Tutte le cose che ho detto e fatto,
Ora che sono vecchio e malato,
Diventano problemi, tanto che
Notte per notte rimango sveglio
E non ottengo mai una risposta esatta.
(William Butler Yeats)
Ricevo da un amico di Matera un libriccino di Leonardo Sinisgalli, preceduto dalla sua fama e stuzzicante per quel suo titolo esatto e furibondo insieme: libriccino che, di lì a qualche mese, leggo di slancio durante un viaggio in treno.
Mi ridesta, questa lettura, lontani rimpianti e nostalgie per quel nucleo sodo lucido compatto come una noce di marmo e di cuoio che mi si era formato dentro, incassato tra la ghiandola pineale e il cuore, in seguito allo studio assiduo delle matematiche in anni che sembrano vicini e sono invece ormai lontani: "Anch'io ero stato malato di quell'idolatria," anch'io avevo intravvisto quella meta fredda e azzurrata che mi splendeva davanti e m'invitava con la seduzione ascetica della scienza, anch'io ero stato abbagliato dal fulgore algido del sacrificio, che arde senza rumore e brucia senza misericordia.
Ai piedi di quell'altare sentivo di dover deporre qualcosa di vivo e pulsante: ma anch'io, dopo i lunghi anni del castigo e della beatitudine, ero guarito al contatto della vita, col suo sapore di sangue e di pelle e di sperma.
Mi resta tuttavia, come dice Sinisgalli nelle pagine dove troneggia la meretrice "grassa e rossa... la donna superba dalla magnifica mascella equina," un residuo secco e cocente di verginità perduta: e anche per me "tutta la mia malinconia repressa, soffocata dalle squadre e dai compassi, dal calcolo degli infinitesimi, dalla ridda delle funzioni iperboliche, dalla teoria delle curve di secondo grado, dalla spirale logaritmica e dalla lemniscata di Bernoulli, dalle cuspidi, dai flessi..." anche per me la segnatura alta della vita tornava a galla "tra le ali di [qualche] fantastica gallina curcia."
Così vivevo anch'io quest'indecisa oscillazione tra la brama di incistarmi in una lucida macchina capace di erogare agli uomini tutti i teoremi e di abituarli alla "respirazione dell'aria esatta" e la spinta verso un'esistenza elementare che mi accomunasse agli organismi inferiori che non conoscono l'angoscia e che cercano la gratificazione immediata del titillamento epidermico.
Anche oggi, e più che mai, i patiti del macchinismo lavorano ilari e diligenti per trasformarci in lustri e ben oliati automi, simbionti, robot, manichini, androidi; per farci uscire da quelle camere a imbuto, da quei "recessi d'aria, inservibili, dei quali a prima vista non sappiamo capire la funzione," da quelle "camere d'aria inerte, spugne di suono che hanno" tuttavia un compito di equilibrio indispensabile: e per lanciarci invece nel cielo dell'onnipotenza razionale.
Con entusiasmo e sgomento sentiamo nascere in noi e intorno a noi qualcosa di inaudito: una Creatura Planetaria di cui ogni essere umano, integrato di protesi bioinformatiche sarà una cellula. Questo superorganismo già possiede una ribollente intelligenza collettiva, e distillerà una sua torbida coscienza: chi è, che cosa vuole, quali domande si porrà, quali storie si racconterà questo essere molteplice e proteiforme?
Un giorno nella Creatura si accenderà una scintilla di volizione ed essa salperà verso le Pleiadi: come un'affilata astronave fenderà il cosmo per secoli e secoli di buio siderale. Dentro, ciascuno in un uovo di cristallo molato, uomini e donne dormiranno un sonno profetico, custodendo nel gelido corpo il sangue e lo sperma di una razza futura. Andrà l'astronave verso altri pianeti, più oscuri, dai laghi profondi, abitati da anonime stirpi inspiegate, popolati di azzurre città.
Su quei pianeti lontanissimi le donne non faranno più i figli col corpo, tra spruzzi e bollicine. S'inventerà un sistema più dignitoso ed esatto, in sintonia con la precisione della scienza. Le nostre insistenti preghiere saranno esaudite e ci trasformeremo in macchine: forti, dure, inossidabili. Solo le donne di cera delle specole avranno le cavità gialle e rosse della riproduzione. Gli uteri finiranno nei musei, accanto alle lanterne magiche e ai dinosauri imbalsamati.
Divenuti macchine, saremo immortali. Creeremo un mondo preciso e puntuale, dove regnerà la demenza onnipotente degli automi. Onniscienti e insensati, ci dedicheremo a un'innocua e raffinata imitazione della vita.
Incubo? Premonizione? Desiderio? Tutto era già scritto nel mondo, da quando il fango dell'Archeano cominciò a presagire il suo futuro organico, da quando la vita esitò e poi sbocciò nei mari siluriani: una marcia faticosa e inesausta ebbe inizio, che ancora non è terminata e ci porterà chissà dove.
Come si chiama la Persia
nella lingua di Sirio?
E l'Arabia?
Parole, parole: i nomi!
