Dossier omeopatia

Pubblicato il 11/06/2010Tempo di lettura: 9 mins

L’omeopatia è un esempio eloquente dell’innata tendenza degli uomini a illudere sé stessi. Si tratta di una cura che contrasta con ogni principio scientifico consolidato e la cui utilità non è stata ancora chiaramente dimostrata. Al meglio è probabilmente solo uno spreco di risorse. Nonostante ciò la popolarità di questa pratica sembra intatta se non in aumento. In Europa farmacie continuano a vendere prodotti scarsamente credibili quali l’Oscillococcinum accanto a “vere” medicine, molti medici praticano l’omeopatia a tempo pieno o parziale, facoltà mediche tengono corsi master e assegnano diplomi in omeopatia, organizzazioni di pazienti che si curano con l’omeopatia reagiscono irate ad ogni critica obbiettiva rivolta a questa pratica. Perché?

Dire che l’omeopatia non ha alcuna possibilità di funzionare perché manca di qualsiasi fondamento scientifico non ha avuto finora alcun effetto. Stranamente, un argomento ovvio come quello che una molecola non può avere alcun effetto biologico dopo che è stata rimossa dal medicamento ha mancato di dissuadere pazienti e operatori sanitari. Illustrare l’improbabile chimica delle diluizioni omeopatiche, la gratuità della “legge degli infinitesimi” e del principio secondo cui “similia similibus curantur” si è mostrato ugualmente inefficace. Come dice il matematico americano Norman Levitt, “siamo passati dal concetto di uguaglianza tra gli individui a quello di uguaglianza tra le idee e le credenze. Oggi è politicamente scorretto chiamare qualcosa una idea stupida”.

I sostenitori dell’omeopatia hanno risposto alle accuse di infondatezza con una compagine di spiegazioni dubbie se pur ingegnose. Essi ammettono - e come potrebbero fare altrimenti? - che i fondamenti dell’omeopatia non sono strettamente provati, ma sostengono che la pratica non è implausibile alla luce dei moderni sviluppi della scienza, quale la meccanica quantistica.

Ecco alcuni aspetti di questo tipo di argomentazioni. Secondo Richard Feynman, nessuno capisce appieno la fisica quantistica. Essa tuttavia “funziona”, e, secondo i sostenitori dell’omeopatia, questo mostra che ignorare il meccanismo di un’azione fisica (quale l’ipotetico trasferimento di proprietà dal soluto al solvente) non è una ragione sufficiente per negarne l’esistenza. Il principio di indeterminazione di Heisenberg è spesso citato come esempio che il mondo è imprevedibile e che quindi in natura niente può essere escluso a priori. Concetti quantistici non intuitivi come l’”entanglement” e il “collasso della funzione d’onda” sono spesso tirati in ballo per spiegare i risultati negativi degli studi clinici. L’ipotesi è che in omeopatia paziente, medico e farmaco sono uniti (“entangled”) in uno stato funzionale con un reciproco scambio di informazioni simile a quello formato da coppie di elettroni, fotoni e altre particelle subatomiche. E come nella meccanica quantistica indagare sulle caratteristiche (posizione, spin e altro) di queste particelle provoca il collasso della loro funzione d’onda interrompendo il flusso di informazioni, così il procedimento usato negli studi clinici randomizzati annullerebbe l’unità paziente-medico-farmaco cancellando l’effetto curativo. C’è in rete un divertente saggio sul tema intitolato “Verso una Interpretazione Quantistica dell’Omeopatia”. L’articolo, pieno di fantasiose espressioni e formule matematiche, termina con la raccomandazione all’omeopata di astenersi, dopo aver prescritto la cura, da ogni controllo (meglio se il medico si trasferisce in un’altra città) per evitare di produrre il collasso della funzione d’onda del paziente e rendere la cura inefficace.

Il valore di questi argomenti è per lo meno incerto dato che metafore e analogie di per sé non provano niente. Eventi come l’ “entanglement” e il collasso della funzione d’onda riguardano entità subatomiche e non possono applicarsi ai pazienti che non sono esattamente oggetti quantistici. Per di più la meccanica quantistica è un ramo della fisica che ha uno straordinario successo pratico confortato da esperimenti e innumerevoli applicazioni tecnologiche mentre l’omeopatia non si è mossa dallo stato di ipotesi clinica. Quindi nessun parallelo apporopriato può essere proposto tra questi due soggetti.

Indicare il fatto che l’utilità dell’omeopatia resta da essere ancora provata non ha avuto miglior effetto. Una causa dell’insuccesso è che il rumore di fondo presente nella letteratura medica permette a chi passa in rassegna la bibliografia su un argomento di selezionare, se vuole, studi che si accordano con le proprie preconcette opinioni. Va detto che questa tattica è adesso meno applicabile grazie ai progressi della metodologia clinica. Esiste oggi un ampio consenso sui minimi criteri da seguire per condurre studi clinici validi (presenza di controlli credibili, campionatura adeguata, randomizzazione corretta, “blinding”, basse percentuali di “patient drop out” eccetera) che permettono una valutazione obbiettiva della qualità e validità di ogni studio clinico. Questo significa che i sostenitori dell’omeopatia sono oggi meno credibili quando oppongono a uno studio di documentata alta qualità che riporta un risultato negativo il risultato positivo di un altro studio avente qualità inferiore.

