Galileo: cose mai viste prima

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Galileo Gali

Il sistema dei pianeti “l’ho fatto con perfetto telescopio toccar con mano a chiunque l’ha voluto vedere”, diceva di sé Galileo Galilei nel Saggiatore (1623: citiamo dall’Edizione Nazionale delle Opere, viii, p. 233). Qualche secolo dopo, non troppo diversamente si esprimerà un poeta (ma anche filosofo e scienziato) come Johann Wolfgang Goethe: “Vedo con occhio che sente” – ma alludeva alle belle forme di una fanciulla oggetto del suo desiderio e che lui “spiava” nelle ore notturne (e intanto “mi erudisco”, confessa), con una passione non meno intensa di quella che aveva spinto “l’artista toscano” – così John Milton chiama Galileo nel Paradiso perduto – a spiare la Luna (1610) o “la madre degli amori”, cioè il pianeta Venere (1611). C’è un singolare intreccio di due sensi, il tatto e la vista, e della volontà – o se si preferisce del desiderio. Non diversamente da Aristotele o da Berkeley, Goethe capiva come quella che chiamiamo anima altro non è che l’estensione del corpo fino alla stella più lontana che riusciamo a scorgere. Di suo, Galileo aveva mostrato come uno strumento – il suo “tubo ottico” o “cannocchiale”, che poi i Gesuiti del Collegio Romano ribattezzeranno telescopio – si rivelasse una protesi meravigliosa che ingigantiva quel tipo di anima!

La scienza di oggi, con microscopi, camere a bolle e sistemi che ci permettono di raffigurare quel che avviene nel nostro cervello, gli ha dato sostanzialmente ragione. Nel luglio del 1609 un amico aveva informato Galileo, allora “filosofo e matematico” dell’Università di Padova, che un “occhiale che fa vedere le cose lontane” era reperibile in varie città d’Europa (compresa Milano). Da millenni, per osservare a occhio nudo un oggetto lontano senza farsi confondere dalla luce si ricorreva a un tubo; da qualche secolo si usavano lenti per correggere i difetti della vista; ma mettere “due dischi di vetro alle estremità di un tubo di piombo” fu la novità della fine del Cinquecento. Nel suo Vedere per credere (Einaudi, Torino 2000), Richard Panek ci racconta dei due Digges, il matematico e ribelle Leonard e suo figlio, il copernicano Thomas, che avevano pensato di sfruttare quei “cannoni” per guardare non visti “ciò che avveniva in alcune case private a sette miglia di distanza.” I voyeur dell’epoca pare li usassero per contemplare impunemente le ragazze che si spogliavano ai piani alti delle locande; ma in quella stessa Inghilterra c’era chi aveva cominciato a servirsene per scrutare la superficie lunare. Il 24 agosto Galileo faceva sapere al Doge della Serenissima di possedere uno di quei “tubi” che permetteva di scorgere le navi nemiche prima che le si vedesse a occhio nudo. Qualche giorno dopo, Giambattista Della Porta, “mago” che si riteneva esperto di ottica, liquidava l’intero affare come “coglionaria”, mentre Galileo dedicava l’estate e l’autunno a migliorare il suo apparecchio. Il 30 novembre si collocava con cannocchiale e attrezzi da pittore nel giardino sul retro di casa, accingendosi a studiare anche lui la Luna e altri astri. Nel marzo del 1610, nel Sidereus Nuncius, dichiarava la natura stellare della Via Lattea, rendeva pubblica la scoperta di quattro “lune” o satelliti di Giove, descriveva la superficie della nostra Luna come fatta di valli e di montagne non diversamente dalla Terra. Alla lettera, il titolo del testo vuol dire “messaggio proveniente dalle stelle”; presto, però, venne interpretato come “messaggero celeste”. Più di un decennio dopo i colleghi dell’Accademia dei Lincei, nel dedicare il Saggiatore a papa Urbano viii (Maffeo Barberini, anch’egli cultore di astronomia), definivano l’autore come “il fiorentino scopritore non di nuove terre, ma di non vedute parti del cielo”. (Opere, vi, p. 201) Quello che rappresentavano le navi nella conquista del Nuovo Mondo circa un secolo prima, ora lo erano gli strumenti a rifrazione per modellare una nuova immagine del cosmo.

