fbpx Test per il cancro alla prostata: un grande errore? | Scienza in rete

Test per il cancro alla prostata: un grande errore?

Primary tabs

Tempo di lettura: 6 mins

L’aver trovato un antigene specifico per la prostata (PSA) che si può misurare nel sangue ha fatto pensare che quel test potesse identificare chi ha il cancro (anche molto prima delle manifestazioni della malattia). Così il PSA è diventato il marcatore di tumore più popolare che ci sia e certamente più precoce. Nessuno degli altri marcatori di cancro ha mai dimostrato di essere capace di diagnosticare un carcinoma in uno stadio così iniziale. “Andrebbe fatto a tutti gli uomini di una certa età per identificare i tumori il prima possibile e poterli curare”. Questa convinzione ha portato la Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti ad approvare nel 1994 l’impiego del test per la diagnosi precoce del cancro della prostata.

Da allora negli Stati Uniti si sottopongono al test, per esempio, quasi tutti gli urologi e l'80 per cento dei medici generici (dopo i 50 anni). Ogni anno effettuano questo screening 30 milioni di americani, per una spesa di 3 miliardi di dollari (solo per il dosaggio del PSA, senza tener conto degli accertamenti successivi che questo può indurre). C'è l'idea che scoprire la malattia e curarla per tempo dovrebbe aiutare a guarire. E' così infatti in molti altri casi.

Però il tumore della prostata è particolare: cresce molto lentamente e c'è il rischio di morire per altre malattie prima che questa debba realmente preoccupare. Così, dopo quindici anni precisi, alla fine di marzo del 2009, il New England Journal of Medicine pubblica due lavori, uno condotto in Europa e uno negli Stati Uniti, nei quali complessivamente sono state studiate 250 mila persone. Con un risultato sorprendente: l'esame del PSA la vita non la salva quasi mai. Non solo: scoprirlo alto, fuori dalla norma, e farsi curare comporta sofferenze e disfunzioni anche gravi, senza che si possano dimostrare benefici. Spendendo per di più un sacco di soldi. A dire il vero nello studio europeo emergerebbe una piccola riduzione della mortalità, ma nei nove anni di osservazione della ricerca sono morte così poche persone che le differenze fra chi faceva il PSA e chi non faceva nulla non sono significative, possono dipendere dal caso. In ogni caso risulta che per riuscire a salvare una vita si devono sottoporre allo screening 1.400 persone e trattarne 48. Vuol dire che si fanno dei danni a 47 persone - che possono restare impotenti o avere incontinenza urinaria - per guarirne una. Tanto per fare un confronto nel caso del cancro della mammella si devono operare 11 donne per salvarne due e gli effetti negativi delle cure sono molto meno gravi.

Dallo studio americano poi viene fuori che quelli che fanno il PSA e l'esplorazione rettale muoiono di più di quelli che non fanno alcun esame, 312 fra chi fa lo screening, 225 fra chi non fa nulla. Sorge quindi il dubbio che quelli che fanno lo screening muoiono di più per eccesso di cure (chirurgia, radioterapia, chemioterapia e ormoni). Può darsi, ma non è sicuro.

Queste affermazioni (Corriere 22 marzo 2009) hanno fatto discutere e in Italia la reazione degli urologi è stata immediata: “Le più moderne acquisizioni in campo chirurgico, radioterapico e di terapia medica permettono di ottenere elevatissime percentuali di guarigione nel totale rispetto della qualità della vita del paziente, il PSA deve essere utilizzato come screening per tagliare la mortalità da cancro della prostata: venire in ambulatorio per credere”. Hanno scritto sul Corriere del 5 aprile 2009 i professori Mirone, Montorsi e Rigatti.

Due posizioni così lontane hanno sollevato tanti dubbi fra i medici (per qualche mese quelli che incontravo mi parlavano sempre di prostata e PSA) e ancora di più nella gente. E’ passato un anno. Cosa è successo? Dopo la pubblicazione di questi due articoli anche in Europa e negli Stati Uniti c’è stata una discussione, molto simile a quella che abbiamo avuto da noi. L’associazione europea degli urologi ha cambiato la sua posizione: “I dati pubblicati – hanno scritto – indicano che lo screening del cancro della prostata attraverso il PSA non si debba fare più, perché i danni superano i benefici”. L’associazione degli urologi americani no, loro continuano a farlo e vorrebbero che lo facessero tutti. Così il 3 ottobre del 2009 il British Medical Journal pubblica un’analisi di tutti i dati disponibili, dal titolo “Screening per il cancro della prostata: la controversia continua”. Le conclusioni sono: “Siamo dell’avviso degli urologi europei, non vale la pena di fare lo screening del cancro della prostata a tutti. L’eccesso di diagnosi e l’eccesso di trattamento fa più male che bene”. E allora?