Nella letteratura medica esiste spesso un rapporto inverso tra la qualità degli studi clinici e l’efficacia attribuita alla cura (1). In altre parole, accade meno di frequente che uno studio ben fatto dia risultati genuinamente positivi di quanto avvenga per studi di qualità inferiore. La tendenza diventa regola quasi costante per quel che riguarda l’omeopatia - e, incidentalmente, le altre medicine alternative. Questa circostanza è una prova convincente dell’inefficacia dell’omeopatia poiché nelle scienze sperimentali quando una teoria è corretta, se miglioriamo la qualità delle osservazioni gli effetti previsti dalla teoria si manifestano più chiaramente, non meno.

Questa relazione inversa è ben illustrata dai seguenti esempi. Secondo una rassegna di studi clinici pubblicata nel 1997, autori Linde et al (2), il miglioramento di regola osservato dopo una cura omeopatica non è interamente spiegabile con l’effetto placebo. Tuttavia questi studiosi non trovarono prove convincenti che “nessun singolo tipo di cura omeopatica [fosse] chiaramente efficace in alcuna condizione clinica”. Il che, in senso ampio, è come dire che una medicina fa bene a tutti eccetto a uomini, donne e bambini. A parte questa rettifica la metanalisi di Linde et al suscitò dubbi perché includeva lavori di qualità inferiore che avrebbero potuto rafforzare il giudizio complessivo favorevole all’omeopatia. Anni dopo Linde e al (3) analizzarono di nuovo i dati e osservarono che gli studi più rigorosi erano quelli meno positivi concludendo che la metanalisi precedente per lo meno sovrastimava l’effetto della trattamento omeopatico. Incidentalmente questo illustra bene quanto il giudizio complessivo delle metanalisi sia sensibile agli standard individuali degli studi considerati.

Forse la prova più convincente del rapporto inverso qualità degli lavori clinici/risultato positivo si trova in una metanalisi fatta da un gruppo di studiosi di metodologia medica guidati da Matthias Egger (4). Il lavoro, pieno di tecnicismi statistici, non è di facile lettura e può prestarsi a false interpretazioni. Tuttavia secondo ogni apparenza esso possiede ogni requisito di credibilità scientifca e il suo messaggio non lascia adito a dubbi: giudicando sulla base dei soli studi che veramente contano (quelli condotti su un materiale clinico ampio, e metodologicamente impeccabili) è giustificato concludere che il beneficio osservato sui pazienti durante una cura omoepatica è riconducibile a un effetto placebo. A una simile conclusione possiamo arrivare da noi dopo aver esaminato qualsiasi segmento della letteratura omeopatica disponibile. Esattamente come ammettevano Linde et al (2), non esistono prove convincenti che l’omeopatia sia efficace in alcun tipo di malattia.

Negli ultimi due decenni la statistica inferenziale comunemente usata negli studi clinici (statistica frequentistica) è stata messa in dubbio. Esperti di statistica (5) hanno sottolineato che il P value, una componente basilare di questo approccio, è una misura insoddisfacente del significato dei dati ottenuti. Una lacuna del P value consiste nel fatto che esso è calcolato senza prendere in considerazione la plausibilità dell’ipotesi in esame. Questa limitazione può non avere conseguenze rilevanti sugli studi clinici riguardante la medicina comunemente intesa nella quale sono di regola esaminate teorie plausibili. Tuttavia il P value esagera notevolmente la significatività statistica dei risultati quando l’ipotesi considerata è debole - che è il caso della maggior parte degli studi di medicina alternativa. Quindi un P value che altrimenti sarebbe considerato “significativo” può corrispondere in un trial omeopatico a una probabilità  non trascurabile che il risultato ottenuto è solo un prodotto del caso. Se usiamo un altro tipo di statistica inferenziale (la statistica bayesiana) si può osservare che, in condizioni ampiamente generali (6), un P value=0,01 in un trial ove la probabilità a priori che l’ipotesi in questione sia giudicata solo del 10% corrisponde a una probabilità a posteriori che il risultato è frutto del solo caso di 0,37. In questa luce quasi tutti i risultati “significativi” dei trial clinici omeopatici (e quelli di altre scientificamente implausibili medicine alternative come l’agopuntura) diventano dubbi. Attualmente una seconda misura della significatività, l’intervallo di confidenza (IC), è spesso riportato assieme al P value. L’IC è un utile complemento inferenziale poiché, a differenza del P value, ci informa sull’ampiezza dell’effetto osservato. Tuttavia anche esso appartiene alla statistica frequentistica ed è in principio soggetto allo stesso tipo di distorsioni che interessano il P value.

   Il dibattito sull’omeopatia non mostra alcun segno di finire né di indebolirsi. Questa situazione persiste anche perché molti sostenitori dell’omeopatia sembrano concepire la ricerca come un mezzo per confermare le loro credenze piuttosto che un metodo per accertare come veramente stanno le cose. Essi accettano senza discutere ogni risultato positivo ma affermano che “ulteriori ricerche sono necessarie” tutte le volte che sono posti di fronte a risultati negativi. Ma il fatto che “absence of evidence is not evidence of absence” non giustifica il proseguimento senza fine di ricerche le quali non possono essere che sterili. Come sosteneva il poeta Lucrezio “ex nihilo fit nihil”.