Galileo, però, non solo descriveva, come aveva fatto prima di lui Thomas Harriot, ma spiegava i nuovi fenomeni che lo strumento via via gli rivelava. Il terminatore, cioè la linea che separa la parte oscura da quella illuminata della Luna, era già apparso frastagliato negli schizzi dell’inglese. Ma il nostro “navigatore fiorentino” era adesso in grado di renderne ragione perché interpretava la cosa come una conseguenza della struttura scabra della Luna, irta di monti e di valli non meno della Terra. Così, assumendo che valessero per il cielo le stesse leggi fisiche che valgono per il nostro Globo, Galileo si sentiva autorizzzato a mandare in pezzi la tradizionale cosmologia aristotelica. La spiegazione della maggior forza esplicativa del suo approccio rispetto a quello di Harriot ci è stata fornita, guarda caso, da uno storico dell’arte. In un pregevole testo dal titolo Galileo critico delle arti Erwin Panofsky (1892-1968), lo studioso della “prospettiva come forma simbolica”, mostrava come Galileo fosse capace di risalire da un gioco di chiaro e scuro, che appariva piatto nell’oculare del telescopio, alla struttura tridimensionale che lo aveva generato proprio per la sua dimestichezza con la pittura. Come scrive Panofsky, Galileo era anche grande esperto di arti figurative e “sia come scienziato che come critico d’arte si può dire che egli abbia obbedito alla stessa inclinazione al controllo.” (Citiamo dalla versione italiana a cura di M.C. Mazzi, Cluva editrice, Venezia 1985). A buon diritto lo storico dell’arte insiste sull’amicizia tra Galilei e il pittore e critico Lodovico Cigoli, e si basa su una lettera del primo al secondo del 26 giugno 1612, ove col consueto impeto lo scienziato si getta nella controversia se la palma dell’eccellenza debba spettare alla scultura o alla pittura: “È tanto falso che la scultura sia più mirabile della pittura, per la ragione che quella abbia il rilevo e questa no, che per questa medesima ragione viene la pittura a superar di meraviglia la scultura: imperciocché quel rilevo che si scorge nella scultura, non lo mostra come scultura, ma come pittura. Mi dichiaro. Intendesi per pittura quella facoltà che col chiaro e con lo scuro imita la natura.” (Opere, xi, p. 340)

Si spiega così l’apparente confusione di vista e tatto nella straordinaria battuta del Saggiatore da cui abbiamo preso le mosse. Qualche studioso ha messo in dubbio l’autenticità della lettera al Cigoli. Ma poco importa, perché su tale questione Galileo ritorna nella grandiosa chiusa della Giornata prima del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), dove il personaggio di Sagredo, commentando “l’acutezza dell’ingegno umano” e passando in rassegna le “tanto maravigliose invenzione trovate da gli uomini, sì ne le arti come ne le lettere”, dà nuovamente il primato alla pittura che imita in piano una struttura tridimensionale contro la scultura che riproduce le forme restando nelle tre dimensioni. Salvo poi, con un colpo di genio, concludere che “sopra tutte le invenzioni stupende” spicca “quella di colui che si immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo.” Qui la nuova protesi è niente di meno che la parola scritta, se non addirittura la carta stampata. Ed è questa che ci consente di “parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni”. E tutto grazie ai “vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta” (Opere, vii, p. 130).

Mi sia lecito riprendere un’affermazione del mio maestro Ludovico Geymonat, che al “navigatore fiorentino” dedicò non pochi studi. Sembra naturale pensare che scrittura alfabetica e arte della stampa includessero, per l’autore del Dialogo, anche la notazione matematica della quale, nel Saggiatore, era stato tracciato l’elogio come chiave interpretativa dell’Universo e strunento di critica. Il punto è che con Galileo l’emancipazione del corpo (il potenziamento dei sensi) va di pari passo con la liberazione della mente, grazie al carattere generativo del calcolo aritmetico e alla capacità rappresentativa della geometria. Il Galileo pittore, che aveva fornito al tipografo del Sidereus Nuncius le sue raffigurazioni della Luna, cede al Galileo che utilizza il diagramma geometrico per illustrare le concezioni della nuova filosofia matematica. Non c’è contraddizione in tutto questo, bensì lo sviluppo di un programma di ricerca imperniato sull’eccellenza dei “caratteri geometrici” con i quali è scritto il Libro del mondo. Che ce lo abbia fatto capire uno storico dell’arte non è che una prova ulteriore della vanità dei cosiddetti confini disciplinari. Faccio mia una battuta di uno studioso di fisica quantistica e teoria della computazione del nostro tempo (Ignazio Licata, La logica aperta della mente, Codice, Torino 2008): “L’unità tra arte, scienza e filosofia non è una conquista postmoderna. C’è sempre stata ed è la radice di ogni conoscenza.” Occorreva proprio guardare la Luna, “la cui orbita attraverso il vetro ottico osserva l’artista toscano la sera dalla vetta di Fiesole o in Valdarno, a distinguere nel globo maculato nuove terre, nuove montagne o fiumi.” (Milton, Paradiso perduto, i, 287-291).

Questo testo è una rielaborazione del discorso tenuto in occasione dell’apertura della mostra Guarda che Luna… a cura di Anna Maria Lombardi e Agnese Mandrino, organizzata da INAF – Osservatorio Astronomico di Brera presso la Biblioteca Braidense. Desidero ringraziare, in particolare, Luca Guzzardi, Tommaso Maccacaro, Alessandro Manara, Giovanni Paresch

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