Questa domanda il New York Times l’ha fatta a Richard Ablin, che è professore di immunobiologia a Tucson in Arizona. Perché proprio a lui? Perché è quello che ha scoperto il PSA. Ablin è stato subito molto esplicito: “Il mio PSA – proprio perché è diventato così popolare – è un costosissimo disastro di salute pubblica perché molte volte non è in grado di diagnosticare il tumore della prostata e, ancora peggio, perché non può distinguere tra due tumori della prostata: quello che ti uccide in pochi mesi e che è molto raro da quello che cresce molto lentamente che non farà mai nessun danno a chi ce l’ha. Insomma, uno può avere il PSA basso e avere un cancro pericoloso e un altro avercelo alto e stare benone. Il dramma è che il 65 percento delle persone con più di 60 anni ha un cancro della prostata e nella maggior parte dei casi l’evoluzione è molto favorevole. Per essere precisi, si dice che un PSA è normale al di sotto dei 4 nanogrammi per millilitro, ma l’80 percento degli uomini che ha un PSA tra 4 e 10 ha un aumento del volume della prostata che però è benigno e il 40 percento di quelli che hanno un PSA sotto il 4 hanno un cancro. Sarebbe diverso se gli urologi ripetessero il test a chi ha fattori di rischio (chi ha casi di tumore alla prostata in famiglia, per esempio) e lo facessero regolarmente per stabilire in quanto tempo i valori si raddoppiano, ma questo in America non succede" ha detto Richard Ablin, che ha anche raccontato una storiella. Uno, un certo Joe, va dall’urologo, che vede un valore di PSA sopra il 4 e gli dice “Joe, ho una notizia brutta e una bella per te. Quella brutta è che hai un cancro, quella bella è che ti operiamo la settimana prossima, lo portiamo via e guarisci”. “E’ così perché c’è un enorme interesse economico intorno al cancro della prostata" prosegue Ablin. "Ho passato 35 anni a spiegare questo alla gente, ma non c’è stato niente da fare. Troppi interessi economici, c’è chi guadagna con lo screening, chi con le visite urologiche, chi con gli interventi chirurgici e intanto, per guarire una persona, si fanno danni ad altre 50 che possono rimanere impotenti e avere incontinenza urinaria”.

L’articolo del New York Times di Richard Ablin è stato il più letto negli ultimi mesi. E’ quello per cui il giornale ha ricevuto più lettere. “La Food and Drug Administration non avrebbe mai dovuto approvare questo test. Se smettessero con questo screening si risparmierebbero miliardi di dollari e si eviterebbero a tanti uomini gli effetti negativi di una chirurgia debilitante”. Insomma “The great prostate mistake” - il grande abbaglio della prostata, è il titolo che il New York Times ha messo al pezzo di Richard Ablin – continua a far discutere e c’è il forte sospetto che il dibattito sia alimentato non sempre e non solo da ragioni di scienza.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Intelligenza artificiale ed educazione: la ricerca di un incontro

Formazione ed educazione devono oggi fare i conti con l'IA, soprattutto con le intelligenze artificiali generative, algoritmi in grado di creare autonomamente testi, immagini e suoni, le cui implicazioni per la didattica sono immense. Ne parliamo con Paolo Bonafede, ricercatore in filosofia dell’educazione presso l’Università di Trento.

Crediti immagine: Kenny Eliason/Unsplash

Se ne parla forse troppo poco, almeno rispetto ad altri ambiti applicativi dell’intelligenza artificiale. Eppure, quello del rapporto fra AI ed educazione è forse il tema più trasversale all’intera società: non solo nell’apprendimento scolastico ma in ogni ambito, la formazione delle persone deve fare i conti con le possibilità aperte dall’IA.