   Argomenti in favore di migliori standard scientifici in medicina possono non influenzare tutti allo stesso modo. Tuttavia è sperabile che essi siano presi in considerazione da organismi indipendenti e specialmente da quelle amministrazoni pubbliche e Università che sembrano nutrire simpatia per l’omeopatia - e per altre medicine alternative. Il gradimento dei pazienti e la scarsità di effetti collaterali non sono ragioni sufficienti per rendere una cura rimborsabile dal servizio sanitario nazionale o regionale. E alcune facoltà mediche dovrebbero capire che non possono ragionevolmente impartire in corsi post laurea nozioni che nell’insegnamento precedente sarebbero considerate assurde e ragioni sufficienti per bocciare uno studente del secondo anno di medicina.

[1] Knipschild P. The false positive therapeutic trial. J Clin Epidemiol 2002; 55: 1191-1195.
[2] Linde K, Clausius N, Ramirez D et al: Are the clinical effects of homeopathy placebo-effects? A meta-analysis of placebo-controlled  clinical trials. Lancet 1997; 350: 834-843.
[3] Linde K, Scholz M, Ramirez G et al. Impact of study quality on outcome in placebo-controlled trials of homeopathy. J Clin Epidemiol 1999; 52: 361-366.
[4] Shang A, Huwiler-Müntener K, Nartey L et al. Are the clinical effects of homeopathy placebo effects? Comparative study of placebo-controlled trials of homeopathy and allopathy. Lancet 2005; 366: 726-732.
[5] Hubbard R, Lindsay M: Why P values are not a useful measure of evidence in statistical significance testing. Theory & Psychology 2008; 18:69-88.
[6] Matthews R: Significance levels for the assessment of anomalous phenomena. Journal of Scientific Exploration 1999; 13:1-7.

Questo articolo è stato pubblicato in versione originale sull'European Journal of Internal Medicine ed è disponibile all'indirizzo: http://www.ejinme.com/article/S0953-6205%2810%2900046-4/pdf

L'omeopatia? Un placebo

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L’incontro-scontro tra Garattini e Boiron, cui fa capo una delle maggiori ditte produttrici di rimedi omeopatici, tenutosi ieri a Milano  e trasmesso in diretta sul sito del Corriere della Sera (www.corriere.it) costituisce un’istruttiva  introduzione a una trattazione del caso "omeopatia". L’incontro ha infatti messo in evidenza la complessità e la molteplicità degli aspetti dell’omeopatia (non solo scientifici, ma anche etici, economici e politici) e il fatto che la scienza tradizionale si scopre poco attrezzata ad affrontare questo problema, a meno di cambiare radicalmente punto di vista, passando, nella fattispecie, da una visione farmacocentrica ad una antropocentrica.
"Come fa ad agire qualcosa che non esiste? " si è chiesto Garattini, alludendo al fatto che nei prodotti omeopatici il principio attivo è diluito tanto che la probabilità di ritrovare anche una sola molecola del principio di partenza è praticamente uguale a zero. Questo significa, ha ribattuto, Boiron, che non sappiamo come agisce ma questo  non esclude che l’omeopatia sia efficace. L’efficacia dell’omeopatia, insisteva Boiron, è provata dall’esperienza di coloro, medici e pazienti, che da più di due secoli l’hanno utilizzata e continuano ad utilizzarla.
Questi, in sintesi, i termini del confronto tra Garattini e Boiron, un confronto, inizialmente, tra sordi. C’è voluto l’intervento del moderatore, Luigi Ripamonti, che ha fatto notare come i medici omeopati dedichino al paziente molto più tempo e attenzione dei medici tradizionali, e l’intervento di un pittoresco professore di immunologia, che ha ricordato che il nostro cervello produce sostanze ad attività farmacologica che si chiamano endorfine e dopamina, per fornire una chiave interpretativa capace di imprimere alla discussione un tono più interattivo.

Una chiave interpretativa

Questa chiave si chiama ‘effetto placebo’ ed è il risultato di meccanismi cerebrali di natura cognitiva, sia consci che inconsci, attraverso cui il contesto che accompagna qualsiasi intervento terapeutico, sia omeopatico che allopatico, produce effetti che possono essere anche molto specifici, dato che utilizzano meccanismi biologici comuni a quelli attraverso cui agiscono i farmaci veri. In realtà questa chiave interpretativa è sicuramente nota sia a Garattini che a Boiron, solo che nessuno dei due era disposto a parlarne, dato che avrebbe significato per ciascuno dei due cedere qualcosa all’altro.

