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Superamniocentesi: è davvero tempo di una rivoluzione?

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Si è parlato di "importante novità", di "svolta", addirittura di "rivoluzione" nella diagnosi prenatale all'annuncio, nelle scorse settimane, di una nuova tecnica di analisi del DNA fetale, soprannominata superamniocentesi (o supervillocentesi). A presentarla, in Italia, è stato il gruppo di Claudio Giorlandino, direttore dei centri clinico-diagnostici Altamedica di Roma e Milano, tra i principali centri privati di diagnosi prenatale. Si tratta dell'applicazione del Next Generation Sequencing, una tecnica avanzatissima di sequenziamento rapido del DNA, al materiale genetico del feto, con l'obiettivo di cercare in utero eventuali anomalie genetiche responsabili di malattia.
Per la precisione, l'esame proposto - al costo di 1500 euro - indaga circa 300 geni, coinvolti in un centinaio di malattie.

Rispetto all'amniocentesi e villocentesi tradizionali, che permettevano di individuare solo difetti macroscopici dei cromosomi (come la trisomia 21) o mutazioni di singoli geni selezionati, ma anche rispetto a strategie più innovative, come l'array CGH, che scopre piccoli riarrangiamenti cromosomici, ora si allarga lo spettro di anomalie genetiche individuabili molto precocemente. Sulla carta sembra un'ottima opportunità, sia per quei futuri genitori che desiderano sapere il più possibile del loro bambino, sia per gli operatori sanitari, che potrebbero tutelarsi meglio dal rischio di cause legali in seguito alla scoperta, dopo la nascita, di malattie non diagnosticate in utero. Non è detto, però, che lo sia davvero, almeno nelle condizioni proposte. Tanto che per ora la Sigu, Società italiana di genetica umana, sconsiglia l'uso del Next Gen, come lo chiamano i ricercatori, per uno screening prenatale a tappeto. Vediamo meglio.

Intanto, di cosa parliamo esattamente? «Il Next Generation Sequencing è una tecnica di indagine genetica di recente introduzione che permette di ottenere rapidamente la sequenza di tutti i geni codificanti di un individuo (l'esoma, circa 19 000 geni), grazie a tecnologie di frontiera e a software potentissimi» spiega Faustina Lalatta, responsabile dell’Unità operativa di genetica medica del Policlinico di Milano. Il NextGen è molto utile quando ci si trova di fronte a pazienti - adulti, ma anche neonati o piccoli nella vita prenatale - con sintomi e condizioni, in genere rari, dei quali non si conosce la causa. Se davvero si brancola nel buio, si può procedere a un sequenziamento completo dell'esoma: questo potrebbe far emergere nuove varianti in geni potenzialmente coinvolti nella malattia. È esattamente quello che hanno fatto ricercatori del Wellcome Trust Genome Center, testando la tecnica in un gruppo di 30 feti e neonati con anomalie strutturali non ben caratterizzate. Nel 10% dei casi sono stati identificati difetti genetici che molto probabilmente sono le cause delle anomalie: una resa diagnostica superiore a quella che si può ottenere con altre tecniche.  

Oltre che per sequenziare esomi interi, il NextGen può essere impiegato anche per analizzare gruppi compatti di geni di interesse: per esempio, esistono singole piattaforme tecnologiche che analizzano i geni coinvolti nella sordità, oppure nella distrofia muscolare, nel ritardo mentale, nelle malattie del cuore. «Un caso tipico è quello di feti o neonati con malformazioni cardiache non isolate» racconta Lalatta. «Invece che procedere per step, facendo prima il cariotipo e poi, in assenza di alterazioni, analizzando uno alla volta singoli geni, ora si possono studiare contemporaneamente tutti i possibili colpevoli, che sono più di 200». Questo permette di bruciare i tempi della diagnosi, dando vantaggi concreti al neonatologo, che può intervenire prima e nel modo migliore. Altri esempi di applicazione riguardano la diagnosi di malattie o condizioni complesse dal punto di vista genetico, come la morte improvvisa o il cancro della mammella, nelle quali possono essere coinvolte varie decine di geni, con centinaia di mutazioni diverse. «In clinica, dunque, si parte sempre da un problema noto, del quale cercare la soluzione in un ambito confinato» sottolinea Giuseppe Novelli, ordinario di genetica medica all'Università di Roma Tor Vergata. «Non ha senso, invece - se non in ambito di ricerca - andare alla cieca a caccia di mutazioni».

