fbpx Una dieta per l'Antropocene | Scienza in rete

Una dieta per l'Antropocene

Primary tabs

Tempo di lettura: 6 mins

Un recente rapporto pubblicato su The Lancet suggerisce che in una dieta insieme sana e sostenibile per il pianeta la maggior parte delle proteine della nostra alimentazione dovrebbe provenire da legumi e frutta secca. Crediti: zuzyusa/Pixabay. Licenza: Pixabay License

Se è vero che mitigare il cambiamento climatico impica una strategia complessa che include anche un mutamento negli stili alimentari (come abbiamo argomentato in un precedente contributo su Scienza in rete), un recente rapporto di un gruppo di lavoro sulla “dieta per l’Antropocene” giunge tempestivamente. L’era geologica dell’Antropocene è l’era attuale, in cui l’umanità è il motore dominante nella trasformazione della Terra. Non entriamo nelle definizioni (visto che il concetto non è da tutti accettato), ma è chiaro al di là di ogni dubbio che l’entità dell’intervento umano sul Pianeta ha raggiunto livelli insostenbili. Con una crescita della popolazione prevista fino a 10 miliardi nel 2050, è cruciale che prevediamo e preveniamo l’impatto dei nostri stili di vita sul Pianeta.

L’attuale produzione di cibo è nociva per la salute ed ecologicamente insostenibile: ci riferiamo ai cosiddetti cibi loose-loose, che hanno un effetto negativo sia sulla salute sia sull’ambiente. Si tratta prevalentemente di cibi ad alto contenuto di zuccheri, grassi saturi, carne rossa e cibi processati o ultra-processati. Le conseguenze per l’ambiente sono molteplici: perdita della biodiversità a causa dell’aumentato uso del territorio, impoverimento delle fonti d’acqua e aumento dei gas serra.

L’agricoltura occupa oggi il 40% della terra emersa e causa un quota variabile (a seconda delle stime) tra l’11% e il 30% dei gas serra. La commissione che sta alla base del rapporto sull’Antropocene è un gruppo indipendente di scienziati che ha utilizzato i dati più recenti per una valutazione globale del problema. Il rapporto si è incentrato sull’alimentazione di soggetti sani di età superiore a due anni e per un assunzione calorica quotidiana di 2500 calorie. Benché questo valore calorico sia superiore a quello raccomandato, tiene conto del fatto che l’Indice di Massa Corporea (BMI) medio non è 22, come dovrebbe essere, ma è attualmente superiore (tra l’altro, il BMI non ha valore universale ed è una misura con limiti intrinseci, anche se semplice da usare).

Il rapporto conviene sul fatto che le fonti animali di proteine sono per alcuni aspetti di migliore qualità rispetto alle fonti vegetali (per esempio per alcuni aminoacidi essenziali e vitamine), ma una dieta vegetariana ben bilanciata può prevenire il 12% della mortalità, come mostrano diverse ricerche prospettiche. Usando sistemi di punteggi in cui la carne rossa viene penalizzata e le diete a base di vegetali vengono promosse, è stata osservata un'associazione lineare con il rischio di diabete di tipo 2 e di malattie cardiovascolari.

Proteine dai vegetali

La carne rossa non è essenziale ed è associata linearmente con la mortalità. Benché l’ideale sarebbe di 0 grammi/giorno, in considerazione del potere nutrizionale della carne e delle incertezze sugli effetti di consumi molto bassi, la commissione ha stabilito il consumo a meno di 28 g/giorno con un valore medio di 14. Il pollame è associato con esiti di salute più favorevoli rispetto alla carne rossa e il suggerimento è di consumarne meno di 58 g/giorno con un valore medio di 29. Per i prodotti caseari si propone un consumo non superiore a 500 g/giorno (ma non troppo inferiore per non incrementare il rischio di fratture negli anziani); la quantità media suggerita è di 250 g al giorno. Alti livelli di consumo di pesce sono positivi per la salute e si raccomandano pertanto fino a 100 g/giorno (livello medio di 28). Le uova vanno consumate con parsimonia (1,5 per settimana). Sono raccomandati 50 grammi di noci o altra analoga frutta secca per settimana, e 50 g/giorno di piselli, lenticchie o fagioli. I carboidrati dovrebbero essere limitati a meno del 60% delle calorie (con una media di 232 g/giorno di granaglie e 50 g/giorno di tuberi come le patate). Verdure: sono raccomandati 300 g/giorno, e frutta 200 g/giorno. Zucchero e altri dolcificanti dovrebbero rappresentare meno del 5% delle calorie.

L’insieme di questi suggerimenti comporta che la maggior parte delle proteine nella dieta dovrebbe venire da cibi di origine vegetale, legumi e frutta secca, con il pesce e il pollame opzionali, poche uova e poca o nessuna carne rossa. Queste indicazioni consentono molta flessibilità nelle raccomandazioni dietetiche. Al momento attuale nelle diete occidentali c’è in particolare una grave carenza di noci e legumi. Con questa dieta gli autori del rapporto stimano che si potrebbero evitare 11 milioni di morti all’anno da malattie legate all’alimentazione entro il 2050.