Neuroscienza del placebo

Il contesto terapeutico alla base dell’effetto placebo è complesso ma non c’è dubbio che la sua componente più importante sia il medico, sia esso allopata sia omeopata. Il medico crea nel paziente un’aspettativa attraverso la parola con cui accompagna la medicina o il rimedio, attraverso l’attenzione che dedica al paziente, con l’empatia che suscita e la fiducia che il paziente ripone in lui. Questa aspettativa non necessariamente è positiva (placebo); certi medici e contesti , per es. quelli ospedalieri, esercitano aspettative negative (nocebo).
Al meccanismo conscio dell’aspettativa si aggiungono meccanismi inconsci di natura condizionata per cui stimoli in sé privi di effetto cioè neutri, acquisicono la capacità di generare risposte fisiologiche quando siano ripetutamente associati a stimoli, come i farmaci, dotati di proprietà non-condizionate.
Queste risposte sono simili a quelle del cane di Pavlov , che risponde al suono di un campanello che  gli preannuncia il pasto. In maniera analoga, in un soggetto affetto da dolori profondi, l’iniezione di una semplice soluzione salina da una siringa ripetutamente utilizzata per iniettare la morfina finisce per produrre effetti analgesici bloccati dal naloxone , cioè, da un farmaco che blocca specificamente gli effetti della morfina.
Con un procedimento analogo, la stessa iniezione di salina associata ripetutamente ad un farmaco antiparkinsoniano, non solo è capace di produrre un effetto antiparkinsoniano ma questo effetto è associato ad una liberazione di dopamina nelle stesse aree dove  agisce il farmaco antiparkinsoniano.
La specificità dell’effetto del placebo è in certi casi, straordinaria. Così, il gruppo di Fabrizio Benedetti , fisiologo di Torino, ha mostrato che il placebo è in grado di produrre una riduzione della rigidità parkinsoniana cui si correla con straordinaria precisione temporale e quantitativa l’inibizione dell’attività di scarica (firing) nei neuroni del nucleo subtalamico, un effetto analogo a quello della stimolazione ad alta frequenza (DBS, deep brain stimulation) utilizzata per il trattamento del Parkinson avanzato.

Omeopatia ed effetto placebo

Bisogna chiarire che, per il momento, l’idea che l’effetto dell’omeopatia sia il risultato di un ‘effetto placebo’ è un’ipotesi di lavoro. Tuttavia, se si assume la buona fede dell’omeopata, questa è l’ipotesi più realistica.  Così, Shang e coll in uno studio del 2005 pubblicato su Lancet, concludono che  il rimedio omeopatico non ha effetti diversi dal placebo e che il meccanismo d’azione più probabile dell’omeopatia è l’effetto placebo.
Per questo motivo, al fine di valutare l’efficacia dell’omeopatia, non serve  valutare l’efficacia del rimedio rispetto al placebo, ambedue somministrati da un omeopata. Bisognerebbe piuttosto paragonare l’effetto del rimedio omeopatico somministrato da un omeopata a quello dello stesso rimedio, somministrato da un medico tradizionale. Quanti di noi sarebbero disposti a scommettere sul risultato di questo tipo di esperimento se fosse Garattini nei panni del medico tradizionale e Boiron in quelli dell’omeopata?
Naturalmente, non necessariamente gli effetti dell’omeopatia hanno, in pratica, la stessa specificità di quelli ottenuti in laboratorio. Gli effetti dell’omeopatia  possono esprimersi in un semplice ‘mi sento meglio’ che può significare riduzione dell’ansia anticipatoria, aumento del tono dell’umore, riduzione della percezione soggettiva del dolore, senso di minore astenia, maggiore capacità di attenzione, tutti sintomi che potremmo indicare come ‘non specifici’ ma sufficienti per il paziente a decretare il successo della terapia.

Aspetti medici ed etici dell’omeopatia

A questo punto si pone il problema se questa ‘efficacia’ dell’omeopatia, sufficiente a spiegare la sua diffusione, sia sufficiente dal punto di vista medico. La risposta a questa domanda è sicuramente negativa, per due ragioni principali. La prima, di natura scientifica, è che l’effetto dell’omeopatia è necessariamente transitorio, dato che, come tutte le risposte basate su un’aspettativa o su un condizionamento, hanno bisogno di essere rinforzate da un effetto diretto di un farmaco o di un intervento terapeutico fisico.  In mancanza di questo rinforzo, e questo è il caso dell’omeopatia, l’effetto placebo e quindi l’efficacia dell’omeopatia si estingue. Nel caso dei farmaci veri e propri, che hanno proprietà intrinseche, l’effetto placebo viene continuamente rinforzato dall’effetto farmacologico. Questo vale , anche se in misura minore, per la fitoterapia.

La seconda ragione è di natura etica, dato che un principio della professione medica è che il medico debba fornire al paziente la migliore terapia tra quelle che rientrano nella sua conoscenza e disponbilità. E’ evidente che un medico che ha compiuto normali studi di medicina, non può pensare che l’omeopatia sia la migliore cura possibile. In certi casi, infatti,  vi è il rischio che  l’uso dell’omeopatia impedisca l’uso di farmaci  capaci di agire direttamente e incisivamente sul processo morboso. In questo caso si potrebbe anche configurare un reato penale.
Ci possono essere casi, tuttavia, nei quali il medico potrebbe prendere in considerazione l’opportunità di utilizzare un placebo, ritenendo la condizione del paziente di natura esclusivamente psicologica. Questo problema è stato affrontato recentemente da Edzard Ernst, che insegna Complementary  Medicine all’Università di Exeter, UK in una lettera  a Trends in Pharmacological Sciences da titolo significativo: "Homeopathy: a helpful placebo or an unethical intervention?".Se è vero, come molti esperti ritengono, che il preparato omeopatico non è altro che un placebo, che male , c’è, si chiede Ernst, a prescrivere il rimedio omeopatico se questo aiuta il paziente?
Secondo Ernst questo comportamento è professionalmente non-etico, dato che per essere efficace deve generare un’aspettativa nel paziente e questa può aver luogo solo falsificando agli occhi del paziente le proprietà del rimedio.

