newsletter finesettimana #67
finesettimana #75 / 27 giugno 2022 a cura di Chiara Sabelli
Buon lunedì,
questa settimana parliamo dello sviluppo partecipato di un algoritmo per
la raccolta di controdati sui femminicidi partendo dall'analisi delle notizie online.
Affinché l'algoritmo sia efficace per gruppi minoritari e vulnerabili
è fondamentale coinvolgere le attiviste durante tutto il processo, dalla costruzione del database di allenamento,
all'elaborazione del modello, fino al test "sul campo". Servono tempo e risorse. Il progetto è stato coordinato da Catherine D'Ignazio,
direttrice del Data + Feminism Lab dell'MIT.
Poi, alcuni suggerimenti di lettura dai giornali internazionali.
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Controdati sui femminicidi: sviluppo partecipato di un algoritmo
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Se mi chiedessero quali aggettivi faticherei di più ad accostare al termine “algoritmo” includerei di certo “artigianale”. Un prodotto di artigianato è fatto a mano, richiede tempo, è un pezzo unico e non può essere prodotto in serie. A volte viene ideato per una persona specifica e mal si adatta ai gusti e alle caratteristiche di altri. Eppure, l’ultimo progetto coordinato da Catherine D’Ignazio, direttrice del Data + Feminism Lab del Massachusetts Institute of Technology, mi ha aiutato a vedere come un algoritmo possa in un certo senso essere artigianale e personalizzato, soprattutto se sviluppato a beneficio di un gruppo di persone che, per questioni di potere o di numerosità, può essere considerato minoritario.
D’Ignazio e i suoi collaboratori hanno lavorato allo sviluppo di un algoritmo per automatizzare la ricerca di notizie online relative a casi di femminicidio e più in generale di uccisioni per motivi legati al genere, coinvolgendo oltre trenta associazioni statunitensi e sudamericane che raccolgono controdati su questo fenomeno. Con l’espressione controdati si intende dati alternativi o complementari a quelli raccolti dai governi e dalle istituzioni, che in questo modo vengono messi sotto pressione dagli attivisti e spinti prima ancora che a intervenire a riconoscere che il problema esiste. Perché, come ha scritto la geografa femminista Joni Seager: “conta ciò che viene contato”.
La prima versione dell’algoritmo, sviluppato in inglese e spagnolo, è risultata soddisfacente per tutte le associazioni coinvolte, tranne due che monitorano due tipi specifici di femminicidio. Si tratta dell’African American Policy Forum, che si concentra sulla violenza della polizia statunitense contro le donne nere nell’ambito della campagna #SayHerName e del Sovereign Bodies Institute, che ha costruito e mantiene il database MMIWG2 sulle donne, ragazze e two-spirit people, cioè persone LGBTQ+, di origine nativa americana uccise o scomparse dal 1900 a oggi.
Per rendere l’algoritmo utile alle attività delle due associazioni, D’Ignazio e collaboratori hanno messo a punto un processo iterativo di co-sviluppo. Le attiviste hanno condiviso con gli informatici il tipo di notizie a cui sono interessate, identificando un insieme di parole chiave. Gli informatici hanno quindi sviluppato una prima versione dell’algoritmo che è stata valutata dalle attiviste nella loro pratica quotidiana sia in modo quantitativo che qualitativo restituendo quindi dei feedback agli informatici che hanno così raffinato il modello. Questa procedura è stata ripetuta fin quando le performance dell’algoritmo sono state ritenute adeguate dalle associazioni, almeno in via preliminare. L’ultima fase di test prolungato sul campo è tuttora in corso.
L’approccio tenuto da D’Ignazio è ispirato dai principi del femminismo intersezionale, un termine coniato dall’avvocata e attivista statunitense Kimberlé Crenshaw, e che si riferisce ai movimenti che si battono per i diritti delle donne tenendo conto della diversità delle loro esperienze che possono portare anche a maggiori livelli di discriminazione. Per esempio, le donne nere negli Stati Uniti subiscono più discriminazioni di quelle bianche. Maschilismo e razzismo hanno radici comuni e per questo combatterli entrambi rappresenta un beneficio sia per le donne nere che per quelle bianche. Continua a leggere su Scienza in rete
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