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Il primo superbug? Non da Nuova Delhi, ma dal North Carolina

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Il primo caso di diffusione di enterobatteri multiresistenti NDM-1 (New Delhi Metallo-β-lactamase tipo1) descritto nel nostro Paese ha riportato l’attenzione sui cosiddetti “superbatteri indiani”. Ma sarebbe un errore pensare che il batterio proveniente da Oriente sia l’unico o il più importante.

Da oltre vent’anni  si osserva, ovunque nel mondo, una sempre maggior diffusione di batteri resistenti a diverse classi di antibiotici, per le ragioni ben note ai lettori di Scienzainrete. Questo è dovuto a diversi fattori, primo tra tutti un errato ed eccessivo utilizzo degli antibiotici. Nello stesso ventennio i massimi sforzi dell’industria farmaceutica sono stati indirizzati verso la sintesi di  antibiotici attivi contro i batteri Gram-positivi poiché responsabili di patologie più gravi e diffuse rispetto a quelle causate dall’altro grande gruppo di batteri, i gram-negativi.  E così ci troviamo ora ad avere a che fare con infezioni causate da batteri gram-negativi molto resistenti e abbiamo pochi mezzi per debellarli.

Tra i batteri multi-resistenti più diffusi vi sono quelli che appartengono alla famiglia delle Entero-batteriacee, batteri Gram-negativi che possono causare una semplice colonizzazione senza dare malattia, ma che possono anche essere la causa di una ampia varietà di infezioni che includono polmonite, sepsi, infezioni delle ferite e dell’apparato urinario. La multi resistenza di questi batteri agli antibiotici è in gran parte dovuta alla produzione di beta-lattamasi a largo spettro (ESBL), cioè enzimi che tagliano l’anello beta-lattamico presente in molti antibiotici come penicilline, cefalosporine, e così via, rendendoli inattivi. Di questi enzimi ne sono stati caratterizzati oltre 150 diversi tipi. Il panorama è, quindi, complesso.

L’informazione genetica che permette a questi batteri di produrre le beta lattamasi a largo spettro è portata da plasmidi (elementi genetici extracromosomici) e non viene solo trasmessa verticalmente quando il batterio cresce e si divide in due cellule figlie, ma anche orizzontalmente, tra batteri della stessa specie o di specie vicine tassonomicamente, attraverso un meccanismo definito di “coniugazione batterica” in cui i batteri si scambiano materiale genetico attraverso dei ponti di collegamento.  E’ questo il meccanismo principale di diffusione delle resistenze causate dalle ESBL.

Fino a pochi anni or sono, però, i batteri Gram-negativi produttori di ESBL rimanevano sensibili agli antibiotici della classe dei carbapenemi come imipenem e meropenem.

Questo almeno a quando, alla fine degli anni novanta, nel North Carolina (USA) è stato descritto in Klebsiella pneumoniae un nuovo tipo di resistenza dovuto alla presenza di un enzima chiamato carbapenemasi KPC (Klebsiella pneumoniae carbapenemase).  Da allora in poi sono state descritte molteplici varianti dell’enzima, raggruppate in diversi gruppi a seconda della loro attività.  Le carbapenemasi KPC di classe A sono enzimi in grado di inattivare non solo le penicilline, le cefalosporine e l’aztreonam, ma anche i carbapenemi. E’ importante sottolineare come enterobatteri (Klebsielle ed E.Coli) che hanno multi-resistenze causate da questi enzimi si siano diffusi velocemente nel corso degli ultimi anni e di come nel 2010 l’ Italia, secondo i dati diffusi da poco dall’European Center for Disease Control, sia, dopo la Grecia, il paese Europeo con la maggiore incidenza.

Questo fenomeno sta creando non pochi problemi terapeutici, in quanto gli unici antibiotici efficaci in questi casi sono la colistina e la tigeciclina, molecole che dal punto di vista  clinico presentano dei limiti. Infatti la colistina diffonde con gran difficoltà nei tessuti e la tigeciclina non è battericida, ma solo batteriostatica. Recenti dati indicherebbero una certa sensibilità di questi batteri nei  confronti della fosfomicina, un antibiotico utilizzato per le infezioni delle vie urinarie.

A complicare ulteriormente il quadro arrivò la comparsa, nel 2009, di una nuova carbapenemasi in un ceppo di Klebsiella pneumoniae isolata da un paziente svedese di ritorno dall’India.  A distanza di poco tempo ceppi di klebsielle ed Escherichia coli con lo stesso tipo di multi-resistenza vennero isolate da pazienti che avevano soggiornato in ospedali indiani e pakistani per trattamenti medici ed estetici e si constatò come, in realtà, fossero già largamente diffusi in tutto il subcontinente indiano (in alcuni casi furono isolati anche dall’acqua dell’acquedotto!). Questi ceppi hanno ormai  raggiunto gli USA, Canada, Australia, Europa e sono quelli che i media chiamano “superbatteri indiani”.  Si tratta, quindi, di enterobatteri che producono una ESBL di classe B, denominata NDM-1 (New Delhi Metallo-β-lactamase tipo1), che inattiva gli antibiotici beta-lattamici e i carbapenemi. Diversa è la modalità di azione, ma l’effetto finale è uguale a quello causato dalle carbapenemasi KPC. Piccoli cluster di infezione sono stati trovati in vari paesi europei e i sei pazienti individuati a Bologna rappresentano il primo caso di diffusione descritto in Italia.

 E’ giusto, quindi, inquadrare la storia nel suo complesso per non avere l’idea che il batterio killer sia arrivato dall’India. I batteri indiani non sono più resistenti di altri che abbiamo in casa ormai da un paio d’ anni e che si stanno diffondendo in modo preoccupante.  Di diverso hanno, probabilmente, una ancora maggior capacità di trasferirsi orizzontalmente anche fra batteri di specie diverse. La realtà dei fatti fa ritenere che nel giro di pochi anni anche batteri con il nuovo tipo di resistenza si aggiungeranno a quelli già largamente presenti.

La speranza è che l’attenzione sollevata dai cosiddetti batteri indiani serva però ad alzare l’attenzione sul problema più generale del sempre maggior numero di batteri resistenti, della loro trasmissione all’interno delle strutture sanitarie e, auspicabilmente, delle misure per contrastare il fenomeno che devono essere messe in atto il più presto possibile.


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