Conclusione

In conclusione, le neuroscienze e la psicobiologia forniscono una convincente spiegazione della capacità dell’omeopatia di produrre effetti che il paziente può recepire come benefici e trarne sollievo. Questo giustifica la diffusione ed il successo di questa pratica. Tuttavia, l’uso dell’omeopatia  a scopo terapeutico non è giustificato né da un punto medico, dato che la sua efficacia è dimostrabilmente inferirore e transitoria rispetto alle terapie tradizionali, nè da un punto di vista etico , dato che la sua applicazione comporta la falsificazione delle informazioni che il medico è tenuto a trasmettere al paziente al fine di ottenerne il consenso alla terapia. Alla fine, come scrive Ernst, che motivo c’è di fornire un placebo privo di proprietà intrinseche, come il rimedio omeopatico, se possiamo trasmettere, attraverso la  parola ed il  nostro carisma, le stesse proprietà del rimedio omeopatico a un farmaco, con tutti i  vantaggi che l’uso di questi comporta?

Placebo e omeopatia

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Per placebo (letteralmente dal latino “piacerò”) si intende una qualsiasi sostanza innocua o un qualsiasi intervento non farmacologico privi di efficacia terapeutica. Proprio per questa sua prerogativa il placebo è deliberatamente somministrato alla persona che acconsente di assumerlo come alternativa a un trattamento attivo di cui si voglia sperimentare l’efficacia o la sicurezza.

Il placebo

Per placebo (letteralmente dal latino “piacerò”) si intende una qualsiasi sostanza innocua o un qualsiasi intervento non farmacologico privi di efficacia terapeutica. Proprio per questa sua prerogativa il placebo è deliberatamente somministrato alla persona che acconsente di assumerlo come alternativa a un trattamento attivo di cui si voglia sperimentare l’efficacia o la sicurezza. L’uso del placebo quindi è legittimo solo a scopo sperimentale e solo in presenza del consenso informato del paziente; e, secondo la Dichiarazione di Helsinki, solo se non vi siano trattamenti di provata efficacia per la situazione clinica soggetta a sperimentazione.

La collaborazione cosciente del paziente è perciò richiesta nelle situazioni in cui la medicina, dichiarando la propria difficoltà di giudizio, deve procedere attraverso la sperimentazione. Somministrare un nuovo farmaco potenzialmente efficace al di fuori di un contesto sperimentale significherebbe esporre il paziente al rischio di una sua tossicità sconosciuta; negarglielo a priori significherebbe privarlo della possibilità di goderne il possibile effetto benefico. L’unica soluzione eticamente e scientificamente valida è la sperimentazione: il caso (la randomizzazione) distribuirà trattamento potenzialmente efficace o placebo a una popolazione di pazienti e il confronto dell’esito clinico nei due gruppi di trattamento consentirà di concludere se il farmaco sperimentale è superiore al placebo. La somministrazione del placebo, in una formulazione del tutto uguale a quella del farmaco sperimentale, consente di mantenere la cecità dello sperimentatore e/o del paziente rispetto al trattamento; a sua volta la cecità, ovvero l’ignoranza dello sperimentatore e/o del paziente rispetto al trattamento assegnato dal caso, evita che condizionamenti volontari o involontari possano influenzare l’esito della sperimentazione, a favore o a sfavore del trattamento sperimentale.

Il prodotto omeopatico

L’omeopatia (dal greco “legge dei simili”) duecento anni fa riesumò il concetto adottato dagli antichi Romani secondo cui 'Similia similibus curentur', cioè letteralmente “i simili si curano con i simili”. L’omeopatia in effetti presume di trattare i pazienti che hanno determinati sintomi con dosi infinitesime di una sostanza che a dosi maggiori provoca gli stessi sintomi in soggetti sani.

I prodotti omeopatici sono il risultato di progressive diluizioni di una sostanza di origine minerale, vegetale,  animale o di sintesi. Ad esempio secondo la farmacopea omeopatica francese queste sostanze devono essere sottoposte a 30 diluzioni successive di 1 a 99. In tal modo, secondo la costante di Avogadro (6.022 . 1023 1/mol), i prodotti omeopatici finiscono per non contenere altro che il solvente, senza neppure una molecola della sostanza presente nella soluzione originale. Tant’è vero che si potrebbero cambiare tutte le etichette dei prodotti omeopatici esposti sugli scaffali di una farmacia e nessuno se ne accorgerebbe, né i medici che li prescrivono, né tanto meno i pazienti che non possono misurare la mancanza di prodotti attivi con buona pace della “memoria dell’acqua”.

