia stessa? Fa notare Gould:

La natura aveva bisogno di categorie chiare e stabilite dalla divina sapienza. Un animale non poteva deporre uova e nutrire i suoi piccoli con latte prodotto da ghiandole mammarie. Perciò Geoffory insistette sulle uova negando la produzione di latte, e Meckel insistette sul latte e sulla viviparità (Ivi, p. 37, corsivo mio).

Che cos’è la tassonomia? In un mondo predarwiniano, solitamente si dice, la tassonomia ha lo scopo di individuare la gerarchia ordinata dei “tipi naturali”, l’ordine degli esseri viventi che non ammette eccezioni, intermedi, anomalie. Certo, questa descrizione può essere essa stessa uno stereotipo che imponiamo sugli intellettuali predarwiniani, anche perché non mancano eccezioni e consapevolezze epistemologiche più simili alle nostre. Geoffroy stesso, ad esempio, come sottolinea Gould (ORN91, p. 36), esprime una visione della tassonomia come guida all’azione, nella quale, ad esempio, evitare di collocare l’ornitorinco in una o nell’altra classe esistente “suggerisce la necessità di un ulteriore esame” invece che invitare “l’indolente a credere e adagiarsi”. Tuttavia, sembra a Gould e anche a me, l’idea è che l’ornitorinco lì non debba restare, che alla fine esso debba trovare una collocazione. Unica alternativa: una rivoluzione nell’intera mappa dell’ordine naturale.


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Pregiudizi darwiniani

La seconda parte del saggio di Gould è dedicata a un altro onere per il povero ornitorinco:

…questa volta imposto dall’evoluzione: l’idea stessa che aveva appena liberato questa povera creatura dalla sua classificazione forzata in categorie rigide. L’ornitorinco, in breve, dovette addossarsi (col suo osso dell’interclavicola) il peso della primitività. Esso era senza dubbio un mammifero, ma un’ameba fra gli dèi; un piccolo essere meschino, spregevole, segnato col marchio rettiliano di Caino (ORN 91, pp. 37-38).

La teoria dell’evoluzione di Darwin avrebbe insomma liberato l’ornitorinco dalle aspettative che lo ingabbiavano in un vero e proprio campo di battaglia tra scienziati, soltanto per farlo ricadere in aspettative nuove che Gould si occupa qui di evidenziare e confutare. Perché l’evoluzione aveva liberato l’ornitorinco dalla necessità di appartenere a una delle “grandi classi”? Per il principio della ramificazione e della diversificazione, dove i gruppi sono fasci di discendenze comuni, sono sempre possibili deviazioni, rami collaterali, e i tratti possono essere portati avanti in maniera diseguale nei vari rami: ecco perché “l’evoluzione aveva reso accettabile, se non interessante in senso positivo, l’idea dell’esistenza di forme intermedie (e di miscugli di caratteri)” (Ivi, p. 37). Gould però nota che i biologi evoluzionisti usano ora parlare dell’ornitorinco come se fosse una versione di mammifero mal sviluppata, effetto collaterale della cornice evoluzionistica per lo status del povero ornitorinco. Come mai? Si tratta dell’idea profonda dell’anello mancante, della forma di transizione intesa come punto di passaggio imperfetto verso un miglioramento assoluto. Effettivamente, anche nell’iconografia in Fig. 4 (in basso a destra) si nota una sua collocazione non solo “basale” ma anche “più in basso”. Eppure questo diagramma sulla posizione filogenetica dell’ornitorinco è tratto da un video realizzato da Nature nel 2008 quando il dibattito sull’ornitorinco si è riacceso dopo il sequenziamento del suo genoma. Ciò che Gould promuove è

…la sostituzione della tesi di una primitività limitante con una visione dell’ornitorinco concepito come un animale che si adatta attivamente per proprio conto ( ORN91, p. 39).

L’ornitorinco è un organismo ben adattato, con caratteri che erano tipici di specie contemporanee ai suoi antenati, e altri che sono “invenzioni particolari” esclusive dei suoi progenitori:

I caratteri premammaliani degli ornitorinchi identificano solo l’antichità della loro linea evolutiva come ramo separato rispetto all’albero mammaliano. Semmai, questa stessa antichità potrebbe aver dato all’ornitorinco più agio (ossia, più tempo) per diventare ciò che realmente è, in opposizione al mito della sua primitività: un animale superbamente costruito per un modo di vita particolare, e insolito. L’ornitorinco è una soluzione elegante per la vita dei mammiferi nei fiumi, e non un relitto primitivo di un mondo scomparso. Antico non significa inferiore in un mondo darwiniano (Ivi, p. 39).