Il che, però, è esattamente quello che accade utilizzando il NextGen come strumento di screening prenatale, cioè per bambini potenzialmente sani, con l'obiettivo - sostengono i centri, tutti privati, che lo propongono - di verificare come stanno le cose per l'80% circa delle malattie genetiche. Ed ecco allora che fioccano le critiche. Per prima cosa, sottolinea la Sigu , la piattaforma utilizzata per l'analisi si concentra su 300 geni, che coprono molte malattie e in particolare quelle con una frequenza superiore a un caso ogni 20 000, ma non l'80% del totale. Aggiunge Lalatta: «Sono presi in considerazione geni sicuramente associati in modo diretto, quando alterati, a una grave malattia, ma anche geni per i quali questa associazione è più sfumata e variabile da persona a persona». Significa che, anche in presenza di una mutazione, non è ben chiaro quali potrebbero essere le sue conseguenze a livello clinico: magari gravi, magari meno gravi e perfettamente compatibili con una vita normale. «Senza contare che si potrebbero trovare anomalie delle quali non si sa proprio nulla» sottolinea Novelli. «Si parla di incidental findings, ritrovamenti casuali: varianti genetiche di difficile interpretazione. Basti pensare che ciascuno di noi nasce con 70-80 mutazioni nuove, che non c'erano nei suoi genitori e che di sicuro non possono essere presenti nella piattaforma utilizzata». Che fare, se in uno dei geni analizzati ci si ritrova con una mutazione mai descritta prima?. Il risultato è che la donna in attesa potrebbe ritrovarsi con una diagnosi dubbia da approfondire. Succede nel 6-8% dei casi, che vengono in genere reindirizzati verso le strutture pubbliche. «Le uniche con competenze adeguate a cercare di far luce sul problema» commenta Novelli. «Questo, però, significa che pur di fare cassetta, si finisce con il pesare sui conti pubblici». E oltre ai costi collettivi ci sono quelli personali, salatissimi. «Se non ci sono risposte certe, la donna si trova di fronte a una decisione difficilissima da prendere» afferma Lalatta: «Continuare la gravidanza, accettando il rischio che il bambino sia malato, oppure interromperla, accettando quello di sacrificare un bambino potenzialmente sano?».

Altre perplessità riguardano il tema della falsa rassicurazione. Anche un esito negativo del test, che apparentemente dice che tutto va bene, infatti, non esclude la possibilità di malattia. Da un lato, c'è il fatto che alcune anomalie genetiche possono comunque sfuggire al setaccio dell'analisi, dall'altro il fatto che, per alcune condizioni, non vengono analizzati tutti i geni potenzialmente coinvolti. «Nella sordità congenita sono implicati più di 40 geni: se ne guardo solo 3 o 4, per quanto siano quelli alterati più di frequente, non posso escludere del tutto che il bimbo sia sordo» spiega Lalatta. Idem per la fibrosi cistica: si conoscono oltre 1800 mutazioni del gene responsabile, ma si guardano solo le più frequenti. «Tra l'altro, senza tener conto di eventuali variazioni etniche della frequenza» aggiunge Novelli. «In una donna armena potebbe aver senso cercare alcune mutazioni, diverse da quelle da indagare nel caso di una donna sarda. Ma la piattaforma è unica e universale, non tiene conto di queste differenze». In ogni caso, per come viene presentata la nuova tecnologia del NextGen, è facile che nelle donne si crei la convinzione di una rassicurazione totale. E ritrovarsi alla fine della gravidanza con un bimbo malato che non si era assolutamente messo in conto può rendere molto più difficile la sua accettazione.

Per tutte queste ragioni è assolutamente fondamentale che la proposta del test sia accompagnata da una consulenza genetica molto accurata, in grado di presentarne in dettaglio non solo le possibilità ma anche i limiti. Anche perché, se è vero che negli ultimi anni si è registrato una certa tendenza all'aumento delle richieste di rassicurazione da parte dei genitori, è anche vero che non sempre le donne scelgono di sottoporsi a certe indagini, quando accuratamente informate su luci e ombre delle stesse. Anzi, un recente studio americano afferma proprio il contrario.

Che fare, allora, di fronte a una novità di questo tipo? Di sicuro, va osservata con attenzione, perché le potenzialità effettivamente sono enormi. L'applicazione come screening in ambito prenatale, però, potrebbe essere prematura e al momento non sembra essere sostenuta da logiche sufficientemente solide. Del resto, in un'ottica di sanità pubblica - l'unica che potrebbe portare a una vera rivoluzione, perché un esame così costoso rimane al momento un fenomeno di nicchia - va valutato attentamente anche il rapporto costi-benefici. Non è detto che la cosa che costi di più sia necessariamente la migliore, e lo mostra proprio il caso di alcuni dei geni inseriti nella piattaforma prenatale di Next Generation Sequencing. Geni per malattie, come la fenilchetonuria e l'ipotiroidismo congenito, che possono essere affrontate con semplici soluzioni farmacologiche o dietetiche e che possono essere diagnosticate alla nascita con un semplice esame del sangue nell'ambito del cosiddetto screening metabolico. Molto più economico e non invasivo. Si chiede Lalatta: «Siamo sicuri che sia necessario cercarle in utero?».

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