A differenza del placebo, l’uso del prodotto omeopatico avviene al di fuori di un contesto sperimentale ed è promosso come potenzialmente curativo agli occhi del paziente. Mentre nella sperimentazione l’inutilità terapeutica del placebo è dichiarata e il suo uso è giustificato al paziente come strumento per evitare di  attribuire erroneamente al farmaco in studio effetti che non gli sono propri, il prodotto omeopatico è deliberatamente somministrato alla persona facendole credere che esso sia un trattamento utile o addirittura necessario.

Contrariamente all’uso del placebo, quindi, l’impiego del prodotto omeopatico è contrario alla deontologia medica, perché si regge sulla mistificazione di un effetto non dimostrato e sul tradimento intellettuale del paziente

Può il prodotto omeopatico essere utilizzato per un suo eventuale effetto placebo?

Si sostiene che i prodotti omeopatici, somministrati in un contesto capace di indurre un'aspettativa terapeutica (il rapporto omeopata-paziente), producano effetti che il paziente/cliente sperimenta direttamente. Se il prodotto omeopatico non ha un effetto terapeutico, può l’asserito “effetto che il paziente/cliente sperimenta direttamente” riflettere almeno un effetto placebo, tale da giustificarne l’uso?

L’effetto placebo è ben documentato, se ne conosce in parte il meccanismo, è molto modesto, di breve durata; si annulla con l’aumentare della numerosità dei pazienti nel trial e quando si considerino misure di outcome oggettive anziché parametri soggettivi. L’effetto placebo è stato particolarmente studiato nel dolore, principalmente in volontari; spesso statisticamente significativo, è comunque clinicamente poco rilevante, soprattutto quando il dolore è intenso. In situazioni diverse dal dolore è difficile distinguere l’effetto placebo da ciò che in ogni caso avviene spontaneamente in un gruppo di soggetti che non ricevono alcun trattamento (Hrobjartsson and Gøtsche, NEJM 2001, 344, 1594). Mancano inoltre ricerche che stabiliscano quale sarebbe l’effetto del placebo se il paziente sapesse che il prodotto somministrato non contiene alcun principio attivo.

L’uso del placebo al di là dell’impiego in ricerca è comunque in contrasto con l’attuale etica che esige una completa informazione del paziente su ciò che gli viene somministrato. Inoltre, se fosse disponibile un farmaco efficace, la somministrazione del placebo all’insaputa del paziente rappresenterebbe una truffa o comunque un atto deontologicamente condannabile. Non sarebbe certo ammissibile l’uso di prodotti omeopatici per il controllo del dolore quando esistono diverse classi di farmaci per i diversi stadi di gravità, fino alla morfina.

Gli oltre 30.000 prodotti omeopatici trovano spesso mercato per problemi minori di salute o in associazione con i prodotti della medicina “ufficiale”, in situazioni insomma che facilitano affermazioni basate sull’impressione anziché sull’evidenza. Il trattamento omeopatico per fortuna è raramente utilizzato nel trattamento dei tumori, dell’infarto, del diabete e altre gravi condizioni patologiche, proprio a dimostrazione della sua inefficacia.

L’omeopatia è un rischio per la salute pubblica

L’affermazione secondo cui i prodotti omeopatici, somministrati in un contesto capace di indurre un'aspettativa terapeutica producono effetti che il paziente sperimenta direttamente  muove controcorrente rispetto a un processo di razionalizzazione che a fatica ha promosso una medicina basata sull’evidenza scientifica, svuotando di significato le esperienze soggettive, le impressioni personali, le convinzioni arbitrarie che servivano a caratterizzare le scuole di pensiero (e di medicina). Per non parlare della suggestione, dell’emotività su cui si regge tale affermazione: sarebbe come se nella gestione di un’azienda o di un patrimonio ci si affidasse all’oroscopo o ai tarocchi anziché al parere di esperti.

Soprattutto se suggerita dagli addetti ai lavori - scienziati, medici, operatori e gestori della sanità - questa visione può rappresentare un grave rischio per la salute pubblica: infatti, legittimando l’uso del prodotto omeopatico, quella visione rischia di generare disinteresse e sfiducia nella medicina basata sull’evidenza e scoraggiarne l’accesso da parte di medici e pazienti. Enfatizzare il ruolo dell’omeopatia disincentiva anche la ricerca e lo sviluppo di rimedi davvero efficaci. Il mercato del farmaco è indubbiamente remunerativo, ma richiede ingenti investimenti intellettuali e finanziari che raramente portano a un prodotto degno di essere sviluppato fino alla fase clinica e capace di cogliere l’approvazione delle autorità regolatorie. Il mercato dell’omeopatia non necessita di tutto questo: consente lauti guadagni senza esporre a rischi e senza richiedere innovazione tecnologica. L’industria abbandonerebbe volentieri la ricerca di farmaci innovativi, se il mercato si accontentasse di prodotti omeopatici.