Il giusto approccio è dunque quello di distinguere adattamenti condivisi con tutti i mammiferi e invenzioni particolari. A una di queste Gould dedica la parte conclusiva del saggio: il becco, per nulla omologo al becco degli uccelli, e organo olfattivo estremamente funzionale in acqua (dove l’ornitorinco chiude occhi, orecchie e narici) sensibilissimo ed estremamente complesso, correlato a estesissime aree nella corteccia cerebrale come avevano dimostrato ricerche negli anni ’70 e ’80. Possiamo immaginare cosa si prova a essere un ornitorinco? Ecco, in evidenza, la fonte di ispirazione del titolo di questo saggio: “Che effetto fa essere un pipistrello?” (Nagel 1974), uno degli articoli più famosi del filosofo Thomas Nagel.

Twinkle, twinkle, little bat, How I wonder what you’re at, Up above the world you fly, Like a tea-­‐tray in the sky. 

 

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Quarto a pari merito: omaggio di un biologo alla neotenia

“Omaggio di un biologo a Topolino”, scritto da Gould in occasione di un anniversario Disney, è dedicato alla trasformazione di questo personaggio nel corso degli anni (Fig. 5).

 

Aspetto fondamentale di questa storia è la sua descrizione in termini di infantilizzazione: Topolino in questo processo ringiovanisce, e in ciò Gould vede un chiaro parallelo con la biologia:

La progressiva infantilizzazione è un fenomeno noto come neotenia (p. 90).

Quella di Topolino è una infantilizzazione che ripercorre a ritroso lo sviluppo della nostra specieHomo sapiens:

Per dargli le gambe corte e paffute dei bambini, essi gli allungarono e allargarono i pantaloni. (Anche le braccia in seguito si ingrossarono ed acquistarono delle giunture che ne accentuavano l’aspetto grassoccio.) Le dimensioni della testa aumentarono e il volto assunse un aspetto più giovanile. La linghezza del muso di Topolino non è mai stata modificata, ma esso è stato ingrossato e così appare meno sporgente. Gli occhi di Topolino crebbero in due modi: innanziautto l’occhio del primo Topolino divenne, attraverso una trasformazione evolutiva discontinua, una pupilla, in seguito l’intero occhio assunse dimensioni maggiori. Le trasformazioni subite dalla testa sono particolarmente interessanti perché non dovevano alterare l’immagine convenzionale di Topolino [...]. La testa rotonda non poteva, quindi, essere trasformata per dare l’idea del caratteristico cranio sporgente dell’infanzia. Le orecchie furono così spostate indietro, aumentando la distanza tra naso e orecchie, e dando rotondità alla fronte (pp. 91-­‐92).

Gould si profonde poi in divertenti misurazioni precise, allo scopo – dice – di “dare alle mie osservazioni il marchio della scienza quantitativa”. La neotenia è un elemento fondamentale della nostra evoluzione, Gould l’ha sempre sostenuto. Rispetto alle scimmie antropomorfe nostre parenti, abbiamo uno sviluppo rallentato, manteniamo più a lungo caratteri morfologici, ma probabilmente anche comportamentali e neurologici, infantili. Questo apre ad esempio a grandi possibilità di apprendimento, maggiore dipendenza della prole dai genitori, minore specializzazione. Siamo una “scimmia bambina” nel senso che, rispetto al nostro comune antenato, le nostra discendenza e quella delle scimmie antropomorfe hanno prodotto cicli di sviluppo regolati a diverse velocità. Vale la pena di notare, però, che qui Gould sta giocando con una analogia tra biologia e cultura (Topolino è un artefatto) ardita e di facile fraintendimento. Un fraintendimento di cui non ci rendiamo neanche conto. Se, come dice Gould, “Topolino ringiovanisce” e “questo è noto come neotenia”, allora siao autorizzati a pensare che la neotenia consiste nel ringiovanimento di un individuo – che, per di più, anagraficamente invecchia. Non è così, e Gould nasconde, a mio parere, la chiave di lettura in un breve passaggio:

...l’aspetto del popolare personaggio dei cartoni animati si sta evolvendo verso una sempre maggiore somiglianza con i rappresentanti più giovani della sua genia, anche se ha ancora molta strada da percorrere per quel che riguarda le dimensioni della testa (p. 93, corsivo mio).

