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La terapia genica fa due gol, e cura due malattie rare

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Osare definire storici i due studi pubblicati su Science, in cui si riportano i risultati ottenuti al TIGET di Milano rispettivamente nei confronti della leucodistrofia metacromatica e della sindrome di Wiskott Aldrich, non è un’esagerazione. Per la prima volta, infatti, si può parlare di una cura efficace nei confronti di due malattie che fino a oggi davano poche (o nessuna) speranza. E il trattamento unisce due eterne promesse, finora per lo più disattese, della medicina moderna, che finalmente, messe insieme, sembrano funzionare: la terapia genica e le cellule staminali. Di queste ultime, delle loro potenziali risorse come “pezzi di ricambio”, e delle tante aspettative deluse che hanno provocato, si è parlato fin troppo negli ultimi mesi. Per quanto riguarda la terapia genica, poi, l’idea, apparentemente semplice, che, una volta noto il gene difettoso, sarebbe bastato sostituirlo con uno corretto si scontrò con la realtà non appena, all’inizio degli anni Novanta, si cominciò a sperimentarla in clinica: da un lato era difficile far lavorare in maniera abbastanza efficiente i geni che si introducevano nell’organismo, in modo da produrre una quantità sufficiente della proteina mancante; dall’altro il rischio di effetti collaterali gravi, per esempio leucemie, era sempre in agguato. Nel 1996 Luigi Naldini, attuale direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (TIGET)  di Milano, ebbe però un’intuizione che allora sembrò temeraria, ma che oggi si rivela vincente: utilizzare come vettore dei geni da introdurre nella cellula il virus dell’AIDS, privato di tutte le sue componenti patologiche.

È stato questo usato il metodo usato nei confronti di entrambe le malattie di cui si parla oggi. Un approccio più immediato nel caso della sindrome di Wiskott- Aldrich, una malattia ematologica che, oltre a compromettere le difese dell’organismo e predisporre a molte altre malattie, facilita le emorragie. In questo caso le staminali ematopoietiche, prelevate dal midollo osseo del paziente, corrette e poi reinfuse, hanno sostituito quelle malate, dando origine a un sistema immunitario e funzionante e a piastrine normali. La sfida è stata un po’ più ardua nei confronti della malattia neurodegenerativa, la leucodistrofia metacromatica, in cui le cellule staminali dovevano arrivare al cervello e rilasciare la proteina corretta in quantità sufficiente a essere raccolta dalle cellule nervose circostanti.  Ma le cellule ingegnerizzate hanno funzionato, e nessuno dei tre bambini sembra per ora rispettare l’implacabile calendario della malattia, scandita dalla perdita progressiva di tutte le capacità cognitive e motorie, per cui oggi dovrebbero essere già compromessi.

Così, inevitabilmente, nell’aula dell’Istituto San Raffaele gremita di ricercatori e giornalisti per la conferenza stampa di presentazione di questi incredibili risultati, il convitato di pietra era Davide Vannoni.  Nessuno degli intervenuti ha nominato lui, né la Stamina Foundation, ma ogni volta che si citava la leucodistrofia metacromatica il pensiero correva alla piccola Sofia, col cui nome ormai, almeno in Italia, è conosciuta questa malattia. «Quando i genitori della bambina si sono rivolti a noi, purtroppo, la malattia era già in fase troppo avanzata per poterla inserire nello studio» spiega con rammarico Alessandra Biffi, che ha condotto questa sperimentazione. Una delle chiavi del successo è stata infatti la precocità del trattamento, somministrato al manifestarsi dei primi sintomi, o addirittura prima che comparissero, in fratellini di pazienti destinati ad ammalarsi anche loro: in tutti l’analisi del DNA aveva infatti sentenziato la stessa mutazione genetica, responsabile di un difetto dell’enzima arilsulfatasi, e quindi la stessa prognosi senza speranza.  «Non sapevamo se avrebbe funzionato, e non potevamo escludere possibili rischi» ricorda commossa la ricercatrice, che oggi non riesce a trattenere la gioia, davanti a un risultato che va al di là delle aspettative: questi tre bambini che stanno bene, in cui il beneficio della terapia è innegabile, e altri sette che promettono altrettanto bene ma per cui è ancora troppo presto per dichiarare vittoria.

Altrettanto felice è la mamma di Jacob, uno dei tre piccoli affetti da sindrome di Wiskott-Aldrich: «La diagnosi è arrivata quando aveva solo quattro mesi» racconta la giovane signora, di origine indiana, ma che vive sulla costa orientale degli Stati Uniti. «L’unica speranza era un trapianto di midollo, ma non c’era un donatore compatibile. Poi ci hanno parlato di Alessandro Aiuti, e della sperimentazione clinica che stava per cominciare a Milano: con la cura, la vita di mio figlio è cambiata». Mentre prima ogni piccolo trauma provocava emorragie e il rischio di un’infezione era sempre in agguato, dopo il trattamento il bambino e la sua famiglia hanno cominciato ad assaporare quello che è il sogno di tutte le persone coinvolte in queste terribili malattie: una vita normale.

È uno splendido dono che la ricerca italiana, finanziata con 19 milioni di euro provenienti da Telethon, ha regalato a bambini provenienti da vari Paesi del mondo. Due di loro vivono negli Stati Uniti, eppure hanno fatto un viaggio della speranza controcorrente rispetto a quelli usuali, trovando in Italia una guarigione che ha poco di miracoloso. È piuttosto frutto del lavoro di una settantina di persone tra ricercatori e clinici, che hanno lavorato sodo per 15 anni, non senza battute di arresto e momenti di scoraggiamento, per raggiungere questo risultato.  «Un risultato che non abbiamo mai garantito, nemmeno quando portavamo in televisione gli ammalati e le loro famiglie per chiedere aiuto agli italiani attraverso le nostre maratone» precisa Francesca Pasinelli, direttore generale di Telethon. «Quello che abbiamo promesso era un impegno, e lo abbiamo mantenuto» aggiunge. Dopo aver rivendicato il fatto di non aver mai fatto false promesse, Pasinelli sottolinea i metodi rigorosi seguiti nella ricerca, il ricorso alle costose ma sicure cell factories che si attengono alle norme GMP, cioè di “buona pratica clinica”, l’adesione a tutti i passaggi richiesti dalle autorità regolatorie che, ci tiene a sottolineare «sono a tutela dei pazienti. Perché nessuna malattia è tanto grave, e nessun paziente tanto compromesso, da non meritare ogni cautela, e il migliore dei trattamenti possibili». E poi ancora ricorda come i ricercatori si sono sottoposti pazientemente ai severi scrutini della commissione internazionale indipendente che decide periodicamente  se riconfermare l’assegnazione dei fondi, e a volte abbiano accettato di allungare il percorso per seguire le indicazioni ricevute, in vista di una maggiore sicurezza. Infine, i loro dati, raccolti e documentati, sono stati passati al vaglio di una delle due più importanti riviste del mondo. E solo dopo aver superato quest’ultimo esame hanno comunicato al pubblico i loro risultati, parlando di successo.

No, nessuno ha nominato Davide Vannoni  e Marino Andolina, nessuno ha accennato alla Stamina Foundation, ma nessuno, allo stesso modo, ha potuto fare a meno di notare la differenza nel metodo di lavoro, nell’umiltà e nella serietà della comunicazione di questi scienziati e di chi li sostiene, rispetto ai facili slogan dell’esperto in processi persuasivi e del suo staff. Roberta Villa

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