In conclusione,

  • il placebo ha un ruolo negli studi clinici controllati ma non è utilizzabile come terapia, neppure a scopo compassionevole, perché tale effetto richiede la non consapevolezza del paziente circa il trattamento cui è sottoposto; l’etica deontologica e la legge richiedono invece perfetta una completa informazione del paziente, oltre che il suo consenso;
  • invocare l’effetto placebo di prodotti omeopatici è incongruo: l’uso del prodotto omeopatico non è giustificato da adeguate sperimentazioni cliniche, si basa sull’inganno perché non informa il paziente sul suo contenuto, dichiara scopi terapeutici che la legge non consente di indicare (Directive 2001/83/EC);
  • oltre che non etica la difesa di un falso ruolo dell’omeopatia - come capace di proprietà terapeutiche per sé o attraverso un presunto effetto placebo - rappresenta un rischio per la salute pubblica, perché allontana i pazienti da trattamenti efficaci e disincentiva la ricerca e lo sviluppo di farmaci innovativi.

Tre punti del dibattito Boiron – Garattini

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Come fa ad agire qualcosa che non esiste?

Vediamo: è cominciato tutto in Germania, alla fine del '700, là, allora, girava una storiella “muoiono più persone di cure che di malattia” ed era vero. Così Samuel Hahnemann si era fatto l'idea che una sostanza che produce certi sintomi può essere usata per malattie che danno gli stessi sintomi (similia similibus curentur) in piccolissime quantità. E allora il principio attivo veniva diluito un numero enorme di volte. E’ come mettere una goccia di rimedio omeopatico in un contenitore di acqua grande 50 volte più della terra: la possibilità di trovare una molecola del principio originale è pressoché nulla. E lo sanno anche i sostenitori dell'omeopatia. Ma c'è lo scuotimento che trasferisce le proprietà della sostanza al solvente. Persino “Nature” uno dei grandi giornali di scienza, nell'88, ha pubblicato un lavoro sulla memoria dell'acqua. Era di ricercatori francesi ma s'è visto molto presto che era un imbroglio. I revisori di Nature ne furono  affascinati, l’editor John Maddox no. “La memoria dell’acqua, troppo bello per essere vero” pensa Sir John. Ma non vuole perdere l’occasione di essere al centro del dibattito che quegli esperimenti avrebbero generato. Sullo stesso numero di Nature esce un editoriale non firmato “L’articolo di questa settimana dimostra che è possibile diluire una soluzione acquosa che contiene un anticorpo indefinitamente, senza che la soluzione perda le proprietà biologiche di quell’anticorpo. Tengano presente i lettori che questa osservazione non ha nessun riscontro nelle leggi della fisica. Certamente nessuno dovrà usare i dati di questo lavoro per “malign purposes”, a scopi maligni. Quelli che credono nell’omeopatia potrebbero essere portati a usare questi dati a supporto delle loro tesi. Non sarebbe giustificato e sarebbe probabilmente uno sbaglio”.

Dedicare tempo agli ammalati ed effetto placebo

L'omeopatia non “cura”, ma quelli che praticano l'omeopatia dedicano tempo agli ammalati, li sanno ascoltare, più di quanto non facciano tanti medici. Questo sì che è “medicina”. Ma all’Università non si insegna a parlare con gli ammalati, a coinvolgerli, ad allearsi con loro per combattere il loro male. Certi medici lo fanno, naturalmente. Se lo facessero tutti, e se avessimo in Italia una classe medica credibile e determinata, spazio per  dottori “alternativi” non ce ne sarebbe più.

Anche l'idea di prendere qualcosa che ti potrebbe guarire (effetto placebo) certe volte ti fa star meglio. C’è una ragione  scientifica per l’effetto placebo? Certo ha solide basi di fisiologia ed è supportata da tanti studi clinici. Però somministrare a un malato  qualcosa che non contiene nulla con la scusa che forse  beneficerà dell’effetto placebo, rompe il rapporto  di fiducia che dovrebbe stabilirsi  fra l’ammalato e il suo medico. Non si può fare.  Chi lo fa viola una delle regole  su cui si fonda la medicina: un rapporto aperto, consapevole e di fiducia  fra l’ammalato e il suo medico.

Effetto transitorio e di rinforzo

Chi cura gli ammalati con prodotti omeopatici dice che ci sono molti studi che ne dimostrerebbero l’efficacia. Per lo meno per certi mali da poco,  forse per brevi periodi, e mai  se uno è davvero malato o comunque insieme alle cure vere. Hanno ragione? Studi ce ne sono, è vero ma nessuno di questi ha mai fornito prove sufficienti a raccomandare l’omeopatia per alcun tipo di disturbo (è la conclusione della rivista Effective Health Care che esamina l’efficacia degli interventi medici). “Ma se milioni di italiani ricorrono alle medicine alternative  un motivo ci sarà”.  Qui bisogna intendersi. Milioni di persone che curano il diabete o lo scompenso  di cuore con la pranoterapia  o l’ayurvedica o milioni di persone che quando hanno  il mal di schiena o l’influenza usano l’omeopatia? “Ma se la medicina non può fare nulla, perché non dare all’ammalato la possibilità di curarsi in un altro modo come garantisce la Costituzione?”. Anche qui  bisogna intendersi. La Costituzione garantisce il diritto alla salute, non alla cura.  E poi, che cos’è una “cura”? Qualcosa  che guarisce o quanto meno che migliora la qualità di vita, ed è logico che lo si dovrebbe poter dimostrare. Però, per le medicine alternative  non ci sono dati di laboratorio che suggeriscano un meccanismo d’azione plausibile, né dati sull’animale che indichino che funziona e nemmeno studi  sui volontari che dimostrino che non fa male. Se fossero farmaci, senza queste evidenze,  non si potrebbe nemmeno cominciare a studiarli negli ammalati. Perché queste regole  non devono valere anche per le medicine alternative? “Ma almeno non fanno male”, si dice. Per l’omeopatia è vero, la sostanza da cui si parte  è diluita  così tanto che il prodotto finale non contiene nulla. Ma di omeopatia chi è davvero malato può anche  morire se incontra qualcuno che lo convince ad abbandonare le sue cure.  E’ successo tante volte, in tante parti del mondo, non dovrebbe succedere mai più.