La genealogia di Topolino viene modificata intenzionalmente per comunicare determinati messaggi. Interessante il cambiamento parallelo di fisionomia e comportamento, dal Topolino dispettoso e crudele di Steamboat Willie (1928) all’uomo retto dall’aspetto fanciullesco che subisce le angherie del malvagio topo Mortimer, dalle fattezze decisamente più adulte, diMickey’s rival (1936). Tutto ciò è molto diverso dal meccanismo “cieco” della selezione naturale, che così spesso viene caricata di finalismo e teleologia. Da una parte, dunque, l’analogia tra evoluzione biologica e culturale è rischiosa. Dall’altra, anche in questo Gould sembra essere stato un anticipatore: studi sempre più avanzati stanno precisando somiglianze e differenze, utilizzandole per ricostruire storie e per sviluppare tendenze e previsioni di come cambiano le culture e gli oggetti culturali. Senza dimenticare, inoltre, i vincoli biologici che probabilmente continuano ad agire sugli oggetti culturali, ad esempio attraverso il gradimento istintivo cui essi devono sottostare. In questa linea, Gould dedica una buona parte del saggio al “potere che le caratteristiche infantili hanno su di noi” (p. 95), studiato da Lorenz e da Darwin.



 

 

La frode di Piltdown

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Il saggio “La cospirazione di Piltdown” si inserisce nella cronologia gouldiana che ho delineato sopra nel paragrafo “Collegialità e multicontestualità della scienza”.
Ecco, qui, la cronologia
di quella vicenda (Fig. 6), considerata un enigma storico, ma soprattutto la più grande frode della paleontoloantropologia o anche della scienza di tutti i tempi:


  • 1908: Charles Dawson, avvocato e archeologo dilettante del Sussex, setaccia una cava di ghiaia e trova frammenti di ossa consunte e profondamente colorate (segno che erano nella ghiaia da molte migliaia di anni);
  • 1912: Dawson porta frammenti di un cranio dalle fattezze decisamente moderne ad Arthur Smith Woodward, direttore della sezione zoologica del British Museum; tornano diverse volte sul posto con Teilhard de Chardin che studiava in un collegio di quella zona; Dawson trova una mandibola, anch’essa colorata, dall’aspetto scimmiesco ma con una consumazione del molari simile a quella umana, rotta nei due punti in cui si sarebbe potuta stabilire la connessione con il cranio che avevano già; associati anche manufatti (selci e ossa lavorate) e fossili di mammiferi;

  • presentazione alla British Society of Geology, reazioni diverse ma sospetto che fossero resti di due diversi esseri, finiti per qualche motivo naturale assieme nella cava;

  • 1913: Teilhard rinviene un canino inferiore, indizio molto importante;

  • 1915: Dawson convince quasi tutti critici con due frammenti di ossa ispessite, e di un ulteriore dente scimmiesco consumato come quelli umani;

  • trent’anni in cui “l’uomo di Piltdown occupò un posto scomodo ma riconosciuto nella preistoria umana” (PILT2, p. 101)

  • 1949: Kenneth P. Oakley (personaggio importante del saggio vincitore PILT80) applica il “test della fluorina” e trovandone troppo poca nei resti di Piltdown stabilisce sepoltura recente, senza ancora sospettare frode

  • Oakley, Weiner, Le Gros Clark stabiliscono colorazione artificiale, falsità degli artefatti (con lame moderne), provenienza aliena dei fossili, limatura artificiale dei denti. 

Gould dedicò almeno tre saggi a Piltdown (PILT79, PILT80 e PILT83). Essi hanno però focus leggermente diversi, che possiamo distinguere attraverso la metafora del doppio “velo di trame” che si frappone tra noi e la natura, il velo del “ordine umano”:

in questa vicenda l’ordine umano opera a due livelli: la commedia della frode e la più sottile ma ineluttabile imposizione della teoria sulla natura. In qualche modo, non mi dispiace che l’ordine umano debba velare la nostra interazione con l’universo perché un tale velo è trasparente, anche se di trama fitta (PILT79, p. 110).