Basta che spicchino il volo
e dalle ali fanno cadere i millenni.
Prorompe dalle pagine di questo libretto, il Furor Mathematicus di Leonardo Sinisgalli, lo slancio di un pensiero laterale, l'empito di uno scarto creativo che sorprende e costruisce imprevedibili sentieri da percorrere con l'anatrare goffo del genio oppure con il passo elastico dell'idiota, mescolandosi la matematica (ma è una matematica narrata, come si narrerebbe una statua o una donna) e la storia della matematica con un aìre poetico, ricercato di aggettivi e di sostantivi curiosi, nuovi, espressivi, talentuosi. Ne deriva un senso di spaesamento e di estraneità familiare che si misura nelle note che sanno di un'autobiografia più esistenziale che mentale: "non ci sentiamo mai così vivi come in questi giorni che acqua e vento restringono intorno al nostro corpo, come intorno a una sepoltura": durante un inverno, stagione "minerale" e incorruttibile come tutte le cose fredde: come la matematica, dunque, perfette imitazioni di un vivere e morire inimitabili, in cui la negazione stessa della vita ne consente il prolungamento indefinito. Ed è forse per questo che gli uomini preferirono le macchine e la matematica ai loro compagni, anche se non bisogna farsi eccessive illusioni, perché dalla matematica, come «da certi inverni si esce irreparabilmente invecchiati, forse a causa di questo digiuno a cui teniamo costretti gli organi più vivi... La nostra solitudine si restringe.»
Così, nel volger della stagione verso la sua inevitabile uscita dal freddo, ci accostiamo al fuoco, fuggendo la precisione mortifera predicata da Laplace. Ci rendiamo conto che il suo sogno di un universo perfetto si è infranto per il battito d'ali di una farfalla. Non più stregati dal formalismo, dalla contemplazione platonica di questi oggetti della mente, sottratti al fascino malioso e severo delle matematiche, ci siamo resi conto che non "possono avere senso tanti insulti alla Bellezza a difesa della Verità". Sinisgalli vorrebbe
«mettere in guardia, me stesso e i miei amici, dai troppi disperati tabù, dai Mostri che l'inquietudine nostra vorrebbe sostituire agli Idoli, agli Dèi... Certo è che noi sentiamo il bisogno di espressioni “volgari”... Non vogliamo paradisi artificiali ma l'inferno qui in terra.»
Un progressivo allontanamento dalle regioni astratte del pensiero puro, scarso d'ossigeno, pericoloso per la vita, e un cauto avvicinamento a discipline meno rarefatte: l'ingegneria, l'architettura, e di qui alla Casa, che simboleggia la vita:
«Ma una Casa, signor mio, non è una fortezza, o una cabina, è un nido, fatto di piume, di fuscelli, di fango. La Casa deve sapere di fumo, di capelli, di cane... V'immaginate una casa senza gatti? Lo so, voi avete fatto tutto per abolirli. V'immaginate una casa senza mosche?»
E' il trapasso dall'utopia della vita esatta, della ricostruzione razionale del mondo, al riconoscimento che disordine e incertezza e approssimazione sono ingredienti ineliminabili, anzi, vitali, del mondo. E di qui si giunge a quella straordinaria pagina sulle case vuote:
«un soffio tetro, un grido lontano, che non tanto deriva dallo stato di abbandono di quasi tutti gli edifici, e da quell'aria defunta che spira tra le camere vuote e i cortili, ma da una loro strana facoltà acustica, da un certo odore di cava che sprigionano i sassi e l'intonaco, dai molteplici imbuti d'ombra, da un che di gelido, di onirico...»
Pagina che, per fratellanza, ardisco accostare a una mia:
«Potrebbe descrivere le case di Pest dal punto di vista di
qualcuno che stia per fare un trasloco in una giornata d'inverno?
Le case sono umide e oscure, gli
appartamenti raccolti intorno a uno o più cortili pieni di ringhiere. Le pareti
degli appartamenti sono leggermente sghembe e i pavimenti inclinati, i soffitti
sono spesso chiazzati d'umidità. I mobili sono poveri e debbono essere
inchiodati ai muri per evitare che cadano. Stando sdraiati sul letto e
guardando la vecchia tappezzeria scolorita e consunta, si prova una sensazione
di tristezza e di lontananza, l'imminente trasloco assume proporzioni grandiose
e un carattere definitivo, come se oltre le nubi grigie e uniformi che coprono
il cielo si scorgesse il volto spettrale del destino.»
(La gerarchia di Ackermann, cap. VI)
Così, insomma, queste mie note disordinate e confuse, ma partecipi e commosse, su un libro che si sarebbe potuto intitolare Furor poeticus oppure Poesia mathematica o Mathematica poetica, senza nulla togliere, aggiungere o cambiare: e mi accomiato da Leonardo Sinisgalli in punta di piedi, uscendo da quella stanza in cui «aspettavo in quegli anni la sera con trepidazone e nessuno ha saputo mai perché io fossi tanto felice di andare a dormire così di buon'ora.»