Perché l'omeopatia riscuote consenso

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È proprio vero che la storia si ripete. Frugando tra le mie carte ho ritrovato un vecchio articolo che avevo pubblicato nel lontano 1989, che sfortunatamente è ancora attuale. 

Da quasi un anno esiste un progetto di legge alla Camera presentato dalla sinistra, che propone di rendere rimborsabili dal servizio sanitario nazionale le spese mediche sostenute per le medicine alternative, agopuntura e omeopatia in particolare.

Io sono un convinto sostenitore dell'assoluta necessità di arricchire la medicina moderna con tutto l'enorme bagaglio di conoscenze accumulato nei secoli dalle medicine popolari nei vari paesi del mondo; lo scarso interesse suscitato in Italia dalla medicina cinese è anche segno di un'insensibilità della classe medica verso culture diverse dalla nostra. Mi pare di fare un grave torto alla medicina cinese, così ricca di tradizione, nel metterla sullo stesso piano dell'omeopatia, disciplina nata quasi a tavolino meno di due secoli fa, tanto più che l'omeopatia non ha né una base teorica soddisfacente (il che sarebbe il meno), né una solida base sperimentale.

Astrattamente parlando, in alcuni casi il principio che "le piccole dosi hanno un'effetto diverso e a volte di segno diverso dalle grandi dosi" è del tutto corretto ed è accettato ed usato in medicina, per esempio nelle vaccinazioni contro le allergie. Il guaio è che, quando questo principio è utilizzato dai medici omeopatici, le dosi sono veramente piccole: le diluizioni del principio curante (facciamo per concretezza l'esempio della caffeina) sono talmente elevate che nella preparazione finale non resta nemmeno una molecola di caffeina. Per rendere l'idea del tipo di diluizione usata in omeopatia possiamo fare un esempio paradossale: se prendiamo una goccia del preparato puro, la mettiamo nell'oceano Pacifico, agitiamo il tutto, riprendiamo una goccia dal Pacifico e la rimettiamo nell'oceano Atlantico, rimescoliamo il tutto, abbiamo un ottimo preparato omeopatico; se poi vogliamo qualcosa di ancora più efficace possiamo prendere una goccia dall'Atlantico, versarla nell'Indiano e di nuovo mescolare il tutto.

Ovviamente nei laboratori non si procede in questo modo: si fanno delle diluizioni successive di un fattore dieci o cento alla volta, ma il risultato è sempre lo stesso: il preparato finale non è distinguibile dall'acqua distillata mediante nessuna analisi di tipo chimico, fisico e biologico. Se ciò non fosse, dovremmo ben stupircene, in quanto non si tratta altro che di acqua distillata. Infatti gli esperimenti pubblicizzati l'anno scorso dai giornali del dottor Benveniste sulla memoria dell'acqua (che sembravano dare una conferma sperimentale dei principi dell'omeopatia) sono stati rifatti da vari laboratori che hanno dimostrato l'assenza della memoria dell'acqua.

Non bisogna nemmeno stupirsi del fatto che molte persone abbiano ricevuto benefici da cure omeopatiche: l'acqua distillata, se presa in modiche dosi, non ha effetti collaterali e la convinzione di prendere qualcosa di utile fa spesso passare da sola la malattia: si tratta del ben noto effetto placebo. La proposta di far rimborsare dal servizio sanitario le medicine omeopatiche è difficilmente sostenibile anche perché essendo tutti preparati solamente acqua distillata, non è possibile verificare le sofisticazioni. D'altro canto il principio "ognuno ha il diritto di curarsi come vuole", se accettato, porterebbe a finanziare i viaggi a Lourdes, che sono probabilmente ancora più efficaci dell'omeopatia.

La domanda veramente interessante è perché l'omeopatia riscuote tutto questo successo, specialmente nella sinistra? Questo successo non è affatto trascurabile dal punto di vista commerciale; un quarto delle vendite in Francia di prodotti medicinali sono di tipo omeopatico. I motivi sono probabilmente legati al modo di presentarsi che la scienza ufficiale assume: molte certezze, quasi mai dubbi o riflessioni critiche o aperture verso i saperi e le culture diverse: i successi vengono magnificati e gli errori non vengono quasi mai riconosciuti. Questo atteggiamento in fondo antiscientifico, che non può che alienare le simpatie del grosso pubblico. La diffusione dell'omeopatia è un campanello d'allarme ed è probabilmente un indice del fallimento dei programmi di educazione e divulgazione scientifica.