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Italia, innovazione sì ma senza ricerca

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Nell'ultimo decennio l'economia italiana ha segnato il passo, sia in prospettiva storica sia rispetto ai principali paesi europei. E' opinione diffusa che questo andamento rifletta problemi strutturali irrisolti, resi più pressanti dai notevoli cambiamenti che hanno caratterizzato l'economia mondiale."

"Vi sono fattori interni alle imprese italiane che, pur avendo origini lontane, le rendono più vulnerabili ai cambiamenti del contesto internazionale . In primo luogo sono carenti lo sforzo innovativo e l'adozione di nuove tecnologie ....."

"Nelle imprese italiane risultano contenuti sia l'investimento in ricerca e sviluppo sia l'output  innovativo per effetto di una specializzazione settoriale sbilanciata verso produzioni tradizionali a basso contenuto tecnologico, una elevata frammentazione produttiva che rende difficile sfruttare le economie di scala insite nell'attività di ricerca ....."

In queste tre citazioni, riprese dal N° 45 di Questioni di Economia e Finanza di Banca d'Italia, si  possono riassumere alcune delle principali risultanze contenute nelle oltre 165 pagine del Rapporto sulle tendenze del sistema produttivo italiano, elaborato da una folta schiera di ricercatori.

La principale novità di questo Rapporto sta nel riconoscimento di una difficoltà di tenuta economica del Paese - da non confondere con la crisi economica internazionale - connessa con un sistema produttivo che sembra non coinvolto nei processi d'innovazione tecnologica che caratterizzano tutte le economie avanzare e, ormai, non solo più quelle. In sostanza realizziamo prodotti/servizi che non richiedono uno sforzo particolare in materia di ricerca ma che, nel contempo, corrispondono ad una dinamica della domanda mondiale mediamente inferiore a quella generale, alla creazione di un valore aggiunto altrettanto inferiore, a una minore necessità di qualificazione del lavoro.  

Questa debolezza strutturale è, per la verità, nota da tempo e riscontrabile da almeno venti anni e poiché si tratta, come è comprensibile, di una questione essenziale per lo sviluppo del Paese, la prima osservazione nasce dal ritardo con il quale un'analisi del genere diventa pressoché una novità nel panorama della pubblicistica del settore. La questione non è accademica perché è evidente che in questi venti anni si è pensato e si è attuata una politica economica ignorando le cause principali delle difficoltà reali del paese. Per la verità qualche allarme e qualche richiamo c'erano già stati ma non erano penetrati nella considerazione degli interessi economici del paese.  Non a caso, nel senso che una considerazione approfondita di questa anomalia italiana avrebbe portato a smontare in buona misura la validità delle politiche sul costo eccessivo del lavoro, sull'eccessiva presenza dello stato nell'economia, ecc., che hanno costituito invece i pilastri della nostra politica industriale. Tutte questioni che al di là della loro validità o meno e della loro discutibile condivisione, avevano il pregio di portare l'acqua ad un ben determinato mulino, cosa che è successa anche con le questioni degli incentivi alle imprese per le spese in Ricerca, superiori a quelli concessi negli altri paesi dell'Unione, ma con gli esiti ben noti. Questa apparente contraddizione - e cioè un incentivo pubblico superiore per un risultato peggiore - richiederebbe, per la verità, qualche ulteriore approfondimento, che rinviamo ad altra occasione, prima di poter definire le politiche d'intervento.  

La questione ora si pone nei termini per cui se a suo tempo forse qualche aspirina avrebbe potuto essere una cura sufficiente, attualmente con i ritardi accumulati nemmeno gli antibiotici sono ormai più sufficienti.  I vincoli strutturali come quelli segnalati dal Rapporto richiedono per essere affrontati, nuovi strumenti e nuovi attori. Ed è su questi aspetti che il Rapporto paga ancora un prezzo elevato ai  ritardi precedenti nel senso che se tra i provvedimenti richiesti si colloca, ad esempio, quello di "estendere il grado di concorrenza" come si legge nel Rapporto, allora non solo si ripetono ricette già note ma non si comprende nemmeno come si dovrebbe produrre quel livello di capacità in qualche misura esclusiva,  almeno per un certo periodo di tempo, che caratterizza una effettiva capacita tecnologica competitiva.  Se, sempre come si intuisce dalla lettura del Rapporto, occorre privilegiare la domanda di risorse finanziarie per la ricerca da parte delle imprese, anche a scapito della ricerca pubblica, allora il disastro sarà accelerato e senza ritorno perché avremo distrutto anche le sedi residue della conoscenza  scientifica e tecnologica di questo paese.


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