Vediamo qui quello che definirei un “ottimismo critico” di Gould nei confronti della nostra capacità di conoscere la natura: possiamo conoscere soltanto attraverso il velo delle nostre idee e azioni, ma alla fine questo velo è trasparente, consente di raggiungere la realtà.

Il velo della scienza

Nel saggio scelto dai nostri lettori (PILT80) Gould si occuperà maggiormente del primo livello, quello della frode: di ricostruire cioè le trame che hanno portato alla contraffazione del reperto, nell’interazione tra Dawson, Teilhard de Chardin, Woodward e altri. Anche nel saggio più vecchio (PILT79) Gould accenna a diverse ipotesi in merito, propendendo per quella della burla organizzata da Dawson e andata troppo oltre, con la complicità di Teilhard.
Ma il focus principale di questo saggio è il secondo velo, quello delle idee sull’evoluzione umana, che hanno agito nel periodo 1915-1949 facendo sì che la comunità scientifica
credesse all’uomo di Piltdown:

...come è possibile che ci sia stato qualcuno che ha creduto all’uomo di Piltdown? Si trattava di una creatura improbabile fin dall’inizio.13 Come mai si accettò tra i nostri antenati un uomo dotato di un cranio moderno e di una mascella non modificata di scimmia antropomorfa? (PILT79, p. 105, corsivo mio). 

Prima dunque di commentare l’ipotesi de “La congiura di Piltdown” è il caso di soffermarsi sui “quattro ordini di ragioni” con cui Gould risponde a questa domanda, anche perché esse chiariscono la posizione di quel fossile falso nel panorama dell’evoluzione umana che fa da cornice in quegli anni:

  1.  Le grandi speranze si impongono sulle prove: l’uomo di Piltdown rispondeva all’aspirazione dei paleoantropologi inglesi che in quegli anni mancavano di testimonianze dei loro più antichi progenitori. L’uomo di Piltdown, che sembrava precedere di molto il Neanderthal,14 era anche una rivalsa tutta inglese verso i francesi: il nostro vero antenato, che relegava Neanderthal a ramo collaterale.

  2. I giudizi di valore hanno ripercussioni sulla teoria: il giudizio di valore sulla “supremazia del cervello” veniva proiettato come aspettativa sui fossili, ci si aspettava che l’espansione del cervello avesse preceduto ogni altro cambiamento importante; questa tuttavia – nota Gould – è una falsa deduzione dalla importanza contemporanea alla priorità storica.15 Inoltre, sulla base di un modello multiregionale “a candelabro” dell’evoluzione umana oggi ampiamente superato, Piltdown sembrava giustificare la superiorità della razza bianca: esso appariva infatti molto più moderno, “completamente umano” dei suoi contemporanei cinesi Homo erectus dal cervello piccolo.

  3. Le aspettative portano gli scienziati a modificare i fatti: in fondo “nessuno si sognava una così completa indipendenza” tra le parti (p. 108), che permettesse a un nostro antenato di avere un cranio completamente umano e una mascella completamente scimmiesca. Così, per rendere accettabile la coesistenza di quel cranio e di quella mascella nello stesso individuo, i paleoantropologi svolsero osservazioni che tendevano a riconoscere caratteri scimmieschi nel cranio che oggi sappiamo umano, e caratteri umani (in aggiunta alla consunzione artificiale) nella mascella.

  4. Le procedure della comunità scientifica possono ostacolare la scoperta: coerentemente con l’uso del British museum a quel tempo, l’accesso ai reperti originali era rigidamente limitato (manipolazione soltanto di calchi di gesso), e soltanto esaminando gli originali la frode poteva essere scoperta.

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Il velo della frode, la figura di Teilhard, lo stile di Gould

Veniamo ora al saggio vincitore (PILT80). Come ho già detto, si tratta di un saggio dedicato all’indagine sulla frode (il “primo velo”). La tesi di Gould è quella di una congiura, iniziata come una burla inscenata da Dawson con la complicità di Teilhard, e andata troppo in là. Nonostante in un altro saggio Gould dichiari di non credere nello stile del giallo,16 la strategia argomentativa qui è proprio quella dell’indagine giudiziaria, con un atto di accusa iniziale e la paziente raccolta di prove, molte circostaziali e altre – quelle che Gould ritiene decisive – osservazioni dirette sulle lettere scritte da Teilhard che contengono incongruenze con i fatti “ufficiali”. Il saggio vincitore e anche la “risposta ai critici” sono lunghi e dettagliati. Non posso riassumerli e sarebbe noioso. Gould resta convinto della sua tesi anche senza poter portare prove definitive. Vorrei soltanto soffermarmi sulla motivazione delle reazioni critiche, che forse – ipotizzo, basandomi sulla mia esperienza – è anche la motivazione della qualificazione di “La cospirazione di Piltdown” nella top five da parte dei lettori di Pikaia. Teilhard è un mito, un gesuita scienziato e riconosciuto dalla comunità scientifica come tale, ma anche un teologo, grande pensatore che cercò una via per conciliare l’evoluzione con il cristianesimo, reinterpretando quest’ultimo in modo che fu pesantemente osteggiato dalla Chiesa ufficiale.

Verso la fine degli anni cinquanta e negli anni sessanta Teilhard era una figura di culto su scala internazionale. Oggi il suo astro è meno brillante, dato che la volubilità detta legge in questioni di moda; un gruppo di devoti agita però ancora la sua bandiera, sempre pronto a controbattere con la più grande animosità ogni insinuazione che possa gettare qualche ombra sul comportamento di Teilhard, facendo pensare che possa essere stato meno degno (o più umano) della nozione più rarefatta di santità eterea (PILT83, p. 229).

Dimostrare il coinvolgimento di Teilhard in una frode, insomma, sembra poterlo compromettere complessivamente come figura, con ripercussioni fatali sulle sue particolari convinzioni teologiche, nonché, più in generale, sul tentativo stesso di trovare vie di coesistenza tra fede e scienza. Questa penso possa essere una delle motivazioni di molte delle lettere ricevute da Gould ma, sospetto, anche almeno una delle ragioni del grande favore goduto da questo saggio nel nostro sondaggio, senza nulla togliere al suo valore di stile e di contenuto. Ma queste reazioni – tanto di orrore quanto di entusiasmo – sono fedeli alle intenzioni di Gould? Sicuramente lo sarebbero se stessimo parlando di un autore come Richard Dawkins. La posizione di Gould nella “battaglia” tra fede e scienza fu sempre pacifista, e se forse non sono possibili contenuti neutri e disinteressati (perché anche la conciliazione è una posizione), almeno i toni lo sono:

PILT80: Io penso che Teilhard abbia sofferto per Piltdown per tutta la vita. Penso che debba aver pianto nel suo intimo quando vedeva persone come Smith Woodward [...] rendersi ridicoli: proprio gli uomini che gli avevano concesso la loro amicizia e che gli avevano insegnato tante cose [...]. Teilhard pagò il suo debito e visse una vita piena; potessimo noi tutti farlo altrettanto bene (p. 228).

PILT84: Nulla che io possa dire potrà attenuare la loro aggressività, ma mi sia lecito ripetere: sincero dinanzi a Dio, io non ho alcuna intenzione di distruggere Teilhard. Penso che egli sia stato un uomo complesso e affascinante, molto più interessante nella sua realtà di essere umano che non in quella forma di immagine sacra nella quale è venerato dai suoi devoti. Inoltre, anche se ovviamente non spetta a me dirlo, io in realtà gli perdono se ha fatto ciò che sospetto. Era giovane; non agì per profitto, né monetario né personale; soffrì; mantenne una lealtà costante e ammirevole nei confronti di tutte le persone implicate; e non mendicò scuse. Dopo essermi così alleggerito, procederò, nel formulare questa replica, ignorando la maggior parte dei commenti personali e oltraggiosi rivolti contro di me. Mi asterrò anche dal commentare il numero maggiore delle lettere di appoggio e di amicizia, limitandomi a dire: “Molte grazie per aver capito quello che volevo fare” (p. 230).

Vi è ancora molto da leggere e da imparare da Stephen Jay Gould, dai suoi pensieri e dal suo stile, e spero sinceramente che questo piccolo tributo possa contribuire a motivare qualcuno a conoscerlo, oppure a conoscerlo meglio, e a coltivare anche in Italia l’opera di questo grande autore.