Gli effetti sull’ambiente

La commissione ha usato il modello dei nove “confini planetari” (o safe planetary boundaries) dello Stockholm Resilience Centre per stabilire l’impatto sull’ambiente della produzione di cibo. Il concetto centrale è la necessità di usare un punto di vista planetario. L’attuale sistema di produzione del cibo comporta grandi emissioni di gas serra, e l’uso crescente del territorio porta a un ulteriore peggioramento. Solo per fare un esempio, per produrre 225 g di patate, pomodori, pollo e bovini si producono emissioni di CO2 equivalenti a quelle prodotte guidando un’auto per 300 m, 320 m, 1,7 Km e 15,8 Km, rispettivamente.

L’agricoltura e l’uso del territorio dovranno passare entro il 2050 dall’essere una sorgente positiva di immissioni di carbonio a una fonte di assorbimento (carbon sink). Attualmente le cifre di emissioni per anno disaggregate per categoria sono: 5.0-5.8 GT di CO2-equivalenti dalle produzioni agricole; 2.2-6.6 GT dalla conversione di ecosistemi; 0.3 GT dalla combustione di biomassa; 1 GT dal macchinario agricolo.

Naturalmente solo una parte di queste emissioni sono evitabili e intervenire su di esse dipende dal costo-efficacia a confronto con altre soluzioni, ma anche dagli altri tipi di impatto delle produzioni agricole. Per esempio, la produzione di riso e grano è responsabile di un terzo fino a metà della pressione su altri sistemi diversi dalla emissione di gas serra. La commissione ha infatti considerato anche l’impatto della produzione di cibo sul consumo di territorio e di acqua secondo il principio dei safe planetary boundaries (i sei sistemi esaminati nel rapporto sono il cambiamento climatico, il consumo di acqua, l’uso del territorio, la perdita di biodiversità e l’interferenza con i cicli dell’azoto e del fosforo). Per esempio, non solo le emissioni di CO2 per grammo di proteine sono 200 volte minori per i legumi che per la carne, ma anche il consumo di acqua nella loro produzione è 5-6 volte minore e analogamente il consumo di territorio.

Il consumo di territorio nella Comunità Europea, in Russia in Nord America si è ridotto dagli anni ’50 del secolo scorso, con un incremento invece nelle regioni tropicali. Il Brasile tra il 2000 e il 2014 ha perso 2.7 milioni di ettari, e l’Indonesia 1.3 milioni (in particolare nelle foreste primarie). Dal momento che la riforestazione ha un impatto positivo sull’assorbimento di anidride carbonica, si propone la strategia della “metà Terra”: nel 50% del territorio ancora intatto si propone di mantenere gli ecosistemi inalterati e questo comporta una redistribuzione nell’uso agricolo del territorio a livello mondiale. Altre strategie proposte includono un risparmio del 50% sugli sprechi di cibo, la decarbonizzazione della produzione e distribuzione del cibo, e l’intensificazione tecnologica della produzione di cibo per ridurre l’uso di territorio.

Questi temi sono stati precedentemente trattati da Scienza in rete, in particolare nell’articolo dei nutrizionisti Mauro Serafini, Daniele Del Rio e Maurizio Battino. Le loro conclusioni sono molto simili a quelle degli autori del rapporto:

L’analisi di questi dati suggerisce come sia fondamentale valutare l’impatto ambientale del cibo in associazione con il valore nutrizionale e funzionale, valutando per ogni situazione costi e benefici del rapporto impatto ambientale/valore salutistico al fine di suggerire regimi alimentari (apporti raccomandati e frequenza) in grado di tutelare la salute dell’uomo e quella del pianeta.

 

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Biodiversità urbana: com'è cambiata e come proteggerla

Anche le metropoli possono essere ambienti ricchi di specie: secondo un recente studio sono ben 51 le specie di mammiferi che vivono a Roma, alcune di esse sono specie rare e protette. Nel corso degli ultimi due secoli, però, molte specie sono scomparse, in particolare quelle legate alle zone umide, stagni, laghetti e paludi, habitat importantissimi per la biodiversità e altamente minacciati.

Nella foto: Parco degli Acquedotti, Roma. Crediti: Maurizio.sap5/Wikimedia Commons. Licenza: CC 4.0 DEED

Circa la metà della popolazione mondiale, vale a dire ben 4 miliardi di persone, oggi vive nelle città, un fenomeno che è andato via via intensificandosi nell’epoca moderna: nell’Unione Europea, per esempio, dal 1961 al 2018 c’è stato un costante abbandono delle zone rurali e una crescita dei cittadini, che